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Nella celebrazione della liturgia di san Giacomo

Gerusalemme

madre di tutte le Chiese

di Manuel Nin

La tradizione liturgica bizantina, oltre alle anafore di san Giovanni Crisostomo e di san Basilio Magno, conosce quella attribuita a san Giacomo, fratello del Signore e primo vescovo di Gerusalemme, nei libri liturgici «fratello di Dio». Caduta quasi in disuso, l’anafora viene adoperata nella celebrazione della Divina liturgia del 23 ottobre, festa liturgica del santo. A Roma, da quasi mezzo secolo, per iniziativa del rettore del Pontificio collegio greco, l’archimandrita Olivier Raquez, l’anafora si celebra nella domenica più vicina (quest’anno il 25). Tradizione mantenuta dal collegio nella sua chiesa di Sant’Atanasio al Babuino.

Usata molto spesso dalla tradizione siro-occidentale e conservata in siriaco, greco, armeno, georgiano, etiopico, l’anafora ebbe molta importanza durante il primo millennio. Di origine gerosolimitana, ha molti riferimenti a personaggi veterotestamentari (Abele, Noè, Abramo, Zaccaria), ai luoghi santi, alla Gerusalemme celeste ed è stata elaborata tra la fine del iii secolo e il vii. Nelle diverse litanie poi sono invocati, oltre alla Madre di Dio, Giovanni Battista, i profeti, gli apostoli, i martiri, Mosè, Aronne, Elia, Eliseo, Samuele, Davide, Daniele.

L’anafora di san Giacomo viene centrata tra due grandi movimenti di lode a Dio, per la sua opera creatrice di Dio e per la santificazione operata da Cristo per mezzo dello Spirito. Ma Giacomo non enumera i consueti attributi apofatici di Dio — invisibile, incomprensibile, incommensurabile — e si limita a tre titoli: «creatore di tutte le cose, tesoro dei beni, sorgente di vita e di immortalità». Vengono invece a lungo elencate le schiere di coloro che sono chiamati a questa lode: i cieli, il sole, la luna, la terra, il mare; e ancora: la Gerusalemme celeste, la Chiesa dei primogeniti, i giusti, i profeti, i martiri, gli apostoli, i cherubini, i serafini. È dunque tutta la Chiesa che loda Dio.

Prima della narrazione dell’istituzione dell’eucaristia e dell’epiclesi, Giacomo narra la storia della salvezza, adoperando tutta una serie di espressioni verbali — «hai avuto compassione, hai creato l’uomo, lui cadde, non lo hai disprezzato, non lo hai abbandonato, ma corretto, richiamato, guidato» — e aggiungendo: «hai inviato nel mondo il tuo proprio Figlio unigenito, nostro Signore Gesù Cristo, perché egli con la sua venuta rinnovasse e risuscitasse la tua immagine». L’autore mette in rilievo come la venuta di Cristo rinnovi nell’uomo l’immagine di Dio, secondo la visione della storia della salvezza di Padri come Ignazio di Antiochia, Ireneo, Origene.

Viene poi invocato il dono dello Spirito: «Manda su di noi e su questi santi doni che ti presentiamo il tuo Spirito santissimo, Signore e vivificante, consustanziale e che condivide l’eternità». E come frutto della santificazione dello Spirito la liturgia chiede che i doni diventino corpo e sangue di Cristo e che la Chiesa venga santificata e rimanga stabile nella roccia della fede.

Nell’anafora l’azione dello Spirito viene strettamente collegata alla sua azione lungo tutta la storia della salvezza: è lui infatti che «ha parlato nella Legge, nei profeti e nella nuova alleanza». L’epiclesi ha pure una chiara dimensione ecclesiologica, che è sottolineata di nuovo nella grande preghiera di intercessione alla fine dell’anafora, con tracce chiaramente riconducibili alla tradizione di Gerusalemme: «A sostegno della tua santa Chiesa cattolica e apostolica che hai stabilito sulla roccia della fede, ti offriamo questo sacrificio per la tua santa e gloriosa Gerusalemme, madre di tutte le Chiese. Ricordati di questa santa tua città, ricordati Signore di tutti i cristiani che sono andati o si recano nei luoghi santi di Cristo», una preghiera che si leva in questi giorni con particolare intensità e in comunione con tutti i cristiani.

Infine la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo porta la comunità, la Chiesa alla pienezza della forza dello Spirito. Questo dono divino invocato sulla comunità viene dato attraverso la comunione. Così lo Spirito costruisce il corpo di Cristo nella Chiesa per mezzo della santificazione, della divinizzazione di quanti si comunicano.

Celebrare la liturgia di san Giacomo, se non altro una volta all’anno, significa celebrare il mistero della morte e risurrezione del Signore con una liturgia che ci mette di fronte ad aspetti teologici, ecclesiologici, liturgici e anche architettonici un po’ diversi da quelli a cui siamo abituati nella celebrazione liturgica bizantina. E soprattutto significa celebrare con una anafora che rende presente la comunione con la Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le Chiese cristiane.

 

(© L'Osservartore Romano 23 ottobre 2015)