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​I Paesi europei ancora divisi sull’accoglienza

 

Inerzia e miopia

 

di Giuseppe Fiorentino

 

«Se i Paesi europei avessero cercato serie soluzioni a conflitti come quello in Siria e se avessero dedicato tempo e risorse sufficienti per l’assistenza umanitaria all’estero, l’Europa non si troverebbe nella situazione attuale». Le parole di Lina Kathib, per un certo periodo a capo del Carnegie Middle East Center, un think tank basato a Beirut che cerca di favorire lo sviluppo politico ed economico della regione, sono riportate dall’«International New York Times» di domenica 6 settembre. Esse forniscono un originale punto di vista sull’emergenza che in questi giorni sta attraversando il vecchio continente, perché documentano come la questione dei profughi e della loro accoglienza sia vista nella loro regione di provenienza. Regione che, vale la pena ricordare, sopporta già uno sforzo enorme a sostegno delle persone in fuga dalla guerra in Siria.

Oltre quattro milioni di siriani sono infatti rifugiati nei Paesi vicini, distribuiti tra Turchia (che da sola ne ospita quasi la metà), Libano, Giordania, Egitto e Iraq. Secondo fonti accreditate, i profughi siriani che hanno avanzato richiesta di asilo in territorio europeo rappresentano solo il sei per cento del totale. È su questa percentuale, davvero esigua, che l’Europa continua a essere divisa. E il fatto, sempre tenendo presente un punto di vista mediorientale, appare abbastanza surreale. Proprio perché i Paesi che attualmente ospitano il maggior numero di profughi non possono certo dirsi ricchi come quelli europei, né altrettanto stabili. Basti pensare al fragilissimo Libano, alle prese con una lunghissima crisi politico-istituzionale che ancora lo priva di un capo dello Stato, o al poverissimo Iraq, che già conta tre milioni di sfollati interni.

Cos’è allora, potrebbe domandarsi un osservatore mediorientale, che impedisce all’Europa di concordare una politica comune? Una risposta a questo interrogativo non è facile nemmeno per un osservatore europeo. In questi giorni fiumi di inchiostro sono stati versati per cercare di interpretare le diverse posizioni. Ne è venuto fuori un quadro a tinte fortemente contrastanti, diviso com’è tra la solidale e ammirevole apertura di Paesi come la Germania e l’Austria — senza dimenticare l’Italia che in tutti questi mesi è stata davvero in prima linea nel salvataggio di migliaia di vite umane — e l’egoistica chiusura di altre Nazioni, che non molto tempo fa avevano invece potuto contare sull’aiuto dei loro vicini. Evidentemente si fa fatica a imparare la lezione della storia. Ecco allora l’erezione di barriere, la militarizzazione dei confini e il ripetersi di proclami basati su demagogiche valutazioni elettorali.

In realtà, l’Europa che litiga su alcune decine di migliaia di persone da accogliere ha soprattutto peccato di inerzia e pecca ora di miopia, per lo meno in quella parte che si ostina alla chiusura.

Inerzia perché quanto sta accadendo era ampiamente prevedibile, ma davvero molto poco è stato fatto per evitare la tragedia del popolo siriano. Sono anni che il responsabile delle operazioni umanitarie dell’Onu in Siria, Yacoub El Hillo, avverte che la crisi dovuta al conflitto avrebbe inevitabilmente condotto al collasso del sistema internazionale di aiuti, costringendo la popolazione alla fuga. «Il fallimento del sistema di soccorso è una conseguenza dello stallo strategico» ha dichiarato El Hillo. Uno stallo a cui l’Europa ha in parte contribuito, accettando un ruolo subordinato in uno scacchiere, come il Mediterraneo, che dovrebbe invece costituire un interesse primario. L’Europa priva di una seria politica estera non ha saputo scongiurare il protrarsi di sanguinose guerre e l’affermarsi del nuovo modello di terrorismo transnazionale del cosiddetto Stato islamico.

Miopi sono invece quanti credono che l’emergenza dei profughi — come la più ampia questione delle migrazioni — sia risolvibile chiudendo le porte. Come è già stato rilevato, la pressione è destinata a crescere, soprattutto dall’Africa, continente da cui milioni di persone fuggono per scampare alla fame, oltre che alla guerra. Nessuna barriera fermerà mai chi spera in un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Come nessuna madre, se non costretta, esporrebbe i suoi figli ai rischi di un incerto viaggio per mare. Una risposta potrebbero essere delle vere politiche di partenariato dirette soprattutto ai Paesi africani. Politiche molto invocate, ma ben poco attuate.

 

(© L'Osservatore Romano 7-8 settembre 2015)