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Il Sinodo sulla famiglia

Punto di partenza

 

di Gualtiero Bassetti

Molti commentatori, in questi giorni, hanno continuato a dibattere su chi abbia “vinto” il sinodo. Una discussione a suo modo legittima, che non riesce a cogliere, però, il significato profondo e la portata storica di un avvenimento che ha caratterizzato, negli ultimi due anni, la vita dell’intera Chiesa, non solo nelle discussioni dei circoli minori o dell’aula del Sinodo, ma in ogni singola diocesi e parrocchia.

È bene partire da questo aspetto, per così dire periferico, per capire fino in fondo cosa è accaduto. L’invio e la redazione dei questionari su «la vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo» hanno rappresentato, pur con tutti i limiti di un testo scritto, una indiscutibile grande novità. Mai nella storia recente della Chiesa si era avuta una così vasta partecipazione “dal basso” come in questi due anni. In ogni diocesi, seppur con sensibilità e modalità differenti, si è discusso e parlato di famiglia. E questo è avvenuto, paradossalmente, in uno dei momenti storici più difficili per l’istituzione familiare, proprio quando la famiglia sembra essere non solo maltrattata ma addirittura ignorata dal senso comune e dalle politiche pubbliche.

Un secondo aspetto da evidenziare riguarda, invece, lo spirito che ha soffiato all’interno della Chiesa. Uno spirito che potrebbe essere sintetizzato attraverso una delle icone evangeliche più importanti: quella del Buon samaritano. Il samaritano, infatti, è colui che vede la sofferenza dell’uomo moderno e non gira la testa dall’altra parte. Egli ci parla, senza che noi conosciamo una sola parola di ciò che dice, e testimonia al mondo l’amore di Cristo senza averne alcun guadagno. Rappresenta un cambiamento epocale nel modo di guardare alle sofferenze e ai bisogni delle persone.

Non più dall’alto di una cattedra si regolarizza una fattispecie, ma dal basso dello sguardo del samaritano si accoglie, si guarisce e infine si cerca di integrare all’interno della comunità ecclesiale. Un’integrazione che, dunque, non avviene per “imposizione” ma per “attrazione” e che dà vita a una pastorale dell’accoglienza e del prendersi cura.

Un ultimo aspetto da sottolineare si riferisce, infine, al metodo sinodale. Metodo e sinodo, infatti, sono due parole che non possono essere disgiunte e vanno lette una accanto all’altra. Se il sinodo, infatti, indica una “strada comune” da percorrere insieme, il metodo ci indirizza con discernimento verso la ricerca di quella strada. Ed è quel metodo, tratto dall’insegnamento del Vaticano ii, che ha illuminato il cammino della Chiesa sinodale. Di una Chiesa in cui ciascun membro è valorizzato quale pietra viva, scelta e preziosa; dove si pratica il discernimento comunitario, si rifugge dal clericalismo e si valorizza la vocazione missionaria.

Una delle più grandi eredità di questo sinodo consiste, dunque, nell’aver iniziato a tracciare una strada nuova. Un punto di partenza che potrà essere migliorato in molti modi diversi. Per esempio, dando ancora più spazio alle realtà laicali e al punto di vista delle donne. Un punto di partenza, però, dal quale non si può in alcun modo tornare indietro.

 

(© L'Osservatore Romano 1 novembre 2015)