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L’uomo tra terra e cielo

Spazio di libertà

di Maurizio Gronchi

«Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data». Con questa espressione Papa Francesco introduce nella Laudato si’ (67) una riflessione sulla relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura, nella quale l’intreccio tra uomo, terra e cielo costituisce l’originaria vocazione all’armonia iscritta nella creazione, variamente interpretata dalle culture e dalle religioni. A questo riguardo occorre interrogarsi sul senso e sul limite delle potenzialità umane, costantemente tentate di prendere il posto di Dio.

Il diritto a esistere stabilmente in questo mondo e a elevarsi da esso non è di per sé contro Dio né contro l’umanità, ma può diventarlo. Ciò avviene quando si vuole ridurre l’unità del genere umano a uniformità, e cercando il cielo si tradisce la terra. Questo è il senso essenziale del racconto biblico della torre di Babele (cfr. Genesi, 11, 1-9), che ci orienta a una non indifferente attualità. Volendo quindi leggere la tensione tra umanità e natura alla luce della fede, non si può rinunciare all’indicazione di Babele come immagine della pluralità donata da Dio e non come frutto disgregato dell’umana superbia.

La via che l’umanità vuole percorrere verso il cielo, ovvero alla ricerca del superamento dei propri limiti, passa attraverso la terra, le sue impegnative contraddizioni, le difficoltà a dominarla, a trasformarla, a farla fruttificare. Cercare Dio nella consapevolezza di non poterlo raggiungere corrisponde, in un certo senso, a stare sulla terra con l’impegno a trarne frutto senza distruggerla.

Vi è come un singolare parallelismo tra rapporto con la terra e rapporto con il cielo — la natura e il suo oltre, potremmo dire — che rende l’umanità consapevole e responsabile delle proprie aspirazioni e dei relativi limiti. Come se, da una parte, pur portando nel cuore l’anelito alla trascendenza, fossimo costretti a riconoscerne l’irraggiungibilità, ma anche quindi a doverla riconoscere al di là di noi. D’altra parte, la più immediata possibilità di trasformare la natura si scontra con le sue incontrollabili reazioni, che la dichiarano anch’essa in qualche modo sfuggente.

L’umanità, dunque, si trova racchiusa tra cielo e terra, tra l’impenetrabilità di Dio e l’indomabilità della terra, e ciò che sembra condanna alla prigione, in realtà, è lo spazio della libertà. Siamo liberi di progettare, d’ingegnarci, di costruire, ma tutto questo esige responsabilità, per non diventare sforzo inutile, se non fallimento. «Non possiamo — si legge nella Laudato si’ (75) — sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo, finiremmo per adorare altre potenze del mondo, o ci collocheremmo al posto del Signore, fino a pretendere di calpestare la realtà creata da Lui senza conoscere limite».

La fede cristiana, mentre riconosce l’evoluzione della natura coerente con la creazione continua di Dio, si fa carico di annunciare quanto avvenuto nella storia: il ponte tra cielo e terra lo ha gettato Dio stesso, venendo ad abitare in mezzo a noi. Per amore di tutti Gesù Cristo ha compiuto il suo salto nell’abisso della terra — fin nel più oscuro antro di essa, la morte — e, grazie al suo Spirito effuso nella Pasqua, ognuno può ancora parlare la propria lingua, può ancora abitare lo spazio e il tempo della libertà.

Dio, senza ridurre la propria trascendenza alla sua incarnazione, continua a offrirsi come il principio e la fine di quel libero “muoversi verso” che egli ha impresso alla creazione. In tale movimento è possibile che chi ama la terra raggiunga il cielo, e chi cerca l’uomo incontri Dio.

 

(© L'Osservatore Romano 5 agosto 2015)