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In un libro di Aldo Schiavone

Gesù visto da Pilato

di Lucetta Scaraffia

Non è la prima volta che succede, e forse in questi ultimi anni succede perfino più spesso, che gli occhi di un laico, di uno scrittore non “esperto” di esegesi, riescano a vedere nella narrazione evangelica e nei suoi personaggi aspetti nuovi e ipotesi interpretative sfuggite a chi li studia professionalmente. E riescano, soprattutto, a farli rivivere con una forza viva, vera e particolarmente coinvolgente. Questo è senza dubbio l’effetto immediato dell’ultimo libro che Aldo Schiavone, uno fra i più grandi studiosi di diritto romano, ha dedicato a Ponzio Pilato.

È un testo audace e spiazzante, non solo per la sapienza con cui ha saputo fondere la sua profonda conoscenza storica e giuridica del periodo con la materia incandescente che tratta, non solo per la scrittura veramente appassionante, che coinvolge in una suspense il lettore anche quando sa già benissimo come andrà a finire.

Il libro è bellissimo perché ha capito che si poteva indagare su Pilato, e raccontare chi era il prefetto della Giudea, solo raccontando chi era Gesù. Anche se Schiavone ha dato di Gesù un’interpretazione certo approfondita sul piano storico — splendidi sono i passi sulla legge giudaica e sul modo diverso e rivoluzionario di Gesù di intendere il rapporto con il potere — ma in fondo riduttiva, perché lo studioso evita volutamente di toccare il tema teologico della salvezza.

Le ragioni di questa lacuna si possono cogliere in una frase dell’introduzione: «La verità dei Vangeli risiede ormai molto di più nella potenza millenaria del cristianesimo che nella riscontrabilità oggettiva del loro racconto». Affermazione che in realtà viene smentita proprio da questo libro e dalla sua trascinante bellezza: il racconto è così bello perché l’autore si è lasciato prendere da quelle parole, è entrato in quella scena, ha assistito a quel confronto nel momento in cui si svolgeva. Il libro è splendido perché Schiavone ha “visto” Gesù. Certo, l’ha “visto” attraverso gli occhi di Pilato, ma ha capito — e in questo sta la principale grandezza del testo — che Pilato lo aveva “visto”.

Nel libro si spiega bene chi è Pilato, chi sono Caifa e Anna, chi sono gli evangelisti, ma noi non “vediamo” nessuno di loro: vediamo solo Gesù. Da questo si capisce che l’autore ha trasmesso un’esperienza vera. E vedere Gesù cambia la vita in senso profondo: questo rende il libro grandissimo, diverso da tutti gli altri. Anche di ricerche importanti sui vangeli scritte da cristiani convinti.

È in questo “vedere” che sta l’interpretazione di Pilato sostenuta da Schiavone, la stessa già avanzata — ma grazie all’accesso a fonti oggi scomparse — da Tertulliano: e cioè che Pilato avesse capito che il condannato voleva farsi condannare, Gesù sapeva bene che questo era il suo destino e vi stava andando incontro.

In un crescendo: prima intuisce «la presenza dell’ignoto davanti a lui», poi capisce che il suo comportamento come prefetto e la sua posizione di comando «sono ricompresi in un disegno che li oltrepassa completamente», infine arriva alla consapevolezza che tra lui e Gesù «si sia stretto come un tacito e indicibile patto».

È un’interpretazione che va contro la tradizione condivisa che Pilato sia colui che non decide, che “se ne lava le mani”, immagine a cui rimanda anche — in questo caso fuori luogo — la copertina del libro. Forse invece Pilato è stato veramente, come ha scritto Tertulliano, pro sua conscientia Christianus. In ogni caso, come sottolinea Schiavone, il suo nome doveva restare unito per sempre a quello di Gesù.

(© L'Osservatore Romano 20 gennaio 2016)