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La Pira e il Mediterraneo

Per uno spazio più luminoso

 

«Il Mediterraneo può diventare, davvero, se pacificato, lo spazio più luminoso della Terra». Con queste parole, il 22 febbraio 1958, Giorgio la Pira, nel suo incessante impegno per il dialogo e la pace, si rivolgeva al presidente egiziano Nasser. Questa grande speranza, coltivata per anni dal sindaco di Firenze, oggi potrebbe sembrare molto lontana dal suo avveramento.

            Gli ultimi naufragi di migranti sulle coste turche — a due passi da alcuni turisti che nella loro spietata e morbosa curiosità ne cercavano di fotografare i cadaveri — e la tragica morte del piccolo Khalid, il bambino siriano affogato sulle coste di un’isola dell’Egeo nel disperato tentativo di fuggire, insieme alla madre, dalla fame e dalla guerra, potrebbero relegare le parole di La Pira nel cassetto dei sogni e dei desideri. Come se fossero l’ennesimo slancio utopistico di un ingenuo mistico cristiano.

            E invece a me pare che quella visione del Mediterraneo come luogo d’incontro tra popoli e culture diverse, come spazio di dialogo tra fedi e storie lontane, resta ancora oggi un obiettivo di grandissima importanza. Un obiettivo estremamente concreto non solo per l’Europa ma per tutto il Medio oriente. Il cui significato, inoltre, si espande al mondo intero perché mette al centro della sua riflessione due finalità non più eludibili: il dialogo e la pace.

            Il legame tra guerre e migrazioni rimanda, infatti, all’accorato appello che il Papa ha rivolto più volte, all’inizio di quest’anno santo, a tutta l’umanità: occorre «vincere l’indifferenza e conquistare la pace». Un appello a ogni uomo e donna di buona volontà ad assumere un impegno concreto per la pace e a non ridurre questo tema solo a un inutile e tedioso esercizio di retorica pubblica.

            Troppo spesso, infatti, quando si parla di pace si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un insopportabile paradosso: la stragrande maggioranza delle persone dichiara, a parole, di volere vivere in un orizzonte di armonia e pace, ma in realtà sono ben pochi coloro che cercano concretamente di farsi operatori di pace e, anzi, sono moltissime quelle persone che vivono nella propria quotidianità una realtà caratterizzata da conflitti di varia natura e intensità.

            E allora diciamolo con chiarezza: l’impegno per la pace è stata sicuramente una delle più grandi conquiste del Novecento — la Pacem in terris, non a caso, segna un cambio di prospettiva irreversibile — ma, al tempo stesso, ha rappresentato una delle prospettive ideali più strumentalizzate e abusate del secolo scorso. Non solo da parte di una diffusa cultura di massa, che ne ha spesso trasmesso un’immagine superficiale e banale, ma anche da parte di alcuni regimi dispotici i quali, in nome della pace, hanno perseguito obiettivi cruenti e disumani.

            Oggi l’impegno per la pace rappresenta una costruzione molto fragile che va difesa con tutte le forze e soprattutto compresa nel suo significato più profondo. Per usare le parole di Emmanuel Mounier, la pace non è certo identificabile in una «moratoria della catastrofe» o in un compromesso a buon mercato tra gli Stati. E non è neanche riassumibile solamente con l’assenza di guerra. La scia di sangue che caratterizza, infatti, le migrazioni internazionali ne è un triste emblema. La pace vera, dunque, non è quella «di Erode», come ha detto Francesco, ma è la pace che si manifesta nell’Epifania del Signore: prima di tutto una pace dello spirito che si riconosce nella tenerezza di Gesù e nell’infinita misericordia di Dio.

            Solo partendo da qui si può iniziare a costruire realmente la pace nel mondo e il Mediterraneo può aspirare a diventare quella sorta di lago di Tiberiade auspicato da La Pira. Un mare di Galilea più grande, capace di unire popoli e nazioni, e di abbattere qualsiasi barriera.

di Gualtiero Bassetti

(©L'Osservatore Romano, 07-08 gennaio 2016)