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Un secolo fa a Chicago moriva Francesca Cabrini

Il coraggio

di rovesciare il mondo

 

 

di Lucetta Scaraffia

Quasi sempre, agli occhi delle persone che le incrociano per le strade, sui treni, sugli aerei, le suore sembrano tutte uguali: umili e affaccendate, gentili e modeste figure a servizio degli altri. Pochi, anche tra gli ecclesiastici, conoscono il tesoro dei carismi che nascondono, pochi sanno quanto non solo il loro lavoro incessante, ma anche il loro pensiero, la loro creatività, contribuiscano a rendere vitale la Chiesa.

Ne abbiamo un esempio clamoroso nelle missionarie del Sacro Cuore, che quest’anno celebrano il centenario della fondatrice, Francesca Cabrini, morta a Chicago il 22 dicembre 1917 e proclamata patrona dei migranti nel 1950. Non è stato facile continuare una missione individuata con tanto coraggio e lucidità da una donna carismatica come madre Cabrini senza tradire la spinta delle origini ma al tempo stesso senza rimanere fermi in modelli di comportamento obsoleti, mentre il mondo cambia e anche le vocazioni femminili entrano in crisi, ma se guardiamo al cammino fatto dal loro istituto in questo secolo possiamo dire che le suore ci sono pienamente riuscite.

Fin da subito le religiose hanno infatti affiancato le attività missionarie a favore dei migranti — sempre aperte all’individuazione di nuove forme di assistenza e di accompagnamento — a nuovi progetti, come la missione in Cina, durata trent’anni. Anni dolorosi e difficilissimi, ma ricchi di esperienze straordinarie e di esempi eroici di missionarie capaci di perdere la vita per non lasciare le comunità con le quali vivevano in uno spirito di aiuto reciproco.

Le realtà cui hanno dato vita sono tante: ospedali fondati in paesi ricchi che aiutano quelli che vengono costruiti in paesi poveri, ai quali inviano strumenti, medicine e periodicamente medici per aggiornare i collaboratori locali, così come le scuole per alunni benestanti aiutano con materiali e libri quelle dei paesi di missione. Le suore cabriniane sono sempre state molto brave in questa gestione economica che ha permesso non solo di aiutare paesi di missione, come in Africa — dove hanno due importanti e vivaci missioni in Etiopia e Swaziland — ma anche di insegnare agli abitanti dei paesi sviluppati come possono aiutare chi ha estremo bisogno.

Sono percorsi nuovi, inventati strada facendo, che si sono rivelati particolarmente fecondi e hanno permesso di coinvolgere sempre più laici nei progetti che nascevano dal carisma della fondatrice. Perché la crisi delle vocazioni ha avuto una conseguenza positiva: quella appunto di coinvolgere un numero crescente di laici, che hanno potuto così sperimentare personalmente e condividere con le suore la gioia di un’assistenza fatta bene, di una missione fondata su principi saldi ed efficaci.

Ovviamente la presenza delle cabriniane — donne che hanno donato interamente la loro vita e assimilato profondamente il carisma della fondatrice — rimane essenziale, e non si potrebbe costruire niente di simile senza di loro. L’apertura ai laici ha permesso tuttavia anche di aprire l’istituto a nuove competenze e limitato i pericoli di un clericalismo che comunque, grazie alla libertà con cui madre Cabrini ha sempre vissuto i rapporti con l’istituzione ecclesiastica, non era mai stato incombente.

Certo, un po’ di nostalgia per questa donna rimane, e non può che essere così: per quanto tutte siano bravissime, nessuna di loro ha la forza e il coraggio di rovesciare il mondo che lei aveva. Arrivata a Roma, madre Cabrini probabilmente avrebbe deciso che il luogo adatto per accogliere gli immigrati era l’Hilton, e si sarebbe adoperata per destinare il grande albergo a questo scopo. E la sua straordinaria energia, direttamente ispirata dallo Spirito santo, le avrebbe perfino permesso di riuscirci.

(© L'Osservatore Romano, 21 Dicembre 2017)