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Il voto per eleggere il nuovo presidente

Brasile diviso tra due poli

di Giuseppe Fiorentino

 

Polarizzato è l’aggettivo più adatto a descrivere il Brasile che il 7 ottobre si reca alle urne per il primo turno delle elezioni presidenziali. Mai nella sua storia democratica il paese è stato tanto diviso alla vigilia di un voto che, proprio per la grandezza e l’importanza economica del cosiddetto gigante sudamericano, avrà notevoli riflessi ben oltre i confini nazionali. L’estrema divisione che il Brasile sta vivendo in queste settimane è facilmente percepibile non solo attraverso i media ufficiali, ma anche semplicemente seguendo le reti sociali. Per quanto superficiali possono essere le indicazioni che da esse scaturiscono, il quadro che emerge è quello di un confronto molto duro, spesso al limite della violenza verbale.

I mesi che hanno preceduto il voto hanno portato prepotentemente alla ribalta la figura di Jair Bolsonaro, del Partito social-liberale, un ex militare il quale, contrariamente al nome della sua formazione politica, è attestato su posizioni fortemente conservatrici. Nonostante la grave crisi che li attanaglia, i brasiliani non hanno perso il loro gusto per l’ironia e ben presto Bolsonaro è stato ribattezzato o Trumpinho (“il piccolo Trump”), per certe dichiarazioni che molti hanno assimilato a quelle del presidente statunitense. E proprio come Trump, il brasiliano è capace, al pari di un polo magnetico, di attrarre e respingere in maniera totalizzante l’elettorato. C’è chi lo ama e chi lo odia. Contro di lui sono nati movimenti spontanei come #EleNão (“lui no”) che gli rimproverano atteggiamenti e prese di posizione improntate al maschilismo, all’omofobia e alla chiusura nei confronti degli immigrati.

L’altro polo di questa campagna elettorale è costituito da Fernando Haddad, del Partito dei lavoratori (Pt), formazione che ha governato il Brasile dal 2003 fino alla destituzione di Dilma Rousseff avvenuta nel 2016. Haddad è stato scelto come candidato dal suo partito in sostituzione di Luiz Inácio Lula da Silva, storico fondatore del Pt e già presidente per due mandati. Anche Lula, ovviamente attestato su posizioni radicalmente diverse rispetto a Bolsonaro, è tanto amato e tanto odiato in Brasile. Il suo carisma è enorme e fino a qualche mese fa i sondaggi davano più che probabile una nuova elezione al palazzo do Planalto. Ma, come è noto, Lula è rinchiuso in prigione a Curitiba, dove sconta una pena di dodici anni per corruzione e malversazione. E nonostante le sue richieste, la giustizia gli ha negato, in base alla legge cosiddetta Ficha limpa (“fedina pulita”), la possibilità di candidarsi. Haddad, già docente e già sindaco di San Paolo, non ha certo la presa mediatica di Lula, ma il padre del Pt, come già era avvenuto per Dilma Rousseff, pur detenuto gli porta in dote il voto di un elettorato coeso e militante.

I sondaggi più recenti danno Bolsonaro in vantaggio con quasi il 35 per cento dei consensi rispetto ad Haddad che potrebbe contare su circa il 22 per cento dei voti. Ma resta una buona percentuale di indecisi e ogni scenario appare possibile, anche se il più probabile sembra quello legato al ballottaggio, in cui potrebbero essere decisivi gli elettori degli altri candidati alla presidenza.

C’è stato un momento, durante il governo del Pt, in cui il Brasile è sembrato in grado di realizzare le speranze che sempre accompagnano la storia di una terra di migranti. Crescita economica vertiginosa, azzeramento del debito con il Fondo monetario internazionale, ingresso nel club ristretto dei paesi davvero emergenti (il cosiddetto Brics), milioni di persone sottratte all’indigenza grazie ai programmi sociali. I mondiali di calcio del 2014 e le olimpiadi del 2016 parevano essere il suggello di questa gloriosa corsa al progresso.

In poco tempo il paese si è tuttavia ripiegato su stesso e ha imboccato una pericolosa spirale recessiva alla quale ha certamente contribuito l’altissimo debito pubblico non accompagnato dalle adeguate riforme strutturali. Ma a segnare in negativo le possibilità di sviluppo economico e la fiducia dei brasiliani sono stati gli scandali che hanno riguardato la compagnia petrolifera nazionale, Petrobras, e poi il gigante dell’edilizia Odebrecht. I giudici hanno infatti portato alla luce un sistema di tangenti per parecchi miliardi di reais, travolgendo l’intera classe politica al potere.

Bolsonaro ha più volte affermato di non essere ferrato in economia e ha nominato come suo ipotetico ministro Paulo Guedes, la cui ricetta per risollevare i conti del paese è improntata a un liberismo estremo: massicce privatizzazioni, drastico taglio alla spesa pubblica, e quindi ai programmi sociali, scarsissima attenzione all’ambiente, tanto da ventilare la concessione delle distese amazzoniche ai coltivatori di soia e canna da zucchero. Non sorprende quindi che la finanza e il latifondo siano dalla parte di Bolsonaro.

Ma non è per questo che o Trumpinho riscuote l’approvazione di milioni di elettori. Chi lo voterà lo farà soprattutto per la sua promessa di trattare con mano dura il narcotraffico che spadroneggia nelle favelas e di eliminare violenza e microcriminalità dalle strade. Un tema questo che moltissimi brasiliani considerano assolutamente prioritario e che è stato amplificato dall’attentato di cui lo stesso Bolsonaro è stato recentemente vittima durante un comizio. L’insicurezza attanaglia davvero la vita dei brasiliani, nelle grandi metropoli come nei piccoli centri dell’entroterra. E gli oltre 63.000 omicidi avvenuti nell’ultimo anno stanno a testimoniare che non si tratta solo di paure infondate.