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La fede in dialetto

 

di Franco Lo Piparo

Il Papa, il 7 gennaio, nella Cappella Sistina, in occasione del battesimo di alcuni bambini ha dichiarato: «La trasmissione della fede si può fare soltanto “in dialetto”, nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna. Poi verranno i catechisti a sviluppare questa prima trasmissione, con idee, con spiegazioni... Ma non dimenticatevi questo: si fa “in dialetto”».

Le parole del Pontefice sono state riprese dalle agenzie di stampa e sono rimbalzate sulle pagine di alcuni giornali. Cosa mai vorrà dire il Papa? E nelle famiglie dove non si parla alcun dialetto non ci può essere trasmissione della fede?

Il battesimo è il rito con cui un individuo, un bambino di solito, entra a far parte della comunità cristiana. Quel bambino è tecnicamente un infante, ossia una persona che ancora non parla. Che senso ha consigliare di introdurlo nel mondo della fede mediante l’uso del dialetto o di qualsiasi altra lingua? La questione, se posta in questi termini, diventa ancora più incomprensibile.

Quelle parole il Papa le ha pronunciate in riferimento agli infanti. La parola “infante” proviene dal verbo latino fari (“parlare”) preceduta dalla negazione in. Un infante è dunque letteralmente un non (ancora) parlante. È anche sinonimo di individuo non linguistico? Sappiamo da un po’ di tempo che le cose non stanno in questi termini. Noi esseri umani siamo individui linguistici ancor prima di cominciare a parlare.

La parte del cervello che per prima si forma quando siamo nel grembo materno è l’orecchio. Di conseguenza, la voce di nostra madre è il primo contatto che abbiamo col mondo già prima di nascere. Esperimenti sofisticati e non invasivi condotti con ciucciotti cibernetici hanno scoperto che fin dal primo istante in cui entriamo nel grande mondo siamo in grado di distinguere la lingua della madre, nel cui grembo siamo venuti all’esistenza, dalle altre lingue. L’esperimento è più semplice di quanto non si pensi. Il neonato ciuccia più intensamente e con maggiore frequenza quando è esposto a voci della lingua materna piuttosto che a voci di altre lingue. Segno inequivocabile di riconoscimento della lingua in cui si è andato formando prima di nascere.

E se la parola “dialetto” (dal greco diàlektos, “lingua”) usata dal Pontefice facesse riferimento non a questo o a quell’idioma ma al cordone ombelicale fatto di parole che lega il nascituro alla madre e, tramite lei, al mondo?

Torniamo alla singolare esortazione del Papa: «La trasmissione della fede si può fare soltanto “in dialetto”, nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna». Gli infanti non parlano ma sanno distinguere le voci familiari della lingua materna da quelle di altre lingue.

Trasmettere a un non ancora parlante la fede «in dialetto» potrebbe dunque voler dire proprio questo: fargli sentire, con parole che l’infante sa riconoscere, la fede come qualcosa di familiare. Il battesimo «in dialetto» non sarebbe altro che il prolungamento affettivo e cognitivo della vita prima di nascere.

(© L'Osservatore Romano, 10 gennaio 2018)