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Papa Francesco e la rivoluzione della tenerezza

di Carolina Blázquez Casado

Nella tensione costante a conciliare il divino con l’umano, due antiche eresie del primo cristianesimo persistono e riappaiono nel corso della storia, anche oggi, con forza. Assumono forme nuove ma sono fondamentalmente radicate nel sospetto che affermare Dio supponga la negazione o la riduzione della sua creatura, o il contrario. In un movimento pendolare, passiamo da posizioni pelagiane e volontariste che pongono l’accento sull’umano e la sua capacità di autorealizzarsi — nell’equivoco che identifica la santità con il perfezionismo — ai nuovi gnosticismi dai toni spiritualisti o intellettuali, per cui la vicinanza a Dio suppone una certa distanza dalla carne e un elitismo religioso esclusivo.

Di fronte a queste posizioni l’appello di Papa Francesco a iniziare una “rivoluzione della tenerezza” si presenta come una nuova via verso un autentico umanesimo cristiano. E dietro quest’invito si cela una seria radice teologica e antropologica. Occorre partire dal riconoscimento che la dignità dell’uomo, la sua “eccedenza”, il suo tratto distintivo sono legati alla condizione filiale. Il fatto stesso che ci accada di nascere, vivere, essere stati chiamati a questo mondo, è segno inequivocabile di un amore che ci ha preceduto, una corrente di tenerezza e benignità che si è diretta verso la creatura umana, nella sua stessa connaturata fragilità, fino a renderla bella proprio per questa sua “debolezza amata”. La generazione, la nascita è l’esperienza paradigmatica di questo essere filiale dell’uomo, che trova la sua realizzazione definitiva nella relazione con Dio. Si entra in questo mondo deboli, disarmati, totalmente sprovvisti di autonomia, teneri, e, proprio per questo, oggetti di tenerezza, compassione, cura, condotti da una madre che porta in braccio, nutre, sostiene e ama incondizionatamente, solo perché si è figli, e senza altra ragione o motivo.

Siamo sempre figli. In un modo tale che, anche nell’età adulta, nello sforzo per raggiungere la maturità, restano incancellabili nell’essere umano le tracce di questa fragilità esistenziale che rimandano a un Amore originale e previo. La libertà dell’adulto è provocata a riconoscere in modo cosciente, nella propria fragilità la tenerezza dell’Amore che salva. Ed è così che ciò che si vive nell’incoscienza della necessità primaria deve essere accettato dalla libertà. Questa è l’esperienza primaria della vocazione cristiana dell’uomo: vivere e viversi come figli di Dio. E proprio per questo, dinanzi all’esperienza della povertà ultima che caratterizza ogni essere umano, la risposta del Dio cristiano è la tenerezza e la protezione, ed è proprio in questo abbraccio fra la misericordia e la miseria che si nasconde e si rivela la condizione sacra dell’uomo, l’immagine di Dio trinità in lui. Da una parte, quest’impronta divina è legata al fatto che la condizione di figli perdura: piccoli, infanti, teneri. Da qui la chiamata di Gesù a essere come bambini. Si tratta di vivere coscientemente nell’attitudine a ricevere, a essere accolti, accettare e desiderare ardentemente la tenerezza e l’amore di un Altro, accettare di essere piccoli, di rimanere nella debolezza, come nella vita trinitaria il Figlio vive eternamente accolto dal Padre.

D’altra parte, questo “essere figli” diventa una vocazione e, grazie alla certezza di essere amati, possiamo aprirci a una paternità e maternità fino a essere canali di tenerezza, seni di misericordia, di compassione e di grazia per tutti gli uomini, specialmente i più infelici e bisognosi della terra. Le vite devastate, ferite, deformi e danneggiate, gli indifesi e gli smarriti, i peccatori e gli impuri sono per eccellenza figli di Dio, che possono essere salvati solamente attraverso l’amore, la compassione e la tenerezza. Per questo appartiene a loro il regno dei cieli, a coloro che il Padre cerca e ama nel dinamismo di un amore tanto più grande quanto maggiore è la loro fragilità.

La “rivoluzione della tenerezza” è strettamente legata a questo nuovo umanesimo cristiano in cui la vicinanza del Padre, la relazione di filiazione con Lui, la sua tenerezza sopra di noi trasfigurano la nostra condizione fragile e illuminano una vocazione alla compassione, per azione dello Spirito, di fronte alle vite ferite e perdute, riconoscendole come lo spazio teologico per eccellenza. È possibile intravedere nell’oscurità dell’umano la presenza velata di Dio, è possibile riconoscere la imago Dei danneggiata e “restaurarla” attraverso la tenerezza, la delicatezza dell’abbraccio, la cura piena di compassione, la compagnia amorosa, in un modo tale che la bellezza dell’uomo consiste nel lasciarsi amare e curare, come un bambino tra le braccia di suo padre. Si apre una sorgente di speranza davanti alla constatazione che i limiti dell’essere umano, il suo essere prematuro e immaturo, non sono ciò che impedisce la comunione con Dio, ma proprio il contrario, sono gli spiragli attraverso cui la bontà e la misericordia del Padre entrano nella nostra vita.

Dio e l’uomo si riconciliano nella tenerezza divina che ama la nostra specifica fragilità. Questo amore di compassione è l’unica forza del cristiano.

(© L'Osservatore Romano, 28 giugno 2019)