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Politica e religione in Italia da Costantino a oggi

Un Tevere ancora più largo


 

Centocinquant'anni dell'Unità d'Italia visti dalle due rive del Tevere: è questo il tema dell'incontro "Il cuore, la spada, la croce" che si svolgerà nel pomeriggio di giovedì 24 febbraio al Palazzo della Cancelleria. Interverranno - moderati da Piero Schiavazzi - Bruno Vespa e il direttore del nostro giornale, autori rispettivamente dei volumi Il cuore e la spada (di cui sotto diamo notizia) e La donazione di Costantino (Bologna, il Mulino, 2010, pagine 256, euro 12). Di quest'ultimo libro, uscito in prima edizione nel 2004, pubblichiamo la postfazione.

In questo libro ho cercato, quasi sette anni fa, di ricostruire la vicenda di un testo famoso e intrigante: quello che per secoli è stato presentato e creduto, negato o discusso, irriso e aborrito come il documento che attestava la donazione di Costantino a Papa Silvestro. Un falso, certo, realizzato con tratti anche piuttosto grossolani, ma elaborato su una leggenda antichissima e popolare; tanto improbabile e ricca di sfumature quanto reale nel suo nucleo, perché storicamente fondata sull'innegabile benevolenza esercitata dal primo imperatore cristiano nei confronti della religione fino a poco prima perseguitata, e sulla quale il sovrano scommise con un azzardo decisivo.
Dietro la ricostruzione di questa vicenda appassionante vi era però un'intenzione evidente e più ambiziosa, che giustifica la presenza del libro nella collana "L'identità italiana", e ora la sua nuova edizione: illuminare, sia pure di scorcio, il rapporto tra politica e religione, così come si è venuto configurando soprattutto in Italia per la presenza del Papa - ingombrante e preziosa al tempo stesso - nel cuore della penisola, una presenza che come potere temporale si è andata consolidando sin dall'alto medioevo. Nel racconto ho esteso lo sguardo oltre la vicenda della donazione costantiniana, sino agli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II e, all'estremo cronologico opposto, ho incluso qualche cenno necessario sulle indispensabili e fondamentali premesse costituite dalle Scritture ebraiche e poi soprattutto da quelle cristiane.
Ne è venuta fuori una storia di lunghissimo periodo, che comprende idealmente più di due millenni, e sulla quale può sembrare che poco possa aggiungere la manciata di anni trascorsi dalla stesura di questa narrazione. Eppure, il continuo mutare delle vicende umane, tra le quali una nuova successione sulla sede romana, permette di aggiungere qualche riflessione. Innanzitutto, in generale, su quello che è stato definito il ritorno di Dio in una contemporaneità - almeno quella occidentale - che sembrava avviata sempre più a prescinderne, come esito di una secolarizzazione risalente almeno agli inizi dell'età moderna. In secondo luogo, proprio sul nuovo pontificato e sul suo rapporto con la dimensione politica.
Piuttosto che di un ritorno di Dio - espressione evidentemente imprecisa, ma pure efficace, e coniata per descrivere soprattutto la nuova stagione di cui appare prepotentemente protagonista il mondo islamico, attraversato da fondamentalismi radicali e violenti - altri preferiscono parlare, su un piano più fenomenologico, di ritorno a Dio.
Si intende in questo modo descrivere la nuova visibilità della dimensione religiosa, in particolare nelle società occidentali ormai largamente scristianizzate e nelle quali si vanno insediando crescenti minoranze, in parte anche musulmane.
Ma c'è davvero questo ritorno di Dio? Con un'altra formula immediata si potrebbe tranquillamente rispondere che da gran parte del mondo Dio non se n'è mai andato. Si pensi alla realtà statunitense, modello culturale controverso ma influente (e sotto questo aspetto piuttosto diverso dall'Europa occidentale) oppure al cattolicesimo latinoamericano, radicato e vivace ma sfidato dalla secolarizzazione e da un proselitismo protestante popolare e spregiudicato, o alla vitalità dell'ebraismo. O, ancora, si tengano presenti realtà meno conosciute, ma non meno rilevanti: le società tradizionali africane e il cristianesimo del continente; il mondo religioso dell'India, che oscilla tra una fascinazione esercitata anche sull'occidente e nuovi pericolosi fondamentalismi; la Cina, dove nonostante la pesante incidenza del sessantennio comunista e l'impetuosa crescita economica le tradizioni religiose non sono certo scomparse. Infine, nell'Europa centrale e orientale, di fronte alle rovine lasciate dal comunismo reale che si combinano a un aggressivo materialismo pratico, la nuova stagione delle Chiese ortodosse.
In questo quadro molto variegato, e qui di necessità solo accennato, tra le religioni si moltiplicano violenze e intolleranze ma anche confronti positivi, nuove vicinanze e convivenze antiche. E tuttavia, per l'aspetto qui preso in esame, mi sembra confermato un fatto: nelle società occidentali la distinzione tra l'ambito politico e quello religioso è molto più netta che altrove.
Insomma, tornando alla metafora lanciata nel 1958 da Giovanni Spadolini del Tevere più largo - che indicava appunto "una più netta ed insieme più cordiale distinzione fra le due sfere, fra la Roma laica e la Roma ecclesiastica, fra la Roma sacra e la Roma profana, per dirla col linguaggio dei cattolici liberali di una volta" - anche oggi nessun altro fiume nel mondo è altrettanto largo.
A questa larghezza ha certo contribuito in modo decisivo la tradizione cristiana. Anzi, storicamente bisogna riconoscere e riflettere su un dato inoppugnabile: soltanto all'interno di culture nate di fatto dal cristianesimo ha potuto maturare la secolarizzazione, e questo proprio perché alle stesse origini cristiane risale la distinzione tra Cesare e Dio. Nel succedersi delle vicende storiche, poi, questa distinzione fondamentale non ha preso la forma di una separazione netta, benché non siano mancati momenti e periodi di contrapposizione aspra, ma si è piuttosto configurata come una dialettica, non di rado fruttuosa. "Il cristiano non è nemico di nessuno, tanto meno dell'imperatore" si legge in un'operetta di Tertulliano indirizzata agli inizi del III secolo a un proconsole persecutore, con un'affermazione emblematica di un lealismo cristiano presente già nelle lettere di Paolo.
Oggi, il nuovo protagonismo dell'islam e fenomeni imponenti come le migrazioni e la globalizzazione, ora più avvertita in seguito alla crisi finanziaria ed economica, accentuano il confronto tra culture e religioni diverse, ponendo interrogativi crescenti sulla presenza del fatto religioso, troppo in fretta liquidato come un residuo del passato. Significativa in proposito, anche se controversa, è da tempo l'evoluzione del concetto di laicità in un Paese come la Francia. In questo contesto il relativismo culturale e la nuova aggressività che si stanno manifestando soprattutto nell'occidente europeo nei confronti delle religioni - soprattutto verso il cristianesimo e, in particolare, verso la Chiesa cattolica - rendono più difficili la comprensione e la convivenza reciproche, proprio a causa della chiusura, se non addirittura dell'ostilità, nei confronti di una dimensione che in molte culture è invece fondamentale. Chiusura e ostilità che preoccupano, provocano reazioni contrarie e non aiutano certo la diffusione in altri contesti culturali di quella distinzione tra sfera religiosa e ambito politico che proprio la tradizione cristiana ha favorito. Dopo il pontificato (1978-2005) di Giovanni Paolo II, la scelta in meno di ventiquattro ore di Joseph Ratzinger, il 19 aprile 2005, è stata un fatto nuovo, e per molti inatteso: al Papa polacco è succeduto un Pontefice tedesco, quasi a chiudere con una scelta fortemente simbolica la schiacciante eredità della seconda guerra mondiale, come ha voluto sottolineare lo stesso Benedetto XVI un mese dopo la sua elezione. Sono state così spazzate via dai fatti bizzarre riflessioni geopolitiche che teorizzavano l'esclusione dal papato di una o di un'altra nazionalità, con ragionamenti elaborati forse per giustificare il monopolio italiano sulla sede romana, che durava da quasi mezzo millennio, nonostante il deciso impulso all'internazionalizzazione del collegio cardinalizio impresso a metà del secolo scorso da Pio XII e progressivamente continuato dai suoi successori.
E soltanto due volte nella storia - nel cuore del Trecento, durante il papato avignonese, e tra il VII e l'VIII secolo, al tempo dei pontefici d'origine greca - si sono avuti periodi così lunghi in cui i successori di Pietro non sono stati italiani. Un fatto, questo, che nella situazione italiana, soprattutto dopo il dissolvimento della cosiddetta unità politica dei cattolici durante il pontificato di Giovanni Paolo II, ha sicuramente contribuito all'allargamento del Tevere.
Anche Benedetto XVI, come i suoi predecessori a partire da Paolo VI (il Papa che l'ha creato cardinale nel 1977), non ha mai usato la tiara, segno per eccellenza del potere papale, abbandonata nel 1964 da Papa Montini ma che rimane, con le chiavi decussate, simbolo della Santa Sede.
Con Papa Ratzinger la tiara è scomparsa anche dallo stemma ufficiale del Pontefice, sormontato da una semplice mitra episcopale e da cui pende invece il pallio, l'insegna liturgica che Papa Ratzinger ha lungamente spiegato come immagine del "giogo di Cristo" nell'omelia durante la messa inaugurale del pontificato. Questo appare caratterizzato da un'amichevole apertura ad extra (Chiese e confessioni cristiane, ebraismo, islam, altre religioni e culture) - grazie anche al continuo richiamo della ragione, che permette su questa base comune il confronto e la collaborazione con le culture laiche - più che ripiegato sul passato. E non perché sia trascurata o messa tra parentesi la tradizione cristiana, di cui il Pontefice invece sottolinea in ogni modo la continuità: al contrario, fondandosi sul suo approfondimento e sulla sua spiegazione, Benedetto XVI persegue quanto più gli sta a cuore, e cioè l'annuncio di quel Dio che ha parlato sul Sinai ed è morto e risorto per l'umanità, soprattutto là dove la fede rischia di spegnersi, e cioè in molte regioni di antica cristianità.
Proprio con Ratzinger il Tevere è insomma più largo, e così sono più larghi e sicuri i ponti che l'attraversano, grazie al rafforzamento costante delle relazioni con l'Italia, come del resto con altre nazioni. Questa eccellenza di rapporti è espressa visibilmente dai frequenti incontri e contatti con i presidenti della Repubblica (Carlo Azeglio Ciampi e, soprattutto, Giorgio Napolitano, con il quale è forte la relazione personale) e dalle reciproche visite in Vaticano e al Quirinale. Nel 2008, recandosi ufficialmente per la seconda volta nell'antica residenza papale (che già aveva visitato nel 2006), Benedetto XVI ha definito il colle che fronteggia quello vaticano "segno di contraddizione".
Nel discorso di Papa Ratzinger, l'espressione evangelica indicava ovviamente la questione romana - "causa di sofferenza per coloro che sinceramente amavano e la Patria e la Chiesa" - che fu superata dai Patti lateranensi, quando le onde del Tevere trascinarono nel Tirreno i flutti del passato e finalmente riunirono i due colli.
La suggestiva immagine citata dal pontefice tedesco era stata evocata nel decennale della Conciliazione da un suo predecessore, Pio XII, quando nel 1939, per la prima volta dopo la presa di Roma, un Papa tornò al Quirinale.
Alla dimensione politica e al suo rapporto con quella religiosa Joseph Ratzinger è attento, con una sensibilità maturata sin dalla giovinezza, grazie a uno studio approfondito e continuato della tradizione cristiana: anche su questo punto, in particolare, soprattutto di Agostino, l'autore prediletto. Da qui deriva la diffidenza, anzi l'opposizione, nei confronti di ogni assolutizzazione politica del cristianesimo. Ogni costruzione umana, anche politica, è infatti relativa proprio in quanto umana, e ben diversa è l'aspirazione cristiana: rendere presente in questo mondo la nuova forza rivoluzionaria della fede, come concludeva nel 1971 il giovane teologo un piccolo libro sull'unità delle nazioni (Die Einheit der Nationen, dove erano esposte riflessioni maturate da oltre un decennio). Specificando che si tratta di una forza - la cui dimensione comunitaria, e dunque pubblica, è sempre stata sottolineata da Ratzinger teologo e ora da Benedetto XVI - "che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all'unico Dio".

g.m.v.

 (© L'Osservatore Romano 24/02/2011)