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Due pilastri

Due espressioni, una latina e una greca, sono i pilastri del secondo, imponente, discorso del Santo Padre all’interno di questi cinque giorni della Giornata mondiale della gioventù a Panamá: la prima è sentire cum Ecclesia, la seconda è kenosis.

Sentire con la Chiesa è anche il motto episcopale di sant’Óscar Romero a indicare la «bussola che ha segnato la sua vita nella fedeltà, anche nei momenti più turbolenti». E Romero è la bussola che guida il discorso del Papa che è ben consapevole che la Chiesa sta vivendo un momento di tribolazione; da qui nasce il desiderio di voler rinsaldare i vincoli che legano i cattolici tra di loro e con il loro pastore spiegando ai vescovi dell’America centrale cosa significhi sentire con la Chiesa. Innanzitutto è una grazia, quella «di sentirsi e sapersi parte di un corpo apostolico più grande [...] Sentirsi parte di un tutto, che sarà sempre più della somma delle parti e che è accompagnato da una Presenza che sempre lo supererà». Da questa grazia scaturisce la «gratitudine per il tanto bene ricevuto e non meritato», una gratitudine che spinge all’amore «che nasce dall’accogliere un dono totalmente gratuito, che non ci appartiene e che ci libera da ogni pretesa e tentazione di crederci i suoi proprietari o gli unici interpreti. Non abbiamo inventato la Chiesa, non è nata con noi e andrà avanti senza di noi». Romero ha vissuto questo amore fino al martirio che «non è sinonimo di pusillanimità o l’atteggiamento di qualcuno che non ama la vita e non sa riconoscere il suo valore. Al contrario, il martire è colui che è in grado di incarnare e tradurre in vita questo rendimento di grazie. Romero ha sentito con la Chiesa perché, prima di tutto, ha amato la Chiesa come madre che lo ha generato nella fede e si è sentito membro e parte di essa». Sentire con la Chiesa significa poi contemplarla come popolo di Dio. Un pastore deve perciò «imparare e ascoltare il battito del cuore del suo popolo, sentire l’“odore” degli uomini e delle donne di oggi fino a rimanere impregnato delle sue gioie e speranze, delle sue tristezze e angosce». Significa infine «prendere parte alla gloria della Chiesa, che consiste nel portare nel proprio intimo tutta la kenosis di Cristo».

E qui spunta la seconda parola, la kenosis, che indica il mistero dell’incarnazione, dell’abbassamento, della discesa di Dio che si fa piccolo, umile, che diventa uomo e vive fino in fondo la condizione umana. Così deve fare anche la Chiesa, «dev’essere umile e povera, perché una Chiesa arrogante, una Chiesa piena di orgoglio, una Chiesa autosufficiente non è la Chiesa della kenosis». Una Chiesa della kenosis vuol dire invece che il pastore non deve aver paura di accostare e toccare le ferite delle persone, che il suo cuore si misura dalla sua capacità di commuoversi di fronte alle vite ferite e minacciate. Significa «abbandonare la virtualità dell’esistenza e dei discorsi per ascoltare il rumore e il richiamo costante di persone reali che ci provocano a creare legami» perché «le reti servono a creare contatti ma non radici, non sono in grado di darci appartenenza, di farci sentire parte di uno stesso popolo». Nel popolo di Dio la Chiesa svolge un ruolo fondamentale, quello di Madre, che «come tale genera e incuba la vita proteggendola da tutto ciò che può minacciare il suo sviluppo. Gestazione nella libertà e per la libertà». Questa “incubazione” della vita fa venire in mente lo Spirito di Dio che “aleggiava sulle acque” (Genesi 1, 2): quell’“aleggiare” è la poetica traduzione dell’ebraico merahefet, cioè “covare”. Il Papa si sofferma a lungo su questo aspetto materno, contro ogni paternalismo, che i Pastori devono avere nei confronti del popolo, e soprattutto dei sacerdoti che a loro sono affidati.

E qui spunta un’altra parola, che il Papa non dice esplicitamente ma che permea tutto il suo discorso: affetto. Se il cristiano deve “sentire con la Chiesa”, la Chiesa deve far sentire il suo affetto al popolo di Dio. Così il vescovo con i suoi sacerdoti. Il Papa, vescovo di Roma, ha fatto sentire ieri a Panamá tutto il suo affetto per i suoi sacerdoti con parole forti e chiare in cui torna un concetto già usato nella prima giornata, la compassione: «Una misura utile per valutare il nostro cuore episcopale è chiederci: quanto mi tocca la vita dei miei preti?» e con una parentesi fuori programma ha sottolineato la sua preoccupazione sul fatto che la compassione abbia perso la sua centralità nella Chiesa. Per il Papa anche i gruppi e i media cattolici l’hanno persa per cui al posto della compassione c’è oggi lo stigma, la condanna, la cattiveria, quando invece la kenosis di Cristo è l’espressione massima della compassione del Padre. Il che vuol dire anche lasciarsi scomodare e qui Francesco cita Benedetto XVI: «Cristo non ci ha promesso una vita comoda. Chi cerca la comodità con Lui ha sbagliato strada. Egli ci mostra il percorso che porta alle cose grandi, al bene, a una vita umana autentica», aggiungendo che «il vescovo deve crescere ogni giorno nella capacità di lasciarsi scomodare, di essere vulnerabile rispetto ai propri sacerdoti». Solo un uomo ferito può diventare un guaritore credibile e questo è vitale per una Chiesa della kenosis perché «è importante che il sacerdote trovi il padre, il pastore in cui “rispecchiarsi” e non l’amministratore che vuole “passare in rivista le truppe”». Parole di padre quelle del Papa ieri a Panamá, che resteranno a lungo nel cuore del popolo di Dio, riunito attorno ai giovani che sono i primi, con i loro sogni e le loro domande, a rendere scomoda la vita del cristiano. Sempre a braccio il Papa ha citato una frase di un filosofo greco: «I giovani sono come un tafano sulla groppa di un nobile cavallo, affinché il cavallo non si addormenti». Ecco la Chiesa secondo Francesco: un popolo sveglio perché si lascia scomodare e che cammina insieme, giovani e vecchi, magari con l’andatura nobile del cavallo.

Andrea Monda

 

(© L'Osservatore Romano, 26 gennaio 2019)