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Il dovere

dell’esemplarità

 

Nel discorso natalizio di Papa Francesco alla curia non poteva mancare il richiamo a quello fondativo di Paolo VI del 1963. Rivolto ai suoi collaboratori il 21 settembre, esattamente tre mesi dopo l’elezione e alla vigilia della ripresa del concilio sospeso alla morte di Giovanni XXIII, il calibratissimo testo di Montini sul dovere dell’esemplarità ha di certo sostenuto la riflessione del suo successore, che con ogni evidenza ha meditato a lungo per preparare il suo impegnativo intervento,  esplicitamente riallacciato a quelli degli anni scorsi.

            E come i discorsi precedenti, anche questo catalogo di virtù che deve proporsi ogni curiale può essere applicato, come ha detto Bergoglio, a «ogni cristiano, ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia e movimento ecclesiale». Dodici coppie di virtù, le cui iniziali formano la parola “misericordia” e che il Pontefice ha presentato come «antibiotici» per le malattie spirituali: missionarietà e pastoralità, idoneità e sagacia, spiritualità e umanità, esemplarità e fedeltà, razionalità e amabilità, innocuità e determinazione, carità e verità, onestà e maturità, rispettosità e umiltà, doviziosità e attenzione, impavidità e prontezza, affidabilità e sobrietà.

            Antidoti, dunque; dei quali c’è palese bisogno, al punto che nel successivo incontro con i dipendenti vaticani il Papa ha chiesto perdono per gli scandali provocati dalle vicende, davvero penose, degli ultimi tempi. Assicurando al tempo stesso che quanto è accaduto ha costituito e costituirà «oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché ecclesia semper reformanda».

            Non a caso nell’ora del concilio, Paolo VI rivolse ai curiali parole che vale la pena rammentare anche oggi: «Da tutte le parti si guarda a Roma cattolica, al pontificato romano, alla Curia romana. Il dovere d’essere autenticamente cristiani è qui sommamente impegnativo. Non ricorderemmo a voi questo dovere, se a noi stessi non lo ricordassimo ogni giorno. Tutto a Roma fa scuola: la lettera e lo spirito. Come si pensa, come si studia, come si parla, come si sente, come si agisce, come si soffre, come si prega, come si serve, come si ama; ogni momento, ogni aspetto della nostra vita ha intorno a noi un’irradiazione, che può essere benefica, se fedele a ciò che Cristo vuole da noi; malefica, se infedele».

            È infatti in questa stessa luce che va letto il discorso del Pontefice: così Francesco ha ripetuto, con il suo predecessore, la gratitudine e l’apprezzamento per «l’efficienza dei servizi, che la Curia Romana con fatica, con responsabilità, con impegno e dedizione rende al Papa e a tutta la Chiesa», aggiungendo nel solco della spiritualità ignaziana che questa è una «vera consolazione» a sostegno della volontà di «andare avanti nella via del bene». Nella consapevolezza cristiana della limitatezza di ogni sforzo personale, che il Pontefice ha espresso citando una preghiera che ripeteva una grande figura del cattolicesimo statunitense, il cardinale John Francis Dearden.

g.m.v.

(© L'Osservatore Romano, 21- 22 dicembre 2015)