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Il giubileo

del concilio

 

Concludendo il concilio, per sottolineare le decisioni del Vaticano II e diffonderle in tutta la Chiesa, Paolo VI volle che dal 1° gennaio al 29 maggio 1966, festa di Pentecoste, nelle diocesi del mondo si celebrasse un giubileo straordinario. Cinquant’anni dopo, il suo attuale successore, figlio del concilio pur essendo per motivi anagrafici il primo Papa a non avervi preso parte, ha aperto un altro anno santo, che per più di un motivo è straordinario.

            Straordinario lo è in quanto non compreso nelle consuete scadenze temporali, ma ancor più per la volontà di Bergoglio di legarlo in modo esplicito alla misericordia, centrale nel Vangelo e nei giubilei. E poi non tanto per la circostanza di svolgersi simultaneamente nelle diocesi del mondo, quanto per l’anticipazione della sua apertura nel cuore dell’Africa. Il primo giubileo ordinario dopo il concilio fu infatti celebrato nel 1974 prima nel mondo e poi a Roma, ma mai un Pontefice aveva aperto una porta santa fuori della sua diocesi.

            Come in circostanze diversissime Bonifacio VIII indisse il primo giubileo interpretando l’attesa del popolo cristiano, così ancora una volta Papa Francesco ha avvertito e saputo cogliere il bisogno dei fedeli, insieme a quello di tantissime donne e uomini che magari nei confini della Chiesa visibile non riescono a riconoscersi: «La Chiesa — ha detto nella prima udienza generale del giubileo — ha bisogno di questo momento straordinario. Non dico: è buono per la Chiesa questo momento straordinario. Dico: la Chiesa ha bisogno di questo momento straordinario», per rendere «visibili i segni della presenza e della vicinanza di Dio».

            La misericordia, innanzi tutto, che è al cuore del Vangelo e spinge i cristiani a uscire da se stessi per essere testimoni di Cristo. Come, sorprendendo tutti e vincendo qualche resistenza, Bergoglio ha mostrato al mondo aprendo la porta santa nella cattedrale di Bangui e inaugurando il giubileo per le diocesi centrafricane, flagellate da povertà e violenza. Ricordando questa anticipazione e seguendo il rituale che risale ad Alessandro VI, ancor più suggestivo nella sua semplicità, il Papa ha aperto quella di San Pietro, a cui seguirà a Roma e nelle diocesi del mondo l’apertura di moltissime altre porte sante.

            Sullo sfondo vi è il Vaticano II, aperto da Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI nel segno della misericordia. Fu proprio Montini, l’unico predecessore ricordato da Francesco nell’omelia inaugurale del giubileo, a riassumere il senso del concilio con la parabola del samaritano, immagine per eccellenza della misericordia. Il Vaticano II è stato un incontro, ha detto, «un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo», che ha permesso alla Chiesa di uscire dalle «secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in se stessa», mentre il cristianesimo «sembrava perdere sempre più la sua forza efficace», come ha scritto Benedetto XVI.

            E il Papa seguito dal suo predecessore, che aveva appena abbracciato nell’atrio della basilica, è stato il primo a varcare la porta santa. E, dopo aver atteso e salutato di nuovo Benedetto XVI, Francesco si è incamminato a pregare davanti alla tomba di Pietro, appoggiandosi al pastorale di Paolo VI con la croce di Cristo.

g.m.v.

(L'Osservatore Romano 09-10 dicembre 2015)