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L’importante è che
il messaggio arrivi

 

 

L’importante è che «il messaggio arrivi»: la prima risposta del Papa nella conversazione con i giornalisti, consueta durante il volo di ritorno nei viaggi internazionali, va ben oltre la questione dei rohingya, su cui anche prima della partenza per il Myanmar e il Bangladesh i media internazionali avevano finalmente concentrato l’attenzione ma che da tempo è ricorrente nelle preoccupazioni del Pontefice. Risposta che va anche oltre il nodo della comunicazione, ambito nel quale a Bergoglio è generalmente riconosciuta una straordinaria capacità. Si tratta infatti di come il Papa e la Santa Sede scelgono di muoversi nelle diverse situazioni, spesso drammatiche, che la Chiesa nel mondo deve affrontare.

E illuminanti sono l’obiettivo dichiarato dal Pontefice e il paragone che ha usato: «Per me, la cosa più importante è che il messaggio arrivi, e per questo cercare di dire le cose passo dopo passo e ascoltare le risposte, affinché arrivi il messaggio. Per esempio, un esempio dalla vita quotidiana: un ragazzo, una ragazza nella crisi dell’adolescenza può dire quello che pensa, sbattendo la porta in faccia all’altro e il messaggio non arriva, si chiude». Alla denuncia contundente, dunque, è preferibile la via della persuasione e dell’ascolto, quella cioè del vero dialogo.

Dialogo che è confronto costruttivo e che non rinuncia alle proprie convinzioni, tanto è vero che, incalzato da altre domande sulla questione della minoranza musulmana dei rohingya, il Papa ha affermato di non aver «negoziato la verità». E dopo avere adoperato le parole opportune per far arrivare il messaggio e dopo aver «visto che il messaggio era accettato», Bergoglio ha dichiarato di avere «osato dire tutto quello che volevo dire».

Su richiesta esplicita del Pontefice la conversazione è stata in gran parte dedicata ai temi del viaggio, altrimenti «sembrerebbe che non è stato tanto interessante» ha chiosato con ironia. Bergoglio ha accettato tuttavia di rispondere a una domanda sulla deterrenza nucleare postagli da un giornalista statunitense secondo il quale nel 1982 Giovanni Paolo II l’avrebbe definita moralmente accettabile. In realtà allora il Papa l’aveva descritta in un messaggio alle Nazioni unite come una «tappa sulla via di un disarmo progressivo», aggiungendo che era «indispensabile non accontentarsi di un minimo sempre minacciato da un reale pericolo di esplosione».

Nella risposta al giornalista Francesco si è interrogato con drammatica e incontrovertibile efficacia: «Siamo al limite, e poiché siamo al limite io mi faccio questa domanda, non come magistero pontificio, ma è la domanda che si fa un Papa: oggi è lecito mantenere gli arsenali nucleari, così come stanno, o oggi, per salvare il creato, salvare l’umanità, non è necessario andare indietro?». In coerenza con quanto già nel 1965 aveva notato Paolo VI parlando alle Nazioni unite: «Le armi, quelle terribili, specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli». Anche in questo ambito, dunque, l’importante è che il messaggio arrivi.

 

g.m.v.

(©L'Osservatore Romano, 4-5 dicembre 2017)