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Intervista al vescovo Domenico Pompili

Uno stile sinodale per l’Italia

«La sinodalità è uno stile prima che un contenuto. Ha il pregio di mobilitare intelligenze e sprigionare nuove energie. Di mettere la Chiesa in stato di permanente convocazione. In fondo, il rinnovamento conciliare è nato da Giovanni XXIII che, a sorpresa, indice un sinodo romano e un’assise ecumenica. Credo che questa sia la strada giusta anche oggi». Chi parla è Domenico Pompili, vescovo di Rieti, che si è subito dichiarato pronto a rispondere alle domande che scaturiscono dalla lettura del breve articolo (il “punto” più esattamente) apparso sull’ultimo numero di «Civiltà Cattolica» col titolo «Il cristianesimo che fa l’Italia», al termine del quale si giudica quello attuale un tempo maturo per l’indizione di un sinodo per la Chiesa italiana.

«Sento che potrebbe avere un effetto benefico» aggiunge Pompili «anche come naturale evoluzione di quel lungo percorso che nella Chiesa italiana ha avuto avvio con il primo Convegno ecclesiale di Roma (1976). A più di quarant’anni di distanza, la situazione è mutata, anzi complicata non poco: è quindi quanto mai urgente proseguire. Del resto, papa Francesco nel suo discorso al v Convegno ecclesiale di Firenze (2015) è stato esplicito: “Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme”. Così accadde a Roma nel primo convegno “Evangelizzazione e promozione umana”. Scorrendone oggi gli Atti si scopre che la relazione di Mons. Nervo, inventore della Caritas, fu: “Evangelizzazione ed emarginazione” e quella del prof. De Rita “Tensioni e speranze della società italiana di oggi”. Alla luce di questa lunga storia, giacché nella vita della Chiesa (come in ogni storia umana) le cose non nascono come funghi, l’invito del Papa è consolidare uno stile sempre più sinodale. La qual cosa va sempre di nuovo immaginata, anche a motivo dei cambi linguistici, perché sia condotta insieme da popolo e pastori per interpretare e non subire il cambiamento».

Nell’articolo vengono citati S. Agostino e S. Benedetto che di fronte ai grandi sconvolgimenti dei loro tempi non ebbero paura dei cambi di paradigma anzi li determinarono; siamo in una situazione simile? C’è quindi bisogno anche oggi di personalità dello stesso calibro?

La Chiesa non sposa mai una cultura, ma cerca di entrare in contatto con ciascuna cultura, perfino lasciandosene contaminare; se vediamo l’ultimo scorcio della storia della Chiesa nel nostro paese, a partire dal Concilio Vaticano II c’è stato uno sforzo continuo di inculturare la fede dentro questo processo che abbiamo chiamato genericamente di secolarizzazione e che però sempre di più è diventato una vera e propria rivoluzione antropologica. La Chiesa è stata sfidata sia su quelli che sono i grandi temi dell’etica della vita, sia sui temi dell’etica sociale. Fare insieme un percorso sinodale aiuterebbe a riconciliare queste due dimensioni che talora nella pubblicistica, e talvolta anche nella percezione diffusa, sono state viste come contrapposte, mentre invece, lo dice bene il Papa nella Laudato si’, il principio da tenere come faro illuminante è “tutto è connesso”, per cui la difesa dell’embrione e quella del migrante sono, in realtà, le due facce della stessa medaglia. Questo percorso sinodale che mette a confronto le persone aiuterà la Chiesa a ricompattarsi attorno ad una visione veramente cattolica, che è cattolica proprio perché riesce a tenere insieme dimensioni diverse piuttosto che lasciarsi strattonare dall’una o dall’altra parte.

Nell’Italia di oggi un ruolo importante è quello del presidente Mattarella (non a caso anche citato dalla rivista dei gesuiti) che parla di un’Italia come di una “comunità di vita”, tenuta insieme a un comune destino: sono solo belle parole rispetto ad una realtà dei fatti che parla di un’Italia incattivita e ripiegata su se stessa?

La sensazione è che stiano prevalendo alcune paure ataviche in nome di una falsa percezione della realtà, abilmente orchestrata dal mainstream mediatico, oggi social che detta l’agenda anche della politica. Tali paure sono anche comprensibili in un quadro sociale infragilito e precocemente invecchiato, ma vanno risolutamente evitate alcune inaccettabili equazioni. Vivendo nella zona dell’Italia centrale, segnata dal terremoto, che è praticamente scomparso come notizia dai radar della grande comunicazione, mi è capitato di leggere sui social affermazioni del tipo “basta accogliere i migranti, si stia a fianco dei terremotati!”. È questo il segno evidente di una contrapposizione priva di senso. Più che attizzare una guerra tra poveri, deve invece crescere una consapevolezza che non è concentrandosi sulle vittime che si risolvono i problemi, ma andando a incidere sulle cause. In questo dobbiamo continuare con tranquilla libertà a fare quello che facciamo, anche rischiando di essere apostrofati. Penso al nostro concentrarsi sui temi della giustizia sociale e su quelli della famiglia. Si tratta di due facce della stessa medaglia. È a tutti oggi più chiaro che ad esempio la nostra attenzione alla demografia in caduta libera era ed è lungimirante perché il problema ormai è diventato non solo etico ma anche economico, per non dire fiscale. Così oggi l’attenzione al mondo contemporaneo attraverso la lente della mobilità umana, è una sensibilità che verrà compresa in futuro.

Alla luce dell’attuale pontificato che “lezione” apprende la Chiesa italiana, come oggi si dovrebbe muovere?

La Chiesa italiana è spinta a ricercare la sua anima popolare, che è quella più autentica. In Italia c’è sempre stata una Chiesa di popolo, che ha vissuto con empatia i cambiamenti sociali, qualche volta anche subendone i contraccolpi, come ad esempio, nel primo dopoguerra, un periodo caratterizzato da scontri di tipo ideologico. Da noi c’è sempre stata una presa in carico da parte della Chiesa (nella forma della parrocchia e non solo) della dinamica sociale e culturale e penso che questo impegno oggi abbia bisogno di essere reinterpretato alla luce dell’attuale condizione post-moderna.

L’anima popolare: il centenario del partito popolare di Sturzo è un’occasione preziosa per l’oggi?

Senz’altro, ma tenendo ben presente che su Sturzo e su altre grandi figure bisogna stare attenti a non produrre una sterile e nostalgica rievocazione. Di queste grandi figure bisogna, infatti, saper cogliere più le domande che le risposte. Queste sono storicamente contingenti, le altre invece assumono un carattere permanente. Andare oltre la riproposizione di quadri anacronistici che sarebbero fuorvianti quanto inconcludenti, ma partire dalle domande che sono espressione del desiderio di una piena integrazione tra fede e cultura. È questa integrazione che rappresenta la punta di diamante della fede cristiana come è detto con nettezza in Evangelii gaudium laddove si parla della “dimensione sociale dell’evangelizzazione”. Riconciliare fede e giustizia è l’appello e l’urgenza di sempre. Anche per questo, l’articolo de «La Civiltà Cattolica» sottolinea giustamente che bisogna evitare il rischio di considerare i cattolici tutti “da una parte” contrapposti agli altri. È proprio il percorso sinodale a scongiurare questo rischio, perché vuole essere un cammino che è espressione di un popolo e non di una parte, tantomeno di un partito; l’espressione di una apertura mentale e operativa che diventa nel concreto quell’amicizia sociale, cui invita il Papa. La Chiesa italiana si accredita nella misura in cui si interessa al bene comune e non si presenta come una lobby che fa pressione per curare alcuni interessi. Non abbiamo altri interessi se non quelli degli altri. Così senza accorgersene si diventa testimoni credibili del Vangelo.

Andrea Monda

(© L'Osservatore Romano, 03 febbraio 2019)