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TRADIZIONALE CERIMONIA DELLA OFFERTA DEI CERI

OMELIA DI PAOLO VI

Festa della Presentazione di Nostro Signore Gesù Cristo al Tempio
Venerdì, 2 febbraio 1968

 

Grazie, figli carissimi, della vostra presenza a questa tradizionale cerimonia della Chiesa Romana; una presenza che Ci dà il piacere di vedere raccolti d’intorno a Noi i rappresentanti del Clero diocesano e religioso e di tante istituzioni ecclesiastiche fiorenti in questa sempre benedetta Urbe cattolica. Non è frequente un simile incontro (la parola «incontro» Ci ricorda la definizione primitiva di questa festa detta appunto Hypapante, cioè occursus, incontro di Nostro Signore, il Bambino Gesù, con i due vecchi personaggi profetici, ricordati nel Vangelo di San Luca, Simeone e Anna, quasi a significare l’incontro dell’antico col nuovo Testamento); un incontro invece il nostro che dà ai presenti un’immagine, incompleta ed imperfetta, ma pur tanto significativa delle tante e diverse corporazioni ecclesiali, che compongono la comunità cattolica della città di Roma. Roma qui, oggi, si scopre essere una famiglia, gode di sentirsi un corpo mistico dalle molte membra, distinte dalla loro peculiare fisionomia storica, spirituale e funzionale, e tutte articolate in unità per l’identica fede, per la fraterna carità, per la comune obbedienza ad un solo Pastore. Non avesse questa cerimonia altro valore che di offrire occasione di questo incontro, meriterebbe d’essere considerata nel suo evidente e profondo significato ecclesiale, così pieno, così bello, così cattolico come in quest’ora e in questa sede.

ORIGINI E SIGNIFICATO DELL’ANTICHISSIMA FESTA MARIANA

Godiamo perciò cordialmente nel Signore d’essere, nel nome di Maria purissima e del suo divino Figliolo, insieme riuniti per dare espressione esteriore e simbolica alla santa Chiesa, di cui tutti vogliamo essere e siamo membra vive; e lasciamo che in fondo alle nostre anime echeggi l’antifona del Giovedì santo: «Ubi caritas et amor Deus ibi est. Congregavit nos in unum Christi amor».

Acquista così, a Noi pare, più denso significato l’atto, che ciascuno di voi è venuto qua per compiere, l’offerta d'un proprio dono, un cero benedetto, al Papa. Si è tanto parlato di questi ceri, di questi lumi, simbolici anch’essi, puri e giulivi in relazione con la festa, che oggi celebriamo, detta dall’impiego sacro, che in essa vi hanno avuto e ancora nel rito liturgico vi hanno i ceri, la «candelora». Lasciamo per ora agli studiosi ed ai meditativi ripensare l’origine della festa, che prima forse rivolse a Maria il culto cristiano (cfr. Peregrinatio Aetheriae) e che, teste una pia vedova romana, Vicellia, alla metà del quinto secolo, associò al rito la processione con le candele: «festum occursus Salvatoris nostri Dei cum candelis» (cfr. Rado, II, 1140); e fermiamo per un istante il pensiero sul significato che ciascuno di voi vuol dare all’offerta del proprio cero nelle Nostre mani.

Il significato è evidente: codesta offerta vuol essere atto di filiale sudditanza al Vescovo di Roma, atto di ossequio, atto di obbedienza. Non è così?

ATTO DI GENEROSA FEDELTÀ E CONSAPEVOLE OBBEDIENZA

Chiunque di voi prendesse la parola, per dare senso interiore a cotesto gesto esteriore di pia e gentile oblazione, direbbe certamente che l’offerta del cero è il segno della propria sottomissione a Chi è costituito Capo nella Chiesa; e lo direbbe, Noi crediamo, non già col sentimento di rassegnata accettazione d’un costume d’altri tempi, ovvero d’un’istituzione giuridica non suscettibile di cambiamenti, ma con la convinzione di porsi in armonia con un disegno divino, che le vicende della storia non cambiano, là dove vuol essere fedeltà alla sua realizzazione nella vita e nella storia della Chiesa. Cioè, Noi crediamo che nel gesto che voi ora compite avete coscienza d’interpretare quei fondamenti teologici e spirituali, che fanno dell’obbedienza ecclesiastica una legge fondamentale della comunità fondata da Cristo, la Chiesa, caratterizzata e costituita dalla struttura gerarchica; e ben sapete che Cristo stesso s’è presentato nel disegno d’un’obbedienza totale, e come obbediente ha compiuto la sua missione salvatrice, factus oboediens, e come tale a noi ha lasciato se stesso in esempio (cfr. 1 Petr. 2, 21).

La vostra oblazione acquista perciò valore di risposta ad una opinione non retta, secondo la quale la maturità dell’uomo moderno, la rivendicazione dell’ufficio primario della coscienza personale, l’esaltazione della personalità e della libertà, la voce stessa del Concilio su questi temi di grande importanza e attualità, metterebbero in crisi la virtù dell’obbedienza, mettendone perfino in questione i fondamenti razionali e teologici. Ma una simile crisi non può abolire l’obbedienza nella Chiesa di Dio.

ALLA SOMMITÀ DELLA GERARCHIA IL PADRE CHE AMA E CONDUCE A CRISTO

Essa piuttosto la deve rimettere in onore per l’approfondimento che il cristiano provveduto può fare con le trasformazioni che la storia ha procurato alle strutture gerarchiche della Chiesa, non più coincidenti con quelle temporali, e con gli insegnamenti che il Concilio affida alla nostra considerazione e alla nostra osservanza. L’obbedienza illuminata va ricercando, dicevamo, il disegno divino, che contempla nel Popolo di Dio, come causa strumentale, ben s’intende, ma genetica ed efficiente, la presenza, e l’azione di rappresentanti di Cristo, muniti della sua pastorale autorità e dotati dei carismi di magistero, di direzione e di santificazione per il servizio e per la salvezza della comunità dei fedeli; è gerarchica la Chiesa, non inorganica, e nemmeno democratica nel senso che la comunità stessa abbia una priorità di fede e d’autorità su coloro che lo Spirito Santo ha posto a capo della Chiesa di Dio (cfr. Act. 20, 28); cioè ha voluto il Signore che alcuni fratelli avessero l’insindacabile (cfr. 1 Cor. 4, 4) mandato di prestare agli altri fratelli il servizio dell’autorità, della direzione, come principio di unità, di ordine, di solidarietà, d’efficienza, sempre per formare quell’economia di verità e di carità, che si chiama la «sua Chiesa».

E perciò siamo lieti di ravvisare in questa cerimonia quasi un’apologia dell’obbedienza ecclesiastica, che ancor oggi si attesta lineare e fedele, con la felice opportunità di mettere in evidenza quale vuole esser la vostra obbedienza: responsabile, perché quella di superiori e di rappresentanti delle vostre rispettive istituzioni; volontaria, cioè libera e spontanea, perché non costretti voi venite oggi a porgerci il vostro omaggio e il vostro dono; filiale ed amorosa, perché, lungi dal segnare una distanza fra voi e il Nostro apostolico ufficio, a Noi vi avvicina come figli a padre, il quale nulla chiede da voi se non l’adesione dei vostri spiriti a Cristo e alla Chiesa: «Non quaero vestra, sed vos» (2 Cor. 12, 14).

Grazie, perciò, Figli carissimi, della vostra presenza, del vostro cero, e del significato che a ciò voi conferite. Accettiamo tutto questo da voi, con grande consolazione e con grande riconoscenza, e con effusione di cuore tutto ciò ricambiamo con la Nostra Benedizione Apostolica.

                                            



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