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DISCORSO DEL SANTO PADRE PAOLO VI
DURANTE LA TRADIZIONALE CERIMONIA
DI OFFERTA DEI CERI

Lunedì, 2 febbraio 1970

 

Il rito che stiamo compiendo assume forma diversa da quella che la sacra liturgia prescrive per questa festiva celebrazione: invece di svolgersi come distribuzione dei ceri, simboli sacri di questa solennità, ultima del ciclo natalizio, qui diventa offerta dei ceri; un’offerta molto significativa, perché ogni cero offerto vuole esprimere un atto di omaggio e di devozione d’una persona morale, d’un ente canonico, d’una comunità ecclesiale, residente in questa Roma sacra, al suo Vescovo e Capo della Chiesa cattolica, il Papa.

LA TRADIZIONE DELLA CANDELORA

Noi non dimenticheremo il significato proprio e tradizionale della Candelora, né tutta la storia che la precede .e che la circonda, ricordando come al suo epilogo liturgico il nostro umile lume naturale assurge, in questa prima volta a cui altre seguiranno, a valore di simbolo del lume divino, Cristo , luce del mondo (Io. 3, 12), consegnato al termine delle feste relative alla Incarnazione, ad ogni fedele, affinché questi possa rischiarare i propri passi nel sentiero oscuro e scabroso del cammino della vita: «Chi mi segue, ha detto Cristo, non cammina nelle tenebre, ma avrà luce di vita» (Ibid.). Come non dimenticheremo la scena evangelica della presentazione di Gesù bambino al Tempio, dove e quando la voce profetica del vecchio Simeone lo proclamò lumen gentium, il faro dei popoli (Cfr. Luc. 2. 32), donde la grande costituzione dogmatica del recente Concilio circa la Chiesa trae il suo titolo. Andremo col pensiero, se non potremo con i nostri passi, a contemplare quella scena, piena di mistero, raffigurata nell’arco trionfale di S. Maria Maggiore, unica e prima rappresentazione artistica nel remoto secolo quinto (Cfr. H. LECLERCQ, DACL, 3, 207; B. HACK, I Mosaici della patriarcale Basilica di S. Maria Maggiore in Roma, tav. 14). Ma lasciando da parte in questa occasione questo e tutti gli altri temi, che questa antica e popolare festività offre alla Nostra pietà (Cfr. P. RADÒ O.S.B., Enchiridion Liturgicum, II, 1138 ss.), fermiamo piuttosto un istante la Nostra riflessione sul rito presente, quello dell’offerta dei ceri a Noi fatta.

PENSIERO RELIGIOSO DAL CUORE

Ogni rito è un atto di culto, che si esprime sensibilmente, perciò è anche un segno, un simbolo, un’espressione d’un pensiero religioso, che parte dal cuore, si esteriorizza per salire al mondo divino, e da quello discende per ritornare al cuore, e riempirlo di santi pensieri, anzi di grazie ed effusioni divine. Così dev’essere il nostro culto ritualizzato. Procuriamo che tale sempre sia; non mai vano, non mai retorico, né superstizioso. Dalla lex credendi passiamo alla lex orandi, e questa ci riconduce alla lux operandi et vivendi.
Dunque, che cosa è questo rito? Un’offerta, diciamo. Non erriamo, certamente, se accentuiamo il valore spirituale di quest’offerta materiale, e la chiamiamo oblazione. Voi ci portate non un semplice dono esteriore; voi ci portate mediante un segno, ch’è appunto il cero, un più prezioso dono interiore, quello dei vostri animi. «Incontro» si definisce questa festa: occursus, hypapante, come sapete. Ed incontro vuol essere la nostra cerimonia; l’incontro del Papa con i suoi Figli e Fedeli più vicini, localmente e moralmente; un incontro che trova il suo simbolo in un’oblazione. Grande gesto il vostro, grande commozione la Nostra nell’accoglierlo. Siamo ricondotti al ricordo del mistero, oggi commemorato, della presentazione di Gesù al Tempio, cioè all’oblazione della sua vita, umana e divina, a Dio Padre, a compimento dei disegni messianici convergenti sopra di lui, fatto, nella storia del mondo e nei destini degli uomini, «segno di contraddizione» (Luc. 2. 34). E pensiamo che una comune concezione sacrificale della nostra vita si esprime così. Vogliamo fare della nostra vita una offerta, un’oblazione.

Vogliamo dare alla nostra esistenza questo significato e questo valore. È l’antica e perenne idea religiosa che in tal modo si afferma nella filosofia, o meglio nella sapienza della nostra coscienza umana e cristiana, e che si ,manifesta nel gesto di questa presentazione dei ceri, quasi ciascuno di voi dicesse al Signore, Noi testimoni: la mia vita è tua; da Te, o Dio, mi è stata data, a Te, o Dio, la restituisco. È infatti il dono ricevuto dell’esistenza una espressione del sommo Amore per noi; amandoci, Dio ci ha creati; e quest’atto è, a bene ascoltare, una tacita, ma urgente domanda: «Io ti ho dato la vita per avere un interlocutore cosciente davanti a me: mi ami tu?». Noi abbiamo avuto la fortuna d’intuire questa interrogazione divina, in cui si concentra il perché profondo della nostra esistenza: e timidamente prima, forse poi arditamente, impetuosamente, abbiamo osato dire: «sì, o Signore; la mia vita dev’essere una risposta d’amore all’Amore; tutto ciò ch’io ho, da Te l’ho avuto; a Te lo restituisco». Questa risposta ha dei gradi; l’oblazione tende al grado più alto, anche se si realizza nelle circostanze pratiche in forme e in misure differenti. Cosi si pronuncia, nelle sue varie inflessioni concrete, il compimento del precetto fondamentale di tutta la legge, cioè della volontà di Dio sopra di noi, il precetto di amare sopra tutto e con tutto il nostro essere Iddio.
Questa elementare dottrina religiosa, che costituisce, potremmo dire, l’asse della nostra metafisica esistenziale cristiana, ha oggi quanto mai bisogno di essere ripensata e rivissuta. Una concezione antropocentrica abbaglia ed acceca l’uomo moderno; e trascina nella sua spirale luminosa e vertiginosa anche alcune file della Chiesa pellegrinante, che, tutte assorbite dall’esaltazione della realtà umana, come autonoma, come origine e fine a se stessa, smarriscono il senso della suprema e vivente Alterità divina trascendente e presente; e con esso perdono insensibilmente quello della fede, come verità obiettiva, quello del sacro, quello del dramma reale della salvezza.

IL CERO EMBLEMA DI FORTEZZA

Voi conoscete queste voragini di vuoto religioso, che la presunta sicurezza della mentalità critica odierna scava sul nostro cammino; voi conoscete la paurosa possibilità di queste crisi, che riducono dapprima, vanificano poi la Parola di Dio, vivente nell’insegnamento sempre fedele e sempre nuovo della Chiesa cattolica. Torna perciò tanto più opportuno, tanto più realistico, tanto più confortante questo rito d’oblazione: esso è un segno della fede nostra soggettiva coincidente con la nostra fede oggettiva.
Poi, volendo continuare la meditazione, essa ci porterebbe a interpretare, dopo il segno del gesto oblatore compiuto, il segno del dono offerto, di questo cero, che ciascuno di voi, a nome anche di numerose e degnissime comunità, ha messo nelle Nostre mani (Cfr. GUARDINI, I santi segni, p. 56).
Un cero, poderoso e bello come ognuno di codesti, deve ergersi puro e diritto, deve «stare», emblema di fortezza nell’umana debolezza; poi deve essere acceso, cioè realizzare il fine dell’essere suo, ed ardere, risplendere, dando d’intorno a sé il dono della sua luce, la diffusione della sua testimonianza, della sua carità; e così consumarsi in silenziosa immolazione di sé, fino alla fine; e allora si spegnerà, morendo; ma non sarà più l’ora delle tenebre; l’aurora dell’eterno giorno sarà spuntata.
Simbolo; ma voglia Iddio che esso tale veramente sia per significare la realtà della nostra vita cristiana. Con la Nostra Benedizione.

                             



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