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DISCORSO DEL SANTO PADRE PAOLO VI
AI PARROCI E AI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

Lunedì, 9 febbraio 1970

 

Figli e Fratelli in Gesù Cristo, carissimi,

Questo incontro annuale sembra a Noi assumere un’importanza straordinaria: perché unico, e carico perciò di tutti i desideri, di tutti i problemi, di tutte le esperienze, che vorrebbero avere qui una loro espressione, e trovare qui un giudizio, un conforto, un orientamento. Ciascuno dei presenti noterà come una spontanea esigenza, relativa all’ora presente della vita della Chiesa, impone a questo discorso un cambiamento di prospettiva: invece di rivolgere la sua attenzione ai tanti e non certo superati temi della predicazione quaresimale e della preparazione pasquale, come vorrebbe la consuetudine, donde trae la sua origine e la sua ragion d’essere, la Nostra parola si sente obbligata a riflettersi sulle persone presenti, su voi stessi, su i ministri, piuttosto che su i problemi del loro ministero. Il discorso diventa conversazione. La confidenza lo vorrebbe qualificare, l’affezione vivificare. Cioè: Noi ci sentiamo compresi di codesta presenza, come di ciò che maggiormente ci interessa. Le questioni relative al Nostro Clero primeggiano, in questo momento, su quelle relative al campo in cui esso esercita le sue funzioni sacerdotali e pastorali. È accaduto lo stesso rivolgimento, se ben ricordiamo, anche lo scorso anno, quando, in questa medesima occasione, si disse qualche cosa circa la controversa posizione sociologica del Sacerdote nel mondo contemporaneo. Così quest’anno, Fratelli e Figli carissimi, Noi non sappiamo parlare d’altro, se non di quanto vi riguarda direttamente. E se Noi cediamo a questo invito interiore, non è certo per semplificare il tema di queste semplici parole e per alleggerire il peso del Nostro ministero, ma piuttosto per sentircene maggiormente responsabili, e per dare a voi prova del posto, che voi occupate nel Nostro spirito e nella Nostra carità.

ACCRESCERE LO SPIRITO COMUNITARIO

Vi diremo, scegliendo fra le tante che si addensano sulla Nostra considerazione, una sola cosa: lo spirito comunitario. Dobbiamo accrescere lo spirito comunitario. Lo spirito comunitario in questa nostra comunità, che è la diocesi di Roma. Si parla di accrescere: ben volentieri riconosciamo che esso già esiste; deve svilupparsi, deve approfondirsi, deve caratterizzare la nostra spiritualità, deve esprimersi nella nostra attività pastorale, deve diventare fiducia, collaborazione, amicizia.
Sono già in atto rapporti comunitari esteriori; la comune dimora, l’appartenenza anagrafica alla Chiesa romana, l’inserzione canonica nel suo tessuto organico, ministeriale, gerarchico. Esiste la comunità ecclesiale; ma è questa sempre pari ad una perfetta comunione di animi, di intenti, di opere? Non siamo talvolta dei solitari in mezzo ad una moltitudine, che dovrebbe essere di fratelli e costituire famiglia? Non preferiamo talora d’essere isolati, d’essere noi stessi, distinti, diversi, ed anche separati, e fors’anche dissociati, e perfino antagonisti, in mezzo alla nostra compagine ecclesiastica? Ci sentiamo davvero ministri solidali nel medesimo ministero di Cristo? È sempre viva fra di noi un’affezione fraterna, che ci fa solleciti e lieti del bene dei nostri confratelli, e umilmente e santamente fieri della nostra vocazione fra le file del Clero romano?

UNITÀ FRATERNA

La revisione in corso, provocata dal Concilio, della vita sacerdotale ci presenta queste domande, rese più incalzanti dal fatto che in questa nostra comunità diocesana confluiscono membri molto eterogenei, che sono per origine, per formazione, per ufficio, per qualificazione spirituale e culturale molto differenti gli uni dagli altri: occorre fondere insieme maggiormente queste schiere di preti, di religiosi, di Prelati, se vogliamo davvero essere « chiesa », cioè congregazione, famiglia, corpo di Cristo, moltitudine animata dalla stessa fede, dalla stessa carità, come fu quella dei primi credenti, «un Cuor solo e un’anima sola» (Act. 4, 32).
Perché è fuori dubbio che questo è il pensiero di Cristo: l’unum sint è al vertice dei suoi voti (Io. 17); e prima di spaziare questo desiderio messianico (Cfr. Io. 11, 52) e divino (Cfr. 1 Tim. 2, 4) su tutta l’umanità, esso si rivolge direttamente ai suoi discepoli (Io. 13, 34): prima dell’unità ecumenica della Chiesa il Signore domanda a noi l’unità fraterna, comunitaria nella Chiesa. E pare a Noi che uno dei più chiari orientamenti del recente. Concilio sia proprio quello di mettere in evidenza l’indole comunitaria di tutta la umanità, resa specialmente manifesta nell’intenzione del piano divino soprannaturale (Cfr. Gaudium et spes, 23-24). La Chiesa cattolica già realizza, per virtù dello Spirito Santo, questo disegno costituzionale del suo Fondatore; ma siamo ancora in dovere di perfezionarne l’attuazione.

PARTECIPAZIONE ALLA MISSIONE GERARCHICA

Due fattori, pare a Noi, vengono in aiuto di questo perfezionamento nell’unità e nella carità, cioè comunitario, della vita sacerdotale. Il primo è il rilievo, dato dal Decreto conciliare «sul ministero e la vita sacerdotale» alla subordinata partecipazione dell’ordine presbiterale alla missione dell’Ordine episcopale. Verità nota, ma messa in luce dal Concilio, in modo che «d’ora innanzi chi vorrà sapere che cosa è il prete non potrà non riferirsi al sacerdozio episcopale, a cui il prete partecipa e che condivide, all’esercizio del quale egli è destinato a portare la sua collaborazione» (Presbyterorum ordinis, 2, 6, 7; Card. GARRONE, Le Concile, p. 78). La comunione nella Chiesa è gerarchica; e questo carattere ne costituisce un più stretto e più vitale principio di coesione. Il secondo fattore è la rinnovata e chiarita nozione della solidarietà che unisce l’ordine sacerdotale all’ordine episcopale, alla quale è stato ridato un nome, il « presbiterio », e col nome una struttura e una funzione: «I sacerdoti - dice il Concilio -, saggi collaboratori dell’ordine episcopale, e suo aiuto e strumento, chiamati a servire il Popolo di Dio, costituiscono col loro Vescovo un presbiterio unico, sebbene destinato a diversi uffici» (Lumen gentium, 28). Sotto la configurazione associativa e giuridica, che il ceto ecclesiastico viene così ad assumere, si vorrà ravvisare una più palese ed operante animazione spirituale, la quale non fa salire democraticamente dalla base al vertice l’autorità ecclesiastica, né tende a imporle le ragioni del numero, ovvero del pluralismo delle opinioni, paralizzandone l’esercizio carismatico e responsabile, ma mira a rendere vitale, cosciente, concorde la comunione e la cooperazione fra il Vescovo ed i suoi sacerdoti, e la coesione di questi fra loro.

PASTORALE D'INSIEME

Sembra a Noi che sia venuto il momento opportuno per dare allo spirito comunitario ecclesiale una sua migliore coscienza, una sua maggiore efficienza, specialmente fra coloro che sono insigniti del sacerdozio, e ancor più fra quanti di essi, del Clero diocesano e Religiosi, sono impegnati nell’esercizio d’un ministero pastorale. A Roma è stato designato in questi giorni il gruppo di Sacerdoti componenti il Consiglio presbiterale: diamo importanza, significato, efficacia a questo nuovo organismo. Pensiamo che tale sia anche il proposito del Nostro venerato e zelante Cardinale Vicario. Non sia questo gruppo di Sacerdoti separato dagli altri Confratelli, né tanto meno sia esponente d’una corrente che frazioni il Clero in tendenze antagoniste fra loro, ma piuttosto segno ed organo della concordia e della collaborazione, della solidarietà e dell’amicizia dei Nostri preti fra di essi, e sia alimento di quello spirito comunitario, di quell’unità e di quella carità, di cui stiamo parlando. Saremo Noi stessi lieti di assecondare codesta fusione di animi e di opere per quanto ci sarà dato conoscere e approvare i vostri comuni propositi e sovvenire ai vostri bisogni. Dovrà risultare da tale spirituale e operativa concordia un qualche programma d’azione pastorale combinata e solidale (la «pastorale d’ensemble», come ora si dice), con migliore risparmio ed impiego di persone, di iniziative e di mezzi, e con maggiore efficienza di risultati.

LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE

Subito vengono alla Nostra mente alcuni temi di questa attività pastorale simultanea e concertata: primissimo quello delle vocazioni ecclesiastiche. Noi non ci rassegniamo a pensare che il Nostro campo pastorale sia sterile di anime giovanili e adulte, capaci d’intendere la chiamata all’eroico servizio del regno di Dio; Noi pensiamo sempre che la scarsità di vocazioni nelle grandi città dipenda, sì, in gran parte dall’ambiente familiare e sociale, che rende refrattaria la coscienza delle nuove generazioni allo stimolo della voce di Cristo, ma abbiamo sempre la fiducia che un prete, un vero prete, né bigotto, né secolarizzato, ma vivente in intensità di sapienza e di sacrificio il suo sacerdozio al contatto con la comunità, con quella giovanile specialmente, abbia la virtù, o meglio la grazia di accendere in altre anime la fiamma che arde in lui dell’amore totale a Cristo Signore; e crediamo che la presentazione della vita sacerdotale, vissuta nella pienezza dell’immolazione, col sacro celibato ch’essa comporta, all’unica dilezione di Gesù Maestro e Signore, di Gesù sommo Sacerdote e unico Agnello redentore, e insieme alla completa ed esclusiva sua sequela nel servizio pastorale del Popolo di Dio, eserciti maggiore attrattiva ad abbracciare lo stato ecclesiastico, che non una formula umanamente più naturale e apparentemente più facile, nella quale però dedizione a Cristo e sacrificio di sé non abbiano più la perfetta ed esaltante coincidenza che noi conosciamo. Tutto sta nel capire; questo è il carisma condizionante; ma dobbiamo dubitare che lo Spirito lo possa dare ai figli più generosi della nostra generazione? La fortezza morale, il dono di sé, la dilezione a Cristo, sacra e sovrumana, ma verissima, vivissima e dolcissima, staccata da ogni pur legittimo amore (Cfr. Matth. 19, 29), la croce insomma per la propria e per l’altrui salvezza, hanno più efficace incidenza nel cuore umano, giovanile specialmente, che non quell’invito al sacerdozio, che fosse agevolato dalla combinazione dell’amore naturale con quello soprannaturale. Così che, anche nell’assillante bisogno di vocazioni ecclesiastiche, Noi pensiamo che il celibato, spiritualmente trasfigurato e trasfigurante, sia migliore incentivo al loro reclutamento qualitativo e quantitativo, che non una flessione alla legge canonica, che lo vuole integro e fermo e che costituisce l’epilogo di fedeltà e di amore al regno di Dio dell’esperienza storica e dell’agone ascetico e mistico della nostra Chiesa latina. Voi lo sapete, e con Noi voi lo volete, Figli e Fratelli Nostri. Siate benedetti.

IL SEMINARIO

È allora col problema delle vocazioni che dobbiamo riprendere a studiare e a risolvere, con proposito comunitario, quello del Seminario. Anch’esso dev’essere più che mai un centro di convergenza della nostra comunità ecclesiale, per l’affezione, per la fiducia, per il sostegno di ciascuno e di tutti. Una tradizione, che non deve spegnersi, ha fatto del nostro Seminario un focolare del cuore per tanti degnissimi ecclesiastici, che vi furono alunni e maestri, ancor più che una scuola scientifica e una palestra pedagogica; esso fu ed è la casa della nostra incomparabile madre, la nostra Chiesa, la casa degli affetti che non muoiono mai, dei ricordi che rivivono sempre, dei propositi che sorreggono la vita. Così ancora e sempre dev’essere per la vostra collettiva e cordiale fedeltà. Ne avrete merito e vantaggio anche voi, Religiosi.
E poi quanti, quanti problemi attendono dallo spirito comunitario uno studio più sistematico e più organico, una soluzione più moderna e più larga; le condizioni economiche del Clero, la vita comune dei Sacerdoti, la predicazione rigenerata, l’istruzione religiosa della gioventù e degli adulti, l’Azione Cattolica, le chiese nuove, l’assistenza ai quartieri poveri, il giornale cattolico, l’attuazione metodica della riforma liturgica, il canto religioso, l’arte sacra, gli esercizi spirituali, eccetera. È venuto il momento di una ripresa concorde e vigorosa per ogni forma d’apostolato, per ogni esercizio del ministero, per ogni sollecitudine pastorale. Tutti devono fare; Noi ora diciamo: tutti devono collaborare. L’orchestra ha molti e diversi strumenti, ciascuno suona il proprio; ma la musica è unica; deve essere un’armonia, una somma di sforzi comuni. Voi vedete come il nostro Vicariato, considerato pur troppo da alcuni solo sotto l’aspetto burocratico e disciplinare, possa diventare il centro del fervore, della concordia, dello zelo, della carità diocesana.

SPIRITUALITÀ PERSONALE

Noi non finiremmo adeguatamente questa esortazione all’incremento dello spirito comunitario, se non vi ricordassimo, come già conoscete, l’intrinseca relazione, che esso suppone e che esso promuove, con la spiritualità personale. Cadremmo nell’esteriorità, nel calcolo puramente sociologico, nel giuridismo, se all’accresciuto spirito comunitario non facessimo corrispondere un’intensa, intima, puntuale religiosità interiore. L’apostolato perderebbe le sue interiori radici, le sue migliori e originali espressioni, le sue più alte finalità, se l’apostolo non fosse uomo di orazione e di meditazione; la compagine del popolo educato alla partecipazione liturgica mancherebbe di vera coesione spirituale e di vero frutto di comunione con i misteri divini celebrati, se il ministro e se i singoli fedeli non ricavassero dal rito e non vi infondessero un proprio fervore religioso; la Chiesa non sarebbe più Chiesa, se nell’attuazione della carità fraterna non vi anteponesse e non vi infondesse la carità divina; e questa esige il colloquio silenzioso dell’anima, che ascolta e contempla dentro di sé; e dice a Cristo, che all’anima, nell’anima si è reso presente, le parole sue, infantili e superlative, balbettanti, piangenti, supplicanti, esultanti e cantanti, ma sue, segrete e forse solo a Dio comprensibili; solo con lo Spirito e forse dallo Spirito stesso in noi e per noi pronunciate ineffabilmente, gemitibus inenarrabilibus (Rom. 8, 26). La vita interiore non ha supplementi; per noi specialmente, ministri del Signore; non può, non deve mancare.
Lasciateci terminare con questa «liturgia della parola». La parola è di San Paolo ai Fi1ippesi (Phil. 2 . l-5). Figli e Fratelli: «Se dunque è possibile qualche consolazione in Cristo, se vi è qualche conforto dell’amore, se vi è qualche comunanza di spirito, se avete sentimenti di compassione, rendete compiuto il mio gaudio con la vostra concordia, avendo uno stesso amore, una stessa anima, uno stesso sentire; nulla si faccia per spirito di rivalità, o per vanagloria, ma per umiltà, ritenendo ciascuno gli altri a sé superiori; non guardi ciascuno solo alle cose proprie, ma anche a quelle degli altri. Abbiate fra voi quei medesimi sentimenti, che furono in Cristo Gesù». Così sia, con la Nostra Benedizione Apostolica.

                               



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