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DISCORSO DI PAOLO VI
ALLA SACRA ROMANA ROTA

Giovedì, 28 gennaio 1971

 

Come ogni anno, la solenne inaugurazione dell’attività giudiziaria del Tribunale della Sacra Romana Rota ci offre la soddisfazione di riceverne i degni componenti, tanto benemeriti della Santa Sede: Monsignor Decano, che ringraziamo per il suo nobile indirizzo, il Collegio dei Prelati Uditori, gli Officiali del Tribunale e lo Studio Rotale. A tutti il nostro saluto, il nostro elogio, il nostro incoraggiamento.

Voi vi attendete una Nostra parola, all’inizio del vostro anno: e siamo lieti di riflettere un istante insieme con voi, su alcuni punti a cui ci richiama la vostra presenza. Molto semplicemente del resto, e senza alcuna pretesa cattedratica, anche se le controversie odierne relative a questi punti meriterebbero qualche precisazione dottrinale.

1. Anzitutto, l’esercizio dell’autorità nella Chiesa, con i precisi poteri che le derivano dalla volontà stessa di Cristo, nel quadro di quell’amore evangelico per cui ogni manifestazione di autorità è un impegno verso il volere di Cristo e una responsabilità di servizio nella comunità. Effettivamente, l’ordine della carità comporta che ognuno ami il suo prossimo - e tutti sono prossimo, secondo il comandamento nuovo di Gesù -; cioè che ognuno «serva» gli altri, sia utile agli altri. Gli altri sono l’oggetto, non l’origine dell’autorità stabilita per il loro servizio, non al loro servizio.

Alcuni, nella comunità, com’è noto, hanno un dovere e un diritto di rendersi utili agli altri in determinate forme, per determinati fini; sono i «ministri» della carità, del Vangelo, della Chiesa; sono la gerarchia. Il concetto di autorità-servizio si realizza in essa in misura e in maniera più piena; e ciò per un mandato che viene dalla carità di Dio, si fa carità umana, perché è derivato da Cristo e da Dio, e perciò per certe operazioni riveste il carattere funzionale di superiorità sociale, e perché sempre si realizza mediante la dedizione di sé nel fine e nello spirito di servizio, con carattere di esclusività fondata sulla chiamata divina (Cfr. Hebr. 5, 4).

La Costituzione Lumen gentium ha ben rilevato questo carattere di preminenza, nella ricchezza e diversità delle potestà e dei doni, di cui l’unico Spirito abbellisce la sua Chiesa: «Fra questi doni - ha detto il Concilio Vaticano II (Ibidem 7) - eccelle la grazia degli Apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (Cfr. 1 Cor. 14). Lo Spirito, unificando Egli stesso il corpo con la sua virtù e con l’interna connessione dei membri, produce e stimola la carità tra i fedeli». Anche il complesso delle leggi stabilite dall’autorità della Chiesa rientra pertanto in questa visuale del bene supremo della società ecclesiale e dei suoi membri, perché tutto parte dalla concezione di Chiesa e dal principio - Dio -, e dal fine - il prossimo -, dell’autorità che la regge.

Tale concezione è stata esaminata e approfondita dal Concilio, che ha messo in luce il carattere mistico della Chiesa (aspetto carismatico) e il suo aspetto visibile, l’uno e l’altro gerarchico e comunitario, accentuando lo scopo di «servizio» dell’autorità della Chiesa, della quale autorità peraltro ha dichiarato i caratteri peculiari e insostituibili, quando ha detto: «I Vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate, come vicari e legati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà . . . Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in ultima istanza sottoposto alla suprema autorità della Chiesa, e, in vista dell’utilità della Chiesa e dei fedeli, possa essere circoscritta entro certi limiti. In virtù della medesima potestà, i Vescovi hanno il sacro diritto e, davanti al Signore, il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all’apostolato . . . I fedeli, da parte loro, devono aderire al vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo, e come Gesù Cristo al Padre, affinché tutte le cose siano d’accordo nell’unità e crescano per la gloria di Dio» (Lumen gentium, 27).

È ben vero che, da parte di alcuni, si è oggi tanto accentuato il carattere di «servizio» dell’autorità della Chiesa, che si possono avere due pericolose conseguenze nella concezione costitutiva della Chiesa stessa: quella di assegnare una priorità alla comunità, riconoscendole poteri carismatici efficienti e propri, e quella di trascurare l’aspetto potestativo nella Chiesa, con accentuato discredito delle funzioni canoniche nella società ecclesiale; donde è derivata l’opinione d’una libertà indiscriminata, di un pluralismo autonomo, e un’accusa di «giuridismo» alla tradizione e alla prassi normativa della Gerarchia.

Davanti a queste interpretazioni, che non corrispondono fondamentalmente al pensiero di Cristo e della Chiesa, vorremmo ancora oggi ricordare che l’autorità, cioè il potere di coordinare i mezzi idonei per il raggiungimento del fine della società ecclesiale, non è contraria all’effusione dello Spirito nel Popolo di Dio, sì bene veicolo e custodia; essa è stata attribuita a Pietro ed agli Apostoli, come ai loro legittimi successori, da Cristo stesso: «Mi è stato dato ogni potere in cielo ed in terra. Andate dunque, fate che tutti i popoli diventino miei discepoli . . . insegnando loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato» (Matth. 28, 18-19); «Tutto quello che avrete legato sulla terra sarà legato nel cielo e tutto quello che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto nei cieli (Matth. 18, 18); «Chi ascolta voi, ascolta me e chi respinge voi respinge me, e chi respinge me, respinge colui che mi ha mandato» (Luc. 10, 16). A Pietro, poi, l’ufficio di legare e di sciogliere è stato dato anche personalmente (Matth. 16, 19; e cfr. Matth. 18, 18; Io. 20; 23), mentre dell’edificio ecclesiale egli è costituito «pietra» (Matth. 16, 18), cioè «principio e fondamento dell’unità» (Lumen gentium, 23), e della Chiesa dichiarato Pastore per eccellenza (Io. 21, 16-17). Sono sempre vere e solenni le proposizioni del nostro umile catechismo: vi è una trasmissione di potestà da Cristo agli Apostoli, con a capo Pietro, e dagli Apostoli ai Vescovi, loro successori con a capo il Vescovo Romano, successore di Pietro; trasmissione di potestà che, come abbiamo visto, il Concilio Vaticano II riassume nel diritto e nel dovere davanti al Signore di «dare leggi, di giudicare e di regolare» ciò che riguarda il culto e l’apostolato (Loc. cit.). Pertanto, oltre le funzioni di ministerium e di magisterium, il Concilio ha considerato su di un piano squisitamente pastorale, dandone i fondamenti dogmatici, anche il triplice potere di giurisdizione e di governo (regimen), che i Vescovi hanno il diritto e il dovere, come dicevamo, di esercitare: e cioè il potere legislativo, giudiziario e coattivo (Cfr. Immortale Dei, 1885, in Acta S. Sedis, 18, p. 165).

2. Soffermiamoci un istante su quello giudiziario, che ora più ci interessa, quello cioè di dirimere cause sorte tra i fedeli o di giudicare un fatto che si pretende esser commesso contro la legge, e ciò al fine di porvi rimedio; esso è talmente collegato col potere di dare leggi che, senza di esso, neppure il potere legislativo avrebbe il suo vigore. Invano infatti si attribuirebbe al superiore l’autorità di dettare leggi, se egli poi non avesse il potere di farle osservare, anche ove trattasi di punirne la trasgressione, oppure di dirimere liti e controversie, nelle quali si tratta di definire equamente il diritto. L’autorità legislativa che non avesse anche il potere esecutivo e giudiziario sarebbe socialmente inane, non avendo modo di provvedere a se stessa ed alla propria stabilità, cioè all’efficacia dell’ordine, per il bene comune, contro l’arbitrio, il dispotismo e la violenza, altrimenti inevitabili (Cfr. C.I.C., can. 2211).

Orbene non si può negare alla Chiesa, per divina istituzione dotata d’una vera e propria potestà di giurisdizione, anche se solo analogicamente simile a quelle di origine umana? quel che si deve concedere a qualunque società ben compaginata. Il concetto rimane sostanzialmente valido, anche se nella società civile i tre poteri vengono esercitati da organi distinti, la magistratura, alla quale è attribuito il potere giudiziario, gode di una particolare indipendenza dagli altri organi.

Nella Chiesa l’unità del triplice potere è salvaguardata dalle persone a cui Cristo lo ha affidato (Papa e Vescovi): l’esercizio di esso, tuttavia, com’è noto, viene affidato ordinariamente a persone od organi diversi (ad es. SS. Congregazioni, Tribunali: Vicario Generale, Officiali).

3. S. Paolo, che da alcuni viene esaltato come il fautore dei carismi contro l’istituzionalismo nella Chiesa, ci dà cospicui esempi di esercizio di potere giudiziario e coercitivo. In linea di principio S. Paolo riserva il potere di giudicare ai «santi», cioè agli appartenenti alla comunità cristiana, tanto più che ad essi spetta giudicare il mondo (Cfr. 1 Cor. 6); ma da parte sua S. Paolo esercita con vigore il potere di giudicare e di punire. Non vogliamo ricordare qui le parole con cui egli giudica e condanna un fedele di Corinto, reo di incesto (Cfr. 1 Cor. 5). Basta poi leggere la seconda lettera ai Corinti e quella ai Galati, che fu scritta subito dopo, per comprendere come l’Apostolo delle genti, il cantore ispirato della carità (Cfr. 1 Cor. 13), esercitasse il potere che egli sentiva essergli dato da Cristo.

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Ma vale la pena vedere come l’Apostolo Paolo eserciti il suo potere di giudizio riguardo ai carismi ed ai carismatici. È ben vero che lo Spirito è pienamente libero nella sua azione e San Paolo, prendendo posizione contro i Tessalonicesi, raccomanda di non estinguere lo Spirito (Cfr. 1 Thess. 9, 19). Ma è anche vero che i carismi sono per utilità della comunità, che non tutti hanno gli stessi carismi e che per la debolezza umana i carismi possono essere confusi con le proprie idee ed inclinazioni, non sempre ordinate. È pertanto necessario giudicare e distinguere i carismi per controllarne l’autenticità, per coordinarli con criteri desunti dalla dottrina del Signore e secondo l’ordine che deve essere osservato nella comunità ecclesiale. Tale ufficio spetta alla sacra gerarchia, costituita anch’essa con carisma singolare, tanto che San Paolo non riconosce valido alcun carisma che non obbedisca al suo ufficio apostolico (Cfr. 1 Cor. 4, 21; 12, 4 s.; Gal. 1, 8; Col. 2, l-23).

4. Occorre distinguere il potere giudiziario dal modo di esercitarlo. È evidente che, attesa la singolare natura della comunità ecclesiale, il modo di esercitare tale potere in essa è diverso sotto molti aspetti da quello con cui lo si esercita nella società civile. Saranno utili a tal proposito le seguenti semplici osservazioni:

a) Non si può negare che la Chiesa, nel corso della sua storia, abbia preso da altre culture, per citare un esempio a tutti noto, ma non è l’unico, dal diritto romano, alcune norme anche per l’esercizio del suo potere giudiziario.

È vero, purtroppo, che la Chiesa ha derivato dalle legislazioni civili nei secoli passati anche gravi imperfezioni, anzi veri e propri metodi ingiusti, almeno «obiettive», nell’esercizio del potere sia giudiziario (processuale) sia coattivo (penale) (Cfr. JOUKNET, L’Eglise, 1 p. 331 ss.; J. MARITAIN; De l’Eglise du Christ. La personne de l’Eglise et son personnel, 1970, p. 237 ss.). Mentre c’è da rallegrarsi per il grande progresso fatto in merito, quanto a sensibilità e a metodi, bisogna riconoscere che la Chiesa - per ciò che riguarda il diritto di Roma - bene ha fatto ad ispirarsene, quando quel jus si imponeva per sapienza, equilibrio e giusta stima delle cose umane, scoprendo nel corpo dell’antico diritto civile positivo, più che l’arbitrio dell’abile legislatore, quella recta ratio nuturae congruens (Cfr. CICERONE, De Rep. III, 22), che conferisce alla legge il prestigio della razionalità giusta ed umana. Né è da dimenticare che le stesse norme del diritto romano e civile subirono nel corso del tempo profonde modificazioni non solo per l’influsso di altre culture e legislazioni, ma anche e, forse, soprattutto per l’animazione che ne fece la dottrina cristiana, mediante quel fenomeno interessantissimo del diritto comune, che tanto influsso ha poi avuto nelle successive legislazioni canoniche e civili, fino ai codici dei tempi moderni, nella formulazione dei diritti dell’uomo, oggi universalmente proclamati. Non fa quindi meraviglia che i codificatori del primo codice canonico si siano in qualche modo ispirati, anche nella parte che riguarda i giudizi, alla sapienza del diritto antico e profano.

b) I principi direttivi per la nuova codificazione canonica, approvati dalla prima Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, dànno un sicuro orientamento anche per la revisione del diritto processuale e penale, raccomandando uno stile più consono allo spirito pastorale del Concilio Vaticano II. La Commissione per la riforma del Codice sta lavorando in tale senso e possiamo dire che gran parte del lavoro in questo settore è già compiuto in seno ai gruppi di studio. Gli schemi già preparati contemplano, oltre ad un notevole snellimento del processo canonico, una più manifesta tutela dei diritti personali dei fedeli.

c) Nel giudizio canonico v’è certamente un sano formalismo giuridico da seguire : altrimenti regnerebbe l’arbitrio, con danno gravissimo degli interessi delle anime; ma il giudizio dipende anche e soprattutto dalla equilibrata estimazione delle prove e degli indizi da parte del giudice, la cui coscienza, quindi, è particolarmente impegnata. Il giudice ecclesiastico è, per essenza, quella quaedam iustitia animata, di cui parla S. Tommaso, citando Aristotele (IIa-IIæ, 60, 1); egli deve perciò sentire e compiere la sua missione con animo sacerdotale, acquistando, insieme con la scienza (giuridica, teologica, psicologica, sociale, ecc.), una grande ed abituale padronanza di sé, con uno studio riflesso di crescere nella virtù, sì da non offuscare eventualmente con lo schermo di una personalità difettosa e distorta i superni raggi di giustizia, di cui il Signore gli fa dono per un retto esercizio del suo ministero. Sarà così, anche nel pronunziare il giudizio, un sacerdote ed un pastore di anime, solum Deum prae oculis habens.

Lo stile pastorale, l’afflato di carità, lo spirito di comprensione mirano precisamente a questo. Non la legge per la legge, dunque, non il giudizio per il giudizio, ma legge e giudizio a servizio della verità, della giustizia, della pazienza e della carità, virtù che formano l’essenza del Vangelo, e che devono caratterizzare oggi quant’altro mai la figura del Giudice ecclesiastico.

Con queste elementari osservazioni Noi abbiamo inteso riaffermare e onorare in questa fausta circostanza, che ci offre occasione di salutare all’annuale ripresa della sua attività il Sacro Tribunale della Romana Rota e quanti altri Tribunali ecclesiastici adempiono analoga missione, la funzione giudiziaria della Chiesa cattolica, e ne abbiamo delineato, quasi senza avvedercene, il processo evolutivo, rivendicandone la sorgente dalla natura e dalle origini della Chiesa stessa, stabilita da Cristo come società umana e visibile, strutturata organicamente, come corpo animato dallo Spirito Santo e avente Cristo per capo, in via di compiere, come dice S. Paolo, «il suo sviluppo per l’edificazione di se stesso nella carità» (Eph. 4, 16), e identificandone il traguardo storico per l’ora presente, post-conciliare, nel senso pastorale, che deve più profondamente informare l’esercizio della funzione giudiziaria stessa. Si aprirebbe così davanti al nostro sguardo, quale presagio augurale, la visione dell’amministrazione della giustizia ecclesiastica permeata da questo stile pastorale, caratterizzato, sì, dalle esigenze intime e impreteribili dell’ordine, ma insieme da quella progressiva scoperta della dignità della persona umana, alla quale la Chiesa, madre e maestra, oggi ci conduce, e alla quale essa ha dedicato la ormai celebre Costituzione del recente Concilio «Gaudium et spes», appunto «detta pastorale, perché sulla base dei principi dottrinali, intende esporre l’atteggiamento della Chiesa in rapporto al mondo e agli uomini d’oggi» (Ibidem. nota iniziale).

Ma non spingeremo nel futuro il nostro occhio, felici come siamo di poterlo fermare oggi sul presente. Le parole, testé pronunciate dal venerato Decano della Sacra Romana Rota, a tanto ci obbligano, e pertanto ci autorizzano a compiacerci con lui e con i valenti e zelanti Uditori e Officiali dello stesso sacro Tribunale. Lo possiamo infatti e lo vediamo adempiere il compito suo con l’alta coscienza dei suoi diritti e dei suoi doveri, con assoluta integrità nell’interpretazione e nell’applicazione della legge canonica, con sapiente comprensione delle necessità della Chiesa e degli uomini di oggi, con limpido disinteresse nell’offerta dei suoi servizi, anzi con larga sollecitudine affinché a tutti, ai meno abbienti non meno che a chiunque altro, sia accessibile il suffragio della giustizia. È questa, oltre che una doverosa osservanza delle norme giudiziarie, proprie della Chiesa, una esemplare testimonianza della sua luminosa romana tradizione e della consapevolezza della sua presente vocazione di fedeltà a Cristo e allo Spirito, che da Lui deve fluire nelle membra del suo mistico Corpo.

Ecco, venerati e dotti Prelati, quanto abbiamo desiderato di comunicarvi, con la semplicità di riflessioni, in questa circostanza tanto a noi gradita; non dubitiamo che continuerete nella vostra azione, al servizio della Chiesa, con quella coscienza di altissima responsabilità e di totale dedizione, che debbono distinguere fedeli collaboratori del Papa e della Santa Sede, quali voi siete. Invochiamo su di voi i doni dello Spirito Santo, che stamane avete fervorosamente pregato: e, in pegno della sua continua assistenza, di cuore vi impartiamo la Nostra Apostolica Benedizione.

                                   



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