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RADIOMESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PIO PP. XII
IN ONORE DEL BEATO INNOCENZO XI*

Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo - Domenica, 7 ottobre 1956

 

Come limpido astro, acceso da Dio nel firmamento della Chiesa, e la cui fulgida luce ridonda ad onore di questa Sede Apostolica, il novello Beato Innocenzo XI appare in quest'ora solenne, ai Nostri e ai vostri sguardi, circonfuso di grandezza e di gloria sovrumane, giusto premio della eccelsa santità, che illustrò la sua vita e la sua azione. Siamo certi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che voi tutti condividete l'intima letizia che ricolma il Nostro cuore, non soltanto per esserCi stato concesso dalla divina Bontà d'iscrivere nell'albo dei Beati un Nostro Predecessore, verso cui abbiamo sempre nutrito profonda venerazione; ma per avere con ciò stesso adempiuto il voto del mondo cattolico, da oltre due secoli bramoso di vedere elevato agli onori degli altari un Papa tra i più insigni della Chiesa romana.

Benchè l'austera ritiratezza dell'umile Pontefice e la rigida sua attività nel promuovere l'opera di riforma in seno ad una società da lungo tempo adagiata in gravi abusi, lo avessero privato durante la sua vita terrena dell'aura della popolarità; tuttavia, al suo pio transito, proruppe spontanea in ogni ceto di persone la consapevolezza della sua santità e della grandezza delle opere portate a termine in vantaggio della Cristianità e particolarmente dell'Europa. Al coro di lodi osannanti alla sua memoria si associarono, come scriveva un contemporaneo, le favorevoli testimonianze anche di non pochi acattolici, che, sebbene non benevoli verso la Sede Apostolica, riconobbero la bontà, la rettitudine e la forza d'animo di lui. Ciò nonostante, il processo di Beatificazione, sollecitamente introdotto, non ottenne quella rapida conclusione che si attendeva. Considerazioni esterne, che per sè non riguardavano alcuna delle condizioni essenziali stabilite dalle leggi canoniche in tale materia, consigliarono a più riprese di sospenderne il corso. Al presente, però, gli ostacoli, che si frapponevano al suo felice coronamento, si potevano considerare superati, e chiariti i dubbi sulla retta interpretazione delle risoluzioni d'Innocenzo XI in talune vicende del Suo Pontificato, trascorso fra ardue difficoltà ed intricate circostanze sia all'interno che all'esterno della Chiesa. Accurate ricerche storiche hanno infatti confermato che i motivi determinanti dei singoli suoi atti, anche allorchè si trovò al centro di aspri conflitti, non erano in nessun modo derivati da contrasti o inimicizie politiche, bensì unicamente dalla coscienza della sua responsabilità nel difendere la libertà della Chiesa e nel tutelate la salvezza del mondo cristiano.

In tal modo lo splendore della verità, destinata a trionfare sebbene a distanza di secoli, sugli errati giudizi e le umane passioni, avvolge ora d'inclita gloria la sua figura e il suo nome Ma sopra ogni altra cosa Ci pare di scorgere nella odierna glorificazione del grande Pontefice del XVII secolo uno squisito tratto della provvidenza di Colui, che, come chiama le anime a straordinaria santità, così si riserva di segnare il giorno della loro apoteosi secondo disegni d'infinita sapienza. In tal guisa Ci sembra che la esaltazione di Innocenzo XI, dopo quasi tre secoli dalla sua morte, non solo debba reintegrare la giustizia storica verso un Pontefice altamente benemerito della Chiesa e dell'Europa, ma anche indicare le vie della salvezza, della pace del rinnovamento alla presente età, contrassegnata, come quella in cui egli visse, — da urgente bisogno di spirituale rinascita, dalla gravità e vivacità dei contrasti, da immani e comuni pericoli.

Possa pertanto l'inno del ringraziamento al Padre d'immensa Maestà, al venerando suo vero ed unico Figlio, al Santo Spirito Paraclito, che è testè risuonato in cotesto sacro luogo, già testimone delle virtù e delle gesta del novello Beato, nella Festa del Santissimo Rosario della Madre di Dio, riecheggiare nella universa Chiesa, da lui servita, avvalorata e difesa con tutte le forze del suo adamantino carattere, con la saggezza del suo spirito e soprattutto con amore di assoluta dedizione, che lo facevano pronto, come egli stesso più volte dichiarò, ad immolare, se necessario, per essa la propria vita.

LA FIGURA DEL NOVELLO BEATO
LA SUA SANTITÀ

Non vi è dubbio che l'intimo fondamento della grandezza anche umana d'Innocenzo XI derivò dalla sua santità, ossia vivida coscienza di fedele sudditanza a Dio, adorato ed amato come principio, termine e norma di ogni pensiero, affetto, parola, azione. Le eroiche virtù che in lui rifulsero, le intrepide lotte sostenute, le gloriose imprese che ne immortalarono il nome, scaturirono da quella, a guisa di differenti colori rifratti da un prisma di puro cristallo, e là trovarono la loro sorgente, là il necessario vigore.

Come spesso accade nella storia dei Santi, la divina grazia prevenne Benedetto Odescalchi fin dai più teneri anni, servendosi dapprima della sana educazione familiare impartitagli dai genitori, « persone molto pie, ed ottimi cristiani », e in conformità alla tradizione del nobile Casato, benemerito della Chiesa e della patria per illustri personaggi che l'una e l'altra egregiamente servirono. Un indirizzo più saldamente religioso attinse egli poi alla scuola di pietà e di apostolato delle Congregazioni Marine, che lo avviarono al sommo rispetto delle cose divine e alle virtù proprie della sua età e del suo stato, quali un'intemerata castità costantemente vigilata ed una ardente carità verso i derelitti, che più tardi gli meritò il titolo di « padre dei poveri ». Anche quando, incerto sullo stato di vita da abbracciare, si recò dalla nativa Como, in veste di commerciante a Genova, e poi di studente a Roma e a Napoli, il giovane Odescalchi rispecchiava nelle parole e nei costumi l'intensa vita spirituale di chi è posseduto interamente da Dio. In quella età, che spesso è per altri pretesto di frivolezze, egli già riteneva come norma di condotta « mandare il bene innanzi » (Romana - Beatif. et Canonizat. Venerabilis Servi Dei Innocentii Pp. XI, Summarium 1943, pag. 549) e in particolare soccorrere il prossimo, poichè « questo l'unico che può farsi utilmente nel mondo » (Summ. 1943 pag. 182). Sensibile e docile alle divine mozioni, appena ebbe la certezza di essere da Dio chiamato a servirlo nella Chiesa, il quasi trentenne Odescalchi non esitò ad abbracciare lo stato ecclesiastico, con assoluta purità di intenzione e con l'alacre prontezza a qualsiasi peso gli venisse imposto, o, come egli stesso (sembra) lasciò annotato, a « servir senza speranza e senza impegno », vale a dire, senza riguardo per persone e cose contrastanti con la sua vocazione (Summ. 1943, pag.583). Così non si sottrasse all'arduo incarico, certamente non consono all'innata generosità del suo cuore, di « Commissario straordinario della Marca » in tempi di estrema penuria privata e pubblica; ne adempì anzi l'ufficio con piena soddisfazione sia della Santa Sede, sia degli stessi popoli, grazie alla rara sua prudenza e pazienza, e particolarmente, alla squisita carità, che gli faceva riconoscere nei prossimi, specie i più poveri, la persona stessa di Cristo, da soccorrere, pertanto, col sacrificio di sè e delle proprie sostanze. Man mano che gli uffici e le dignità si accumulavano sulle sue spalle, tanto più il suo spirito cercava rifugio nella preghiera, cui dedicava molte ore nel silenzio dei tempi, e nella ritiratezza della sua casa, mutata in austero santuario traendone la chiarezza e il vigore per affrontare le difficoltà nel governo dei popoli, prima come Cardinale Legato in Ferrara, poi come Vescovo a Novara, e infine, in Roma.

Può forse recare meraviglia, come accadde per i contemporanei, che un uomo di tanto potere, di così dinamica attività, spiegata nelle funzioni di governo, quali l'amministrazione della giustizia, la tutela dell'ordine pubblico, le bonifiche delle terre, i rapporti con le autorità, la cura delle finanze dello Stato pontificio, trovasse il tempo di dedicarsi alle pie pratiche, quali, ad esempio, « l'esercizio della buona morte », o l'assistere alla recita del divino ufficio, o l'insegnare il catechismo ai fanciulli Eppure il nascondimento nella preghiera è la segreta origini dei suoi innegabili successi, prima e durante il Pontificato. Nell'unione con Dio egli affinava la innata maturità nel conoscere e nel giudicare gli uomini, nel temprare l'animo alle lotte, nel vedere con chiarezza i veri mali che travagliavano la società e, quanto a sè stesso, nel vigilare, correggere, dominare le proprie inclinazioni, per rendersi, il più possibile, strumento di bene nelle mani del suo Signore.

Fu in tal modo che il giorno in cui la Chiesa, vedovata per la morte di Clemente X, si prostrò davanti agli altari per ricordare la promessa dell'Onnipotente: « Io susciterò per me un sacerdote fedele, che opererà secondo il mio cuore e il mio spirito, e gli edificherò una casa fedele, ed egli camminerà tutti i giorni al cospetto del mio Cristo » (Missa pro elig. Summ. Pontif., Introit.) volse gli occhi su Benedetto Odescalchi, e riconobbe in lui il Pontefice che avrebbe incontrato « il compiacimento sia di Dio per la devota cura verso i fedeli, sia del popolo cristiano in virtù della costante ricerca della gloria di Dio » (cfr. ib., Oratio).

Innocenzo XI, accettando la dignità del supremo Pontificato come croce impostagli dalla divina Provvidenza, era consapevole dei gravi doveri che lo attendevano, ed insieme, delle grandi speranze in lui riposte dalla Cristianità. La sua profonda umiltà gli nascose forse quanto egli fosse, per indole, per esperienza e per volontà, preparato ad affrontare gli eventi che si andavano maturando, sia in seno alla Chiesa, ferita da gravi abusi, sia sia in seno alla comunità europea, minacciata nei suoi confini orientali, dilacerata da scismi religiosi, messa sossopra dall'antagonismo dei Principi, incapaci di darsi un equilibrio e la necessaria unità contro i comuni ed estremi pericoli. Lontana dal suo carattere pratico e volitivo, nonchè dalla sua coscienza di Padre e Pastore, era in lui ogni idea di « lasciar correre », o, tutt'al più, di parare i colpi caso per caso. Innocenzo XI salì al trono pontificio con la visione delle necessità del suo tempo, imponendosi in conseguenza e fin dal principio un programma di azione ben definito e concreto secondo queste tre direzioni: portare a compimento la riforma interna intrapresa dal Concilio Tridentino, rivendicare la libertà e i diritti della Chiesa, rassicurare la salvezza dell'Europa cristiana. Accingendosi a questa triplice opera, Innocenzo XI era conscio che avrebbe dovuto lottare contro potenti avversari, superare a buon fine la loro violenza, tollerare non poche offese e rivalse. Ciò nonostante, il suo animo intrepido non vacillò, nè aspettò, per agire, gli eventi, ma li prevenne, e con azione risoluta e spesso solitaria, attese ad attuare il suo programma contro ogni sorta di lusinghe e ogni suggerimento di compromessi, finchè non pervenne ad assicurare un duraturo successo alla sua opera. Il suo nome resta pertanto legato alla storia del Pontificato romano per l'ardimento con cui affrontò i tre sommi impegni, per la costanza con cui li perseguì, per i risultati d'immensa portata con cui li coronò. Lo storico, tuttavia, che si soffermasse a considerare l'esterno operato d'Innocenzo XI, mettendo in luce le doti naturali della sua indole, non darebbe il suo vero ritratto, se non illuminandolo con la stessa luce soprannaturale, da cui egli si fece guidare in ogni suo atto. Sotto questa luce appaiono congiunti l'uomo di governo e il santo, mentre quelle che sembravano forse soltanto doti naturali, si rivelano anche genuine virtù religiose, ridondanti da un'anima ricolma di Dio e dedita ad eseguire ad ogni costo la sua volontà.

Colui infatti, che fin da fanciullo si era distinto per l'accesa pietà verso Dio ed il rispetto alle cose divine, riconobbe nel sommo Pontificato un ulteriore motivo per rinvigorire la vita interiore, ritenendo suo dovere, come egli disse, « stare ritirato in casa e pregare Cristo per il suo popolo » (Summ. 1943 § 1973, pag. 422). La recita del divino Ufficio continuò ad essere « il suo sollievo e piacere maggiore », che anteponeva a qualsiasi altro anche necessario svago (Summ. 1943 § 1908, pag. 398). Sommo il rispetto per la santa Messa, alla cui celebrazione, in determinati giorni, non dedicava meno di tre ore : una per la preparazione, una per il sacrificio stesso, ed una terza per renderne umili grazie. A tanta fedeltà alle cose divine corrispondeva quella estrema delicatezza di coscienza propria dei santi, che gli faceva aborrire in sè e negli altri, non che la colpa, le più remote occasioni, o anche solo le apparenze.

L'eroico dominio sopra di sè ed i propri sentimenti lo rese esemplarmente paziente nel tollerare le angustie delle infermità che accompagnarono i tredici anni del suo pontificato, aumentate negli ultimi tempi fino a divenire dolori intollerabili. Di portamento dignitoso e quasi melanconico, sapeva pur essere a suo tempo affabilissimo. Era « veracissimo, schietto e sincero », alieno nell'intimo della mente da ogni simulazione, così che « mai nel suo trattare fu riconosciuta frode, doppiezza o inganno, anzi teneva da sè lontano chi conosceva soggetto e sottoposto a vizi simili » (Summ. 1943 § 554, pag. 125). Irremovibile nelle determinazioni, non le faceva sue se non dopo matura riflessione e richiesta di consigli. Sensibilissimo alle altrui sventure, tollerava invece in dignitoso silenzio le maldicenze e le offese arrecate alla sua persona. Rigido amministratore dei beni ecclesiastici, non lesinava sui propri nel soccorrere gli indigenti; nobile per nascita e pervaso della sacra dignità del suo Ufficio, amava trascorrere la vita secondo il genuino spirito apostolico, nella povertà, nella semplicità, nel lavoro (cfr. Summ. 1943, Pag. 744 e segg. passim). Tutto di Dio, non cercava che la gloria di Lui, affliggendosi profondamente fino alle lacrime, se pubbliche onoranze gli venissero tributate, come accadde in occasione della liberazione di Vienna, di cui egli fu l'indiscusso promotore e artefice.

Dalla totale dedizione di sè, nelle intenzioni e nelle opere, alla causa di Dio e della Chiesa, derivavano la sua intrepidezza, l'eroica sopportazione di momentanei cattivi successi, l'affrancamento da ogni umano riguardo, una tal quale severità, ma soprattutto la ferma costanza nell'adoperarsi che il bene, preso di mira, si effettuasse nonostante qualsiasi sforzo e rinunzia. Valga come esempio non unico il suo comportamento durante il Congresso della pace di Nimega. Al suo Nunzio, Luigi Bevilacqua, colà inviato, che adempiva egregiamente il suo ufficio, ma aveva forse coi suoi felici successi toccato alquanto la sensibilità degli Inglesi, fece inviare dal Cardinale Cibo le seguenti istruzioni: « Se venissero le proposizioni di pace dall'Inghilterra, e questa volesse essere arbitra del trattato, non poteva ella rispondere più opportunamente, né più conforme ai sensi di Sua Santità, quanto con dire che la Santità Sua nella missione di V. S. Ill.ma al Congresso non si è proposta la gloria propria, ma quella di Dio e la quiete e la sicurezza del Cristianesimo. Perciò non curarsi punto chi sia per essere l'Autore, purchè si faccia... ». Perciò « V. S. Ill. ma non ha... da affannarsi... per far risplendere il suo carattere nelle arti politiche, se non quanto conferiscono al fine santo di portar pace ai popoli e sicurezza e vantaggio alla Chiesa di Cristo » (25 settembre 1677 - Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Paci 37, fol. 13).

Questo servire unicamente alla causa santa, in scrupolosa coscienziosità dinanzi a Dio ed offrendosi a Lui come puro strumento, è forse il più spiccato tratto del carattere di Innocenzo XI; l'origine e la spiegazione delle massime sue intraprese, prima delle quali la riforma dello spirito cristiano e della disciplina ecclesiastica.

L'OPERA DELLA RIFORMA

L'opera di riforma del novello Beato rifulse innanzi tutto nel rinnovamento morale della Città di Roma e nell'amministrazione di tutto lo Stato ecclesiastico. Fu insigne suo merito di avere applicato i mezzi e i metodi della riforma risolutamente, comunicando ai rimedi, con l'inflessibile sua volontà e col personale suo esempio, concretezza e vigore. Di tutto ciò resta eloquente documento la celebre « Capitolazione » elettorale che, per il contenuto e le circostanze ad esso connesse, ma molto più per la scrupolosa attuazione cui l'Autore la volse, costituisce il più fedele ritratto del Beato Pontefice, quale restauratore della disciplina ecclesiastica e nemico degli abusi. È noto che, alla vigilia della propria elevazione a Sommo Pontefice, egli presentò ai Cardinali un programma di riforme, a modo di « Capitolazione » da lui stesso composto, sollecitandone l'accettazione, quasi come condizione del proprio assenso all'elezione. Non senza viva commozione si presenta al Nostro ricordo, in questa solenne circostanza, il racconto lasciatone dalle cronache del tempo. La sera prima della sua elezione, vale a dire il 20 settembre 1676, « alle due ore di notte », i Cardinali andarono da lui per porgergli il loro ossequio, ed egli li accolse con grande tenerezza e commozione, ma li scongiurò con preghiere accompagnate da lacrime, che volessero eleggere altro soggetto più meritevole di lui e più abile a sostenere un così gran peso, rappresentando esservi soggetti assai più atti. Finalmente si dimostrò disposto ad accettare, ma chiese che i Cardinali sottoscrivessero quei Capitoli, come di fatto avvenne. La mattina seguente 21 settembre l'Odescalchi fu eletto. (Notizie desunte da: Arch. Segr. Vatic., Miscellan., Conclavi, Fondo Pio 263 (417), fol. 369 e 401 - Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. lat. 1723, fol. 62 (già 58) e fol. 94 (già 90) e Barb. lat. 4664, fol. 79 e 197°, nel quale ultimo si dice che quei capitoli sarebbero stati già proposti nel precedente Conclave). Innocenzo XI saliva dunque al trono pontificio con un programma che sembrava riecheggiare i voti e le aspirazioni della porzione più eletta della Chiesa. A dire il vero, la forma che egli scelse per conferire la meritata solennità e importanza al suo programma, contrastava con le disposizioni che vietavano e dichiaravano nulle le cosiddette Capitolazioni nei Conclavi, emanate già da Gregorio X (cap. 3 de elect. 1. I tit. VI in 6°) e in tempi più vicini, da Pio IV (Cost. In eligendis, 9 oct. 1562 § 26) e Gregorio XV (Cost. Aeterni Patris, 15 nov. 1621 18); ma lo zelo ardente del nostro Beato, e il momento particolarmente delicato che attraversava la Chiesa, sembravano giustificare quell'atto, specialmente se, come spiegò più tardi Benedetto XIV, tali Capitolazioni fossero — e di fatto erano — giuste e dirette al bene comune, da stimarsi in ogni caso come aventi per il futuro Pontefice forza direttiva e non coattiva (De Syn. Dioec. 1. 13 C. 13 n. 20). Chiunque, conoscendo la storia del Pontificato di Innocenzo XI, rilegge ora quel documento della vigilia (1), non può sottrarsi all'impressione di avere davanti a sè uno schema biografico, anzichè un programma per l'avvenire. Non uno dei dodici articoli restò lettera morta, in guisa che essi, convenientemente estesi e arricchiti dai fatti storici, potrebbero adoperarsi come altrettanti capitoli della biografia di Innocenzo XI. Soprattutto lo spirito che li pervade, — alta coscienza del supremo Ufficio pastorale, rettitudine d'intenzione, zelo della gloria divina, immensa carità per il popolo, — rispecchia in anticipo quello che realmente animò il suo Pontificato. In tale programma, attuato, di riforma, Innocenzo XI fu primariamente sollecito di restituire alla Curia romana e all'Episcopato la propria spirituale dignità, scegliendo persone a tutta prova idonee e pronte a collaborare con lui nel bandire gli abusi.

Primo tra questi era additato quale radice d'innumerevoli mali il « nepotismo », vale a dire l'arricchimento dei parenti del Pontefice coi beni della Chiesa, e l'esorbitante potere da essi esercitato. Ben a ragione Innocenzo XI è indicato dagli storici come colui che diede il colpo di grazia a questo annoso male, per guarire il quale preferì adoperare la forza dell'esempio, anzichè quella di una Bolla, del resto già preparata (Summ. 1943, pag. 834).

Altrettanto rigido e tempestivo egli fu nell'amministrazione dei beni della Chiesa e dello Stato, reprimendo ogni sperpero e ogni spesa non necessaria, in modo che col risparmio e con un ordinamento tributario strettamente applicato, ma che tutelava i meno abbienti, risanò in breve i gravi disavanzi della Camera Apostolica. Restituito l'ordine, vorremmo dire, nella propria casa, sì dedicò con tutte le forze a ristabilirlo negli altri campi della vita ecclesiastica e civile. Nella scelta dei Vescovi non ebbe altro criterio se non di assicurare alle anime Pastori zelanti ed esemplari, dai quali non si stancò mai di esigere l'obbligo della residenza e la semplicità del tenore di vita. Tutore scrupoloso della giustizia, invigilò affinché per la negligenza dei tribunali e le lungaggini dei processi non soffrissero gl'innocenti. Padre dei poveri, come era sempre stato, si adoperò che i suoi sudditi non fossero oppressi da eccessive imposte, né dissanguati dagli usurai; al contrario, procurò il miglioramento delle condizioni di vita con la bonifica delle terre, la vigilanza sui prezzi, il regolamento dell'annona.

Maggiore però fu la sua sollecitudine riguardo all'elevazione religiosa e morale del popolo, per il cui conseguimento impiegò saggiamente l'autorità e la persuasione. Mentre non esitava nel prescrivere rigide norme e pene severe contro le mode e gli spettacoli immorali, e contro i seminatori di scandali, era solerte nell'istituire scuole di dottrina cristiana, spesso insegnata dagli stessi Cardinali, perfino « nella piazza » e « nei ridotti ». Più ampie e importanti furono le provvidenze disposte per preservare la fede dagli errori, arginare l'eresia, promuovere il culto divino, incoraggiare il fermento missionario nei paesi pagani, ravvivare il fervore religioso del clero e del laicato; tuttavia ciò che massimamente giustifica il titolo di « grande riformatore » attribuito dagli storici a Innocenzo XI, fu lo spirito di rinnovamento che egli seppe infondere negli animi, unitamente alla fiducia nella possibilità di riuscire allo scopo, e alla persuasione che da quell'indirizzo non si sarebbe tornati indietro. Sotto questo aspetto Innocenzo XI varca con lo spirito i confini del suo secolo, e, quasi redivivo nel nostro, insegna agli uomini di oggi, mortificati da tanti tragici errori, che lo scampo consiste nel rigenerarsi spiritualmente e moralmente; mentre indica ai cristiani, assetati di rinnovamento, ma sgomenti per tante apostasie nel popolo, quale sia la sicura base di ogni spirituale rinascita. Essa sta nello stringersi, con azione concorde, intorno a colui che Dio ha posto in terra a Pastore universale delle anime, nel lasciarsi da lui guidare e nel collaborare fiduciosamente con lui.

LA TUTELA DELLE LIBERTÀ ECCLESIASTICHE

Da quell'intrepido Pontefice, interamente votato alla causa di Dio, qual era Innocenzo XI, nella cui coscienza grandeggiava un altissimo concetto della indipendenza della Chiesa, non poteva attendersi che una ferma difesa contro ogni violazione della sovranità pontificia, ogni invasione nella sfera giuridica in cui soltanto la Chiesa è competente, anche se in campi apparentemente terreni e politici, e tanto più in quelli direttamente spirituali e concernenti la divina costituzione della Chiesa medesima e la sua suprema autorità.

La lotta per la difesa delle libertà ecclesiastiche è legata al nome della « primogenita della Chiesa », la Francia; ma è fuori di dubbio che la condotta e la energia d'Innocenzo non sarebbero state differenti, se si fosse trattato di una qualsiasi altra nazione. Fu una lotta grave, diuturna, condotta con impari armi, nella quale peraltro non dimenticò mai d'essere Padre.

Sul terreno concreto del conflitto, nel suo duplice oggetto, le « regalie » e le « franchigie di quartiere », non poteva incontrare avversario più potente. Egli ebbe di fronte un regno che lo stesso Hugo Grotius aveva chiamato il più bello dopo quello del cielo (De iure belli ac pacis - Lettera dedicatoria Ludovico XIII Christianiss. Francorum et Navarrae Regi, Amsterdami 1642, pag. 3); si trovò dinanzi alla Casa di Francia, allora, secondo il Bossuet, « la più grande, senza paragone, di tutto l'universo, e alla quale le più potenti Case possono ben cedere senza invidia, perché cercano di trarre la loro gloria da quella fonte » (Oraison funèbre de Henriette-Anne d'Angleterre, 21 aoùt 1670); dinanzi a un Re di Francia, Luigi XIV, di cui egli, a tutta prova sincero, stimava e lodava « la grandezza d'animo », « la esimia pietà e la fortezza degna del più gran Re », e ricordava « gl'ingenti benefici, che la Divina Bontà aveva fino allora elargiti a lui e alla regia sua Casa e non mancava di elargire ogni giorno più » (cfr. Lettera di Innocenzo XI a Luigi Re Cristianissimo di Francia, 22 aprile, 1683 - Arch. Segr. Vatic., Ep. ad Princ. 75, fol. 148 e 149). Ciò nonostante, nè la temibile potenza del Regno, nè la stima nutrita verso la persona del Re valsero a far desistere Innocenzo XI dalla lotta impostagli, fin dall'inizio del Pontificato, dalla questione delle regalie. Nel fatto che Luigi XIV avesse esteso a tutto il regno di proprio arbitrio taluni privilegi concessi dalla Santa Sede per determinate diocesi, Innocenzo XI vide la violazione di un diritto, con gravissimi pericoli per la Chiesa intera, sia sul terreno dei principi, che su quello della concreta realtà. Il silenzio del Papa di fronte ad essa avrebbe non solo sancito gli errori tante volte condannati dai suoi Predecessori in materia di rapporti tra Chiesa e Stato, ma anche facilmente condotto la Francia sulla via dello scisma.

Parimenti nel conflitto delle franchigie di quartiere Innocenzo XI vide una questione di principio e di diritto. L'eccessiva estensione delle immunità diplomatiche a interi quartieri si era dimostrata causa di disordini e di delitti in Roma e nello Stato Pontificio; Innocenzo XI si accinse pertanto ad estirpare l'abuso, nonostante la resistenza opposta dal Re e dal suo Ambasciatore. Egli fu inflessibile; ma chi potrebbe muovergliene rimprovero? Se, infatti, avesse permesso, con detrimento della giustizia e dell'ordine pubblico, ai Rappresentanti diplomatici delle Potenze estere in Roma libertà e usurpazioni, che quelle stesse Potenze non avrebbero mai tollerate nei propri Stati, non avrebbe forse danneggiato, tra l'universale stupore, la dignità e la indipendenza della Chiesa? E se avesse ceduto ad una Potenza, perchè più altera e minacciosa, ciò che aveva ad altre giustamente negato, non avrebbe forse attirato sulla Sede Apostolica il rimprovero di parzialità e di debolezza, con grave pregiudizio dell'autorità pontificia?

Nessuno storico onesto potrebbe ripetere il rimprovero che l'operato del Papa mirasse ad attraversare i piani politici del Re di Francia. Innocenzo XI ha lottato con la più pura intenzione, non per impulso o istigazione di alcuno (cfr. Lettera di Monsignor Lorenzo Casoni al Card. Ranuzzi, Nunzio a Parigi, 27 gennaio 1688 - Arch. Segr. Vatic., Francia 317 H IIa, fol. 907), ma mosso soltanto dal senso della sua responsabilità dinanzi a Dio, per la difesa del diritto della Chiesa e per la salvezza eterna dello stesso Re, la cui anima egli vedeva in pericolo.

È per verità singolare, come l'eccelsa santità che ne è l'origine, il caso di un avversario che conserva nella lotta, unitamente alla severità, l'amorevole benignità del padre. Nelle lettere indirizzate a Luigi XIV, il Papa lo esortava a riflettere che fugace è la vita dei Re e dei Principi, i quali saranno chiamati allo stretto giudizio di Dio, a cui dovranno presentarsi senza sèguito, senza alcuna insegna reale o potenti presidi, per rendere conto di tutta la loro vita anteriore al Giudice Supremo, scrutatore dei cuori, cui nulla è nascosto, e presso cui non vi è accezione di persona ( cfr. Lettera al Re di Francia, 29 dicembre 1679 - Arch. Segr. Vatic., Ep. ad Princ. 74, fol 72). Ma d'altra parte lo assicurava che tali cose egli scriveva, non per confonderlo, ma per ammonirlo come figlio carissimo, perchè nulla giova all'uomo di guadagnare il mondo intero e soffrire invece danno all'anima sua (cfr. Lettera al Re di Francia, 21 settembre 1678 - Arch. Segr. Vatic., Ep. ad Princ. 73, fol. 200). Il Beato Innocenzo XI trovava del tutto naturale fare appello presso il Re a quei medesimi principi religiosi che guidavano, anche in politica, ogni proprio atto, sicuro che là si sarebbero incontrati nella giustizia e nella concordia. Ma invano. D'altra parte, ben sapendo che, come potenza politica, il Papa nulla poteva opporre al Re di Francia, riponeva tutta la fiducia nell'assistenza divina. Tutto lo scambio di dispacci e di rapporti fra la Santa Sede e il Nunzio a Parigi rispecchia fedelmente quanto fosse salda tale fiducia e quanto vigore donasse all'inerme Vegliardo. Vorremmo ricordare, tra gli altri, un passo, quasi un monito, contenuto nella Istruzione inviata al Cardinale Ranuzzi, Nunzio Apostolico in Francia, il 21 settembre 1686, perchè è tra quelli più espressivi dell'animo e delle intenzioni di Innocenzo XI, ed anche perchè, quale sentimento comune ai Pontefici di ogni tempo, ha dimostrato la sua perenne vitalità e la sua forza nelle lotte da questi sostenute. In esso si parlava di coloro « che credevano di potere, a forza d'ingiustizie e di concussioni, espugnare l'animo del S. Padre e indurlo a concorrere a quei partiti, che erano contrari alla libertà e al bene di Santa Chiesa. Ma s'ingannavano grandemente, mentre per qualsivoglia violenza Sua Santità non sarebbe stato mai per allontanarsi da ciò che le veniva prescritto dal debito suo pastorale, con una viva fiducia in Dio, che debba a suo tempo farsi conoscere e iudicare causam suam» (cfr. Arch. Segr. Vatic., Fondo Nunziature diverse 231, fol. 166). Innocenzo XI non raccolse il successo personale di questa lotta, che lo impegnò per tutto il Pontificato e che alla sua morte toccava lo stadio più acuto e sembrava ormai senza speranza. Pare che la Provvidenza abbia preferito lasciarci di lui l'immagine dell'atleta di Dio, energico ma con moderazione e dignità. Noi pertanto non dubitiamo di annoverarlo nella schiera dei più ammirevoli e grandi campioni della libertà e della indipendenza della Chiesa, al cui vertice risplende la gigantesca figura di Gregorio VII.

LA DIFESA DELLA CRISTIANITÀ

Se non che in un'altra lotta, più minacciosa e tremenda, fu dato a Innocenzo XI di cogliere la palma della vittoria, meritandosi nella storia il titolo di salvatore della Cristianità dalla invasione dei Turchi. Al qual proposito teniamo a rendere noto che nel ricordare tali memorabili eventi, essenziali nella vita del Nostro Beato, ma lontani di quasi tre secoli e svoltisi in circostanze così diverse dalle presenti e ormai pienamente sorpassate, non abbiamo inteso in alcun modo di mancar di riguardo verso la Nazione turca, con la quale abbiamo relazioni, se non ufficiali, certo del tutto cortesi.

A dire il vero, Innocenzo non era un uomo politico nè per professione nè per inclinazione. Si ha anzi quasi l'impressione che, al momento della sua elevazione alla Sede di Pietro, non possedesse in questo punto una conoscenza del tutto chiara ed esatta della condizione straordinariamente intricata dell'Europa in quel tempo. Anche come Papa, egli si mantenne completamente al di fuori delle varie Leghe ed alleanze dei Principi cristiani, fra di loro o degli uni contro gli altri. Se dunque la storia commemora la sua grande azione politica, si spiega soltanto col fatto che la coscienza della sua responsabilità lo indusse ad entrare in quel campo. Si trattava, verso il 168o, di liberare l'Europa cristiana da un pericolo mortale, che, nella giusta estimazione di Innocenzo XI, non avrebbe potuto essere scongiurato, — dopo il necessario ricorso all'aiuto divino, — se non con un'azione, almeno principalmente, politica, iniziata dal Papa stesso, riunendo, cioè, le forze sparse delle nazioni europee sotto l'unico vessillo cristiano.

La vittoria marittima delle forze cristiane a Lepanto, la cui anima era stato il Suo e Nostro Santo Predecessore Pio V, aveva bensì, fiaccato la potenza ottomana e frenato l'impeto delle sue conquiste. Ma il confine del territorio dominato dai Turchi verso l'Europa centrale, rimasto immutato, rasentava Vienna; dell'Ungheria poi, dopo il 1541, non restava libera che una angusta striscia. La Porta poteva di nuovo sollevarsi, e lo fece sotto l'abile e temuto Gran Visir Kara Mustafà. Era suo disegno invadere l'Europa centrale, i territori della Casa degli Asburgo e, senza dubbio, passare anche in Italia.

In tale condizione di cose il pensiero dominante d'Innocenzo, che egli molto spesso manifestava, talvolta con ardente eloquenza, agli Inviati di Luigi XIV, era un contrattacco concentrico delle Potenze cristiane unite, inclusa Mosca, e in cooperazione con la Persia (cfr. Lettera del Card. Cibo al Nunzio di Polonia, 3o ottobre 1677 - Arch. Segr. Vatic., Nunz. di Polonia 183 A, fol. 104v-105).

Ma la dura realtà dei fatti deluse le sue speranze; Innocenzo dovè ridurre il suo progetto, restringendosi a promuovere un'alleanza tra l'Imperatore Leopoldo I e il Re di Polonia Giovanni III Sobieski, da lui chiamato « l'antemurale della Cristianità ». Però anche contro questo piano si addensò un cumulo di difficoltà, che parvero insormontabili ad ogni umano sforzo. Da parte sua, la Porta, che osservava attentamente gli sviluppi della politica europea, mentre sembrava non nutrire timori circa i Principi cristiani, non nascondeva la sua apprensione per l'opera del Papa. L'Ambasciatore veneziano a Costantinopoli, Pietro Civrano, così infatti informava il Senato di Venezia, nel 1682: « Fra' principi cristiani... non è posto nell'infima considerazione il Pontefice; lo credono atto a comporre qualche lega tra Principi Cristiani, unico più temuto freno degli infedeli » (Le Relazioni degli Stati Europei lette al Senato dagli Ambasciatori veneziani nel secolo decimosettimo, raccolte ed annotate da N. Barozzi e G. Berchet, Turchia, vol. unico, parte II, Venezia 1872, pag. 270).

Apprensione veramente fondata, poichè Innocenzo XI fin dal 1677, con energia quasi sovrumana, non lasciava nulla di intentato per venire a capo di quell'alleanza. Questa, a sua volta, era intralciata, fra l'altro, dagli equivoci e dalle diffidenze nutrite dall'una parte verso l'altra, dal fatto che Sobieski, già per sè poco affezionato all'Imperatore, si era lasciato guadagnare alla politica antiasburgica di Luigi XIV, ed inoltre, perchè nella stessa Polonia l'alleanza con l'Imperatore costituiva pomo di discordia dei partiti. Con lungo e tenace sforzo, il Papa, validamente sostenuto dai suoi Nunzi in Vienna e in Varsavia, eliminò un ostacolo dopo l'altro, fino a trarre Sobieski alla sua causa. Ma ecco che una nuova bufera minacciò di sommergere la nave giunta quasi in porto. In seno alla Dieta polacca, l'opposizione pareva insuperabile. Ma la Provvidenza divina, con visibile intervento, esaudì i voti d'Innocenzo XI. Inaspettatamente, allorchè nell'albeggiare del mattino di Pasqua, 18 aprile 1683, Sobieski comparve dinanzi alla Dieta e chiese l'accettazione dell'alleanza e la chiusura del Parlamento, ogni resistenza cessava. Nel rapporto del Nunzio in Polonia, Mons. Opizio Pallavicino, inviato lo stesso giorno al Card. Cibo, echeggia ancora il tono drammatico di quella lotta, il cui felice esito si attribuiva al santo zelo di Innocenzo XI. In quella notte — così egli scriveva — rimase del tutto compiuta l'opera tanto necessaria per la conservazione della Cristianità, e tanto desiderata dal S. Padre. Questa — egli aggiungeva — è una grazia singolare concessa da Dio alla Cristianità per i voti e le preghiere della Santità Sua, dovendosi confessare non poter essere opera umana, perchè qualunque industria, eloquenza ed arte non era valevole per ciò, dovendosi credere quasi veramente impossibile, e cosa più che naturale, il vedere, se non estinte, sopite le discordie, la rabbia, gli odii e rancori, cresciuti in sommo grado. Insomma tutte le circostanze facevano quasi disperare del buon esito di un affare sì importante, onde l'essersi felicemente concluso deve unicamente attribuirsi a Dio, mosso dai ferventi voti di Sua Santità (cfr. Arch. Segr. Vatic., Nunz. di Polonia 101, fol. 187).

L'intervento divino giungeva in tempo per salvare la Cristianità dal pericolo ormai estremo. Infatti nello stesso giorno in cui l'alleanza fra l'Imperatore Leopoldo e Sobieski era conclusa, il potente esercito turco per l'offensiva da Adrianopoli a Belgrado si metteva in movimento. Nei mesi che seguirono, IL Papa, non tralasciando un più intenso ricorso a Dio, si adoperò affinchè all'alleanza fosse data maggiore saldezza mediante un atto solenne le cui circostanze mostrano come egli fosse la guida morale del movimento di liberazione. Il 16 agosto 1683, nel Palazzo Apostolico del Quirinale i due Cardinali Protettori, Pio per l'Imperatore Leopoldo, e Barberini per il Re di Polonia, prestarono solenne giuramento nelle mani del Pontefice per la esatta esecuzione di tutte le obbligazioni e clausole convenute nell'alleanza offensiva e difensiva contro la Turchia, sottoscritta già dai Plenipotenziari il 1° aprile di quell'anno. La gioia d'Innocenzo XI in quel momento, e la sua commozione fino alle lacrime — come attesta il Card. Barberini in un'accurata relazione al Re di Polonia (20 agosto 1683 - Bibl. Vatic., Barb. lat. 6650, fol. 116-117) — erano pari alla trepidazione di una vigilia di battaglia, e alla speranza che quel patto potesse svilupparsi in una più ampia lega. Devotamente invocato il nome di Dio, il Papa implorò dal Datore di ogni bene le celesti benedizioni su quei Principi, esprimendo l'augurio che quanto era stato convenuto sarebbe inviolabilmente portato ad effetto (cfr. Arch. S. Congreg. de Propaganda Fide, Miscellanea Arm. VI, 39, fol. 280-283). Infatti, sebbene il detto trattato riguardasse immediatamente la guerra contro i Turchi; tuttavia in fine si stipulava che « siccome a questa alleanza erano non solo da invitarsi i Principi cristiani, ma anche da ammettersi quelli che spontaneamente vi si offrissero, perciò ambedue le Parti si obbligavano, in quanto era possibile, d'invitare alla medesima i Principi amici e alleati, di guisa che però si avesse l'accordo e il consenso di ambedue le parti, ogniqualvolta qualche Principe fosse da ammettersi; specialmente ambedue avrebbero invitato con ogni cura i Serenissimi Zar di Mosca » (cfr. Bibl. Vatic., Vat. lat. 12201, fol. 210v).

Nell'ora in cui si compiva così la solenne ratificazione dell'alleanza, Vienna era stretta d'assedio già da un mese, e Sobieski in viaggio con le sue truppe. I grandi eventi erano ormai maturi. La storica ora della battaglia definitiva di Vienna scoccò col primo limpido sole del 12 settembre, allorchè l'esercito di soccorso assalì quello degli assedianti. Prima del tramonto la vittoria arrideva nettamente agli eserciti cristiani, che incalzavano i Turchi in piena disfatta. Era a tutti chiaro che un così splendido successo fu reso possibile soltanto dalla cooperazione delle due armate, l'imperiale e la polacca. I contemporanei gli storici posteriori sono unanimi nell'affermare che l'artefice primario dell'alleanza, e quindi della liberazione di Vienna e del miglior corso che prese da quella la storia d'Europa, fu Innocenzo XI, il quale a sua volta, con commovente umiltà, ne attribuì ogni merito e gloria a Dio, per l'intercessione della sua Santissima Madre. Nel Concistoro segreto del seguente 27 settembre 1683, dopo avere pronunciato amplissime lodi all'Imperatore Leopoldo e al Re di Polonia, egli terminava così la sua Allocuzione: « Quod reliquum est, omnis spes et fiducia Nostra Deo est; Ipse enim, non manus Nostra, fecit haec omnia; proinde sincero cordis affectu convertamus nos ad Dominum Deum, Nostrum, ut mereamur eius semper protectione defendi ab inimicis nostris in angustiis et tribulationibus » (Bibl. Vatic., Bari) lat. 2896, fol. 590v).

A quella vittoria, che segnò il principio della ritirata della Potenza ottomana dall'Europa, e alla susseguente liberazione di Budapest ottenuta tre anni dopo, nel 1686, con l'estendersi della lega a Venezia e a Mosca, è indelebilmente legato il nome del Pontefice Innocenzo XI, come Uomo di Dio e Capo della Cristianità.

Venerabili Fratelli e diletti figli!

L'intima santità della grande anima di Innocenzo XI si rivela oggi nel sacro nimbo dei Beati, che risplende intorno al suo capo ed illumina di gloria il triplice diadema pontificio, quasi simboleggiante le tre massime opere di lui, quale riformatore della Chiesa, vindice dei suoi diritti, difensore della Cristianità tal Uomo e tale Pontefice è stato a Noi concesso dalla divina Bontà di elevare agli onori degli altari; a Noi, cui fu già dato di ascrivere nell'albo dei Santi un altro grande Pontefice, Pio X. L'uno e l'altro, così lontani nel tempo, così diversi per indole e per imprese, sono tuttavia somigliantissimi in tre aspetti.

Ambedue sono fulgidi modelli di ciò che si chiama l'« Uomo di Dio »: costantemente uniti a Dio nella preghiera, penetrati da una viva, si direbbe quasi naturale fede, e guidati da una coscienza, sempre desta e dominante tutto il loro essere, della responsabilità dinanzi a Dio, al quale soltanto, con purissima intenzione, essi tendevano e servivano, in piena abnegazione di sè stessi, sempre dediti al loro dovere essenziale, senza lasciarsi frastornare da cose subordinate o accessorie.

Ambedue amavano per sè stessi la semplicità e la povertà, ma avevano sempre il cuore aperto e la mano pronta per soccorre gl'indigenti.

Ambedue con forte e tenace volontà furono alacri nell'affrontare gravi intraprese e nel condurle a termine, nonostante qual- gl'indigenti. re Ambedue ostacolo. Pertanto ambedue i Pontificati sono stati rigorosa sorgente di bene per la Santa Chiesa. Beati nella gloria dei cieli, e presenti con la loro benigna intercessione sugli altari, i due eccelsi atleti di Dio convalidano la persuasione che, quando sul più elevato soglio della terra l'« Uomo di Dio » prevale e sorregge l'uomo di governo, la Chiesa non ha nulla da temere e tutto può sperare ed osare; mentre il mondo stesso può mirare alla Sede di Pietro come a perenne baluardo di verità e di salvezza.


1) Del documento suddetto si trovano varie copie nell'Archivio Vaticano, riprodotte poi dagli Autori; ma il testo originale con le firme di tutti i Cardinali, compreso l'Odescalchi, è conservato nell'Archivio Segreto Vaticano, « Conclave per la morte di Clemente X », fol. 512-518.

*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XVIII,
 Diciottesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1956 - 1° marzo 1957, pp. 531 - 549
 Tipografia Poliglotta Vaticana



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