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LETTERA DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II

PLURIMUM SIGNIFICANS

A TUTTI I VESCOVI, SACERDOTI E FEDELI DELLA CHIESA
PER IL XIV CENTENARIO DELL’ELEVAZIONE
DI SAN GREGORIO MAGNO AL PONTIFICATO (590-1990)

 

Circostanza significativa e ben degna di essere ricordata a tutti i fedeli Chiesa e, in primo luogo, ai vescovi e ai sacerdoti è l’ormai vicino XIV centenario dell’elezione di san Gregorio Magno a vescovo di Roma. Il titolo di onore, che ne ha consegnato la grandezza alla storia, il senso pastorale che egli ebbe acutissimo e che sempre prevalse - quale primario criterio di riferimento e dovere irrinunciabile - sulle occupazioni ed attribuzioni civili, alle quali pur dovette attendere, l’invio di Agostino e dei suoi monaci agli Angli per un’ardita e feconda missione evangelizzatrice: sono, questi, alcuni fra gli aspetti salienti della sua personalità singolare, i quali meritano speciale menzione in forza di un’esemplarità che si impone ancor oggi, nonostante i molti secoli trascorsi dall’età che fu sua.

La figura di Gregorio nelle sue componenti umane e sacerdotali si presenta tuttora alla nostra ammirata attenzione e si offre - malgrado il mutato, per non dire nuovo clima socio-culturale - quale testimonianza validissima di fedeltà evangelica e stimolo potente al nostro zelo e alla nostra inventiva di pastori di anime.

“Servus servorum Dei”: è noto che questa qualificazione, da lui prescelta fin da quando era diacono e usata in non poche sue lettere, divenne successivamente un titolo tradizionale e quasi una definizione della persona del vescovo di Roma. Ed è certo, altresì, che per sincera umiltà egli ne fece la divisa del suo ministero e che, proprio in ragione dell’universale sua funzione nella Chiesa di Cristo, sempre si considerò e dimostrò il massimo e primo servitore - servitore dei servitori di Dio -, servitore di tutti sull’esempio di Cristo stesso, il quale aveva esplicitamente affermato di esser venuto “non per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita a riscatto di molti” (Mt 20, 28). Altissima fu, dunque, la coscienza della sua dignità, alla quale si accostò con molta trepidazione dopo aver invano tentato di restare nascosto, al fine di evitarla; ma chiarissima, al tempo stesso, la coscienza del suo dovere di servitore, intendendo egli stesso e procurando che anche gli altri intendessero come ogni autorità, soprattutto nella Chiesa, è essenzialmente un servizio.

Una tale concezione del proprio ufficio pontificale e, proporzionalmente, di ogni ministero pastorale si riassume nella parola responsabilità: chi esercita un qualsiasi ministero ecclesiastico deve rispondere di quel che fa non solo agli uomini, non solo alle anime che gli sono affidate, ma anche e prima di tutto a Dio e al suo Figlio, nel cui nome agisce ogni volta che dispensa i tesori soprannaturali della grazia, annuncia la verità del Vangelo e svolge attività direttiva e di governo.

Di questa stessa concezione, che è vigile coscienza di personale responsabilità, troviamo conferma non soltanto nel lavoro svolto durante gli anni del suo pontificato, ma anche nei suoi scritti, specialmente in quello che fu nei secoli e resta tuttora un testo impareggiabile per i pastori d’anime, tanto raccomandato da non pochi sinodi e concili. Se non sono ignote certe affermazioni della Regola pastorale di san Gregorio, a cominciare da quella che designa “la direzione delle anime come la suprema fra le arti”, come si potrebbero dimenticare le ammonitrici e severe parole che la precedono e seguono? “Perché dunque alcuni osano assumere senza preparazione il magistero pastorale? . . . Spesso chi non ha mai conosciuto le leggi dello spirito, non teme di presentarsi come un medico delle anime”. E ancora: “Nessuno compie un male maggiore nella Chiesa, di chi vive nella disonestà, insignito di un nome e di un ordine santo” (S. Gregorio Magno, Regula pastoralis I, 1, 2).

A 25 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, che non già per un giudizio riduttivo né superficiale, ma per una precisa scelta operativa in risposta alle istanze dei tempi moderni, è stato definito “pastorale”, e dunque diretto propriamente al servizio del Vangelo della salvezza, sarà sommamente utile e opportuno riprendere in mano questo libro veramente aureo, per trarne insegnamenti tuttora validi e pratiche indicazioni di pastorale esperienza e, direi, i segreti stessi di un’arte che è indispensabile apprendere per poterla poi esercitare.

La spedizione alla “gens Anglorum”, voluta con felice intuizione pastorale da Gregorio e attuata dal monaco Agostino, mi offre lo spunto per una considerazione di carattere ecumenico, che desidero proporre non solo ai fedeli della Chiesa cattolica, ma anche ai fratelli e sorelle della Comunione Anglicana. Con quanta commozione si leggono nell’opera storica di san Beda il Venerabile le pagine dedicate all’arrivo del servo di Dio Agostino e dei suoi monaci nella Britannia e alle continue premure che per loro e per la loro impresa dimostrava il pontefice di Roma, seguendoli con occhio amorevole e vigile! “Peregrinazione pericolosa, laboriosa e incerta”, che i missionari avevano addirittura pensato di interrompere, ma che ripresero per la parola animatrice di colui che li aveva mandati e li sollecitava perché “con ogni istanza e fervore” compissero l’opera ormai iniziata. E l’impresa, “auxiliante Domino”, riuscì felicemente e si risolse in pacifica conquista dell’Isola al regno di Cristo. Si spiega così la commemorazione, ispirata a riconoscenza e affetto, che nello stesso scritto è dedicata alla morte del santo: “A buon diritto - vi si legge - possiamo e dobbiamo considerarlo nostro apostolo. Perché . . . della nostra nazione, prima soggetta agli idoli, egli fece una Chiesa di Cristo, onde è lecito applicargli il detto apostolico: Anche se per altri non è apostolo, egli lo è tuttavia per noi. Difatti, siamo noi, nel Signore, il sigillo del suo apostolato” (S. Beda, Historia Anglorum, I, 23; II, 1).

Questo sacro “sigillo” dura tuttora e non soltanto per le accertate ragioni e connessioni storiche, ma anche per i molteplici vincoli, sopravvissuti alle vicende della dolorosa separazione, può ancora agire efficacemente e spingere a ritrovare, secondo carità e verità le vie benedette dell’unione e dell’intesa fraterna. A Gregorio guardano con immutata ammirazione e venerazione anglicani e cattolici, i quali sull’intrapreso cammino della ricerca ecumenica possono incontrare la sua figura di pastore sollecito e riascoltare la sua parola che li rassicura, li incoraggia e conforta.

Ma ci sono tre circostanze che rendono ancor più attuale il messaggio di questo grande Pontefice. Come la sua cittadinanza romana e l’appartenenza a una delle più antiche e illustri famiglie lo resero particolarmente sensibile ai bisogni dell’Urbe, così la sua vocazione cristiana e la sua missione pontificale lo portarono ad operare instancabilmente per il bene della Chiesa universale. Tale molteplice sollecitudine costituisce una chiara indicazione in ordine a tre prossimi eventi ecclesiali, che ho già annunciato: l’indizione del Sinodo della diocesi di Roma, ormai in fase abbastanza avanzata; la celebrazione ancor più vicina del Sinodo dei vescovi, in una sessione dedicata alla formazione dei sacerdoti nel mondo d’oggi; la speciale Assemblea sinodale dei vescovi d’Europa.

Valga il ricordo del grande Pastore a sostenere l’impegno del suo successore, dei vescovi suoi collaboratori, dei parroci e di quanti altri - sacerdoti, religiosi e laici - si occupano direttamente del lavoro pastorale in Roma e nel suo distretto, a dar loro intuizione e coraggio nell’affrontare i gravi problemi di ordine religioso, morale e spirituale connessi con la crescita urbana, con la trasformazione culturale e con gli stessi problemi di ordine civile e amministrativo. Ciò che egli fece per la “sua” Roma in tempi assai difficili ci suggerisce un supplemento di zelo, ci sprona a moltiplicare le energie perché siano ben coordinate e dirette le iniziative promosse o da promuovere, perché nel quadro di Roma metropoli moderna rimanga inalterato e splendente il volto di Roma cristiana.

Quanto all’argomento, proposto alla riflessione dell’Assemblea sinodale di ottobre, io ritengo che la lezione di san Gregorio come maestro di vita pastorale si offra perennemente valida e assai utile per la formazione dei sacerdoti. Essa, infatti, comprende anche e specificamente raccomanda un’adeguata e accurata preparazione per l’esercizio dell’“arte” pastorale; prevede e raccomanda del pari la capacità di adattarsi alle varie situazioni, di conoscere a fondo le circostanze interne ed esterne, personali e ambientali, nelle quali i pastori sono chiamati a svolgere la loro opera; soprattutto sottolinea e ricorda che il governo delle anime col suo carico di occupazioni e preoccupazioni, lungi dal dissipare la vita interiore, deve piuttosto scaturire da essa. È da questo “centro”, cioè dal cuore del Pastore, illuminato dalla luce della fede e sostenuto dalla fiamma della carità, che prende forma ogni iniziativa di bene. Da esso, pertanto, dovrà essere ispirato e ad esso riferito il lavoro di formazione del futuro sacerdote, che solo così potrà riuscire, una volta inserito nel lavoro di ministero, un buon pastore del suo gregge.

Lo speciale Sinodo dei vescovi europei - come ho già avuto occasione di sottolineare - dovrà rispondere a due domande principali: l’una, concernente il passato, sui “doni propri” che le Chiese dell’Europa orientale e quelle dell’Europa occidentale sono state e sono in grado di scambiarsi reciprocamente (Cfrr. Lumen Gentium, 13); l’altra, proiettata verso il futuro, sul modo di favorire e di sviluppare questo reciproco “scambio di doni” per la nuova evangelizzazione del continente.

In vista di questo triplice appuntamento invoco la speciale protezione di san Gregorio Magno perché, unitamente alla schiera dei santi Pastori della Chiesa di Roma, voglia aiutare me stesso, e con me tutti coloro che condividono nelle varie Chiese sparse nel mondo la responsabilità del lavoro pastorale, a intravedere le nuove esigenze e i nuovi problemi, ad utilizzare le opportunità emergenti per rispondervi, a predisporre mezzi e metodi per avviare la Chiesa verso il terzo millennio cristiano, mantenendo intatto l’eterno messaggio della salvezza e offrendolo, quale incomparabile patrimonio di verità e di grazia, alle future generazioni.

Possa l’esempio, pur lontano nel tempo, del grande Pontefice sostenere i nostri sforzi e dar loro efficacia per l’edificazione e lo sviluppo della Chiesa di Cristo. Con la mia benedizione apostolica.

Dal Vaticano, il 29 giugno - solennità dei santi Pietro e Paolo - dell’anno 1990, dodicesimo di pontificato.

GIOVANNI PAOLO II

 

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