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CONCELEBRAZIONE PER IL GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA CURIA ROMANA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Basilica Vaticana - Martedì, 28 giugno 1983

 

Venerati Cardinali,
Fratelli e Sorelle della Curia romana!

1. “Rimanete in me e io in voi - dice il Signore - chi rimane in me porta molto frutto” (Gv 15, 4-5).

Celebriamo il Giubileo straordinario della Redenzione con questa Eucaristia, a cui partecipano, insieme con me, i membri di tutti gli ordini e gradi della Curia romana e i dipendenti delle varie amministrazioni della Santa Sede. Vi saluto con affetto, collaboratori carissimi nell’esercizio dell’universale servizio che la Chiesa di Roma rende alla Chiesa universale; e con commozione vi vedo oggi strettamente uniti a me, in questa Liturgia di riconciliazione e ci lode.

Celebriamo il Giubileo alla vigilia della solennità dei Santi Pietro e Paolo, le colonne incrollabili su cui poggia l’intera Chiesa, e quella di Roma in particolare. Lo celebriamo nella cornice sacra e stupenda di questa Basilica, che nella sua mole grandiosa, sormontata dalla Cupola di Michelangelo, racchiude il “trofeo” glorioso del sepolcro di Pietro. Celebriamo inoltre il Giubileo in questa memoria di sant’Ireneo, Vescovo di Lione, l’assertore incomparabile e incisivo del primato della Sede di Pietro (cf. S. Ireneo, Adversus haereses, 3,3, 1-2), quella che egli chiama “la più grande, la più antica Chiesa, a tutti nota e fondata dai gloriosi apostoli Pietro e Paolo, la Chiesa di Roma” (Ivi).

Celebriamo questo Giubileo nella gioia intima e grande che a noi tutti infonde la consapevolezza di essere chiamati a far parte, in modo più stretto e particolare, direi quasi in forma familiare, degli organismi centrali della Chiesa. La mia gioia si accresce per il fatto che sono associate a questo Rito anche le vostre carissime famiglie, che saluto anch’esse con particolare affetto.

2. È un momento di grazia. Siamo entrati tutti insieme attraverso la Porta Santa dando anche plasticamente l’immagine di quella unione di cuori nella fede e nell’amore a Cristo, nella quale deve svolgersi il comune lavoro al servizio della Chiesa universale. Mediante il Sacramento della Penitenza o Riconciliazione, e nel ricevere la Santissima Eucaristia, noi vogliamo entrare tutti insieme in quel grande flusso di grazia, che è l’Anno Giubilare per tutta la Chiesa. Vogliamo entrare in comunione più intima con Cristo, passando per mezzo suo all’intimità di vita e di grazia col Padre: Gesù, infatti, è “la porta delle pecore . . . Io sono la porta - egli ha detto -: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo . . . Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10, 7. 9-10). Questo significa il Giubileo. Questo significa l’acquisto dell’Indulgenza. È la nostra appropriazione, in forma straordinaria, di quell’ordinaria ricchezza della Redenzione di cui vive la Chiesa: è certamente, per ciascuno di noi, un impegno perché la Redenzione lasci nel nostro profondo la sua impronta, affinché - come ho scritto nella Bolla di indizione - sappiamo “riscoprire nella (nostra) esperienza esistenziale tutte le ricchezze insite nella salvezza a (noi) comunicata fin dal Battesimo” (Giovanni Paolo II, Aperite portas Redemptori, 3). Momento di grazia, dunque, che ci fa riflettere sull’intima necessità di essere e di rimanere uniti a Cristo per dare fecondità soprannaturale alla nostra vita e al nostro lavoro quotidiano, nel cuore della Chiesa.

“Rimanete in me e io in voi - dice il Signore -, chi rimane in me porta molto frutto”.

3. Ma è anche un momento di riflessione. Momento di presa di coscienza. Momento di verità. Il mio amato predecessore Paolo VI, nell’analoga occasione dell’Anno Santo celebrato per la Curia, il 22 febbraio 1975, richiamava i collaboratori al dovere di interrogarsi nell’intimo: “Noi siamo la Curia, l’organo centrale e complesso dei dicasteri, dei tribunali e degli uffici, che coadiuvano il pastorale governo generale della Chiesa cattolica; e tanto basta per generare in noi tutti non già un senso di superiorità e di orgoglio . . . quanto piuttosto la coscienza d’una assai grave e delicata funzione, che comporta responsabilità e fatiche tanto maggiori quanto più prossima è la sua derivazione dalle esigenze costituzionali del ministero apostolico” (Insegnamenti di Paolo VI, XIII [1975] 173).

Ecco, fratelli e sorelle. La nostra ragion d’essere è quella di “coadiuvare il pastorale governo generale della Chiesa”. Ma a che cosa tende questo governo, a cui, con la grazia di Dio, vanno le mie quotidiane sollecitudini, che hanno assolutamente bisogno della vostra collaborazione, senza la quale non potrebbero diventare concrete ed efficaci? A che cos’altro esso mira, se non a stabilire il Regno di Dio nel mondo? A dare voce al Vangelo? A preparare le vie al Cristo? Ad aprire le porte al Redentore? Che cos’altro vuole il mio e vostro lavoro, se non l’estensione della Redenzione nel mondo? Questo il nostro impegno, questo il nostro vanto, questa la nostra responsabilità, a cui tanto ci sentiamo impari e indegni.

La Curia ha il suo primo titolo di onore nella collaborazione che, a titolo unico, essa presta all’opera del Papa. E quest’opera - nel doveroso rispetto della sussidiarietà di tutte le componenti della Chiesa - è per questo strettamente associata alla Redenzione. “Difatti - ho ancora scritto all’inizio della citata Bolla - il ministero universale, proprio del Vescovo di Roma, trae origine dall’evento della Redenzione operata da Cristo con la sua morte e risurrezione, e dallo stesso Redentore esso è stato messo a servizio di quel medesimo evento, il quale in tutta la storia della salvezza occupa il posto centrale” (Giovanni Paolo II, Aperite portas Redemptori, 1). Ecco ciò che deve distinguere tutti i membri della Curia, a qualunque funzione appartengano: la certezza, la convinzione, la responsabilità di essere al servizio di quell’opera di salvezza a favore del genere umano, che Cristo ha portato a compimento col Mistero pasquale, e che ha affidato in modo tutto particolare al suo Vicario in terra. “Pasce agnos meos, pasce oves meas” (Gv 21, 15-16).

4. Il vostro è perciò un servizio di amore. Perché anzitutto la Redenzione è mistero di amore, è opera di amore. “L’amore si deve amare - ha scritto sant’Agostino -. Ci ha amati, affinché lo potessimo riamare, egli ci ha visitati col suo Spirito” (S. Agostino, Enarr. in Ps. 127, 8: CCL XL, p. 1827). Su questo dovere d’amore nel servizio ha ancora insistito Paolo VI presso tutta la Curia romana, nella menzionata occasione, dicendo: “Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore-carità che Dio ha per noi; e questa è sempre una scoperta originale per il nostro pensiero in cerca del vertice della verità: Dio ci ha amato! . . . È di qui che nasce l’impulso più forte e più diretto al compimento del sommo mandato evangelico dell’amore: amore al Dio che ci ha amati fino a darci come vittima e salvatore, come maestro e come fratello, il Figlio suo” (Insegnamenti di Paolo VI, XIII [1975] 175). Se il servizio di Pietro e dei suoi successori è, come dice sant’Agostino, un “dovere di amore”, “amoris officium” (S. Agostino, In Ioannis Evangelium, 123, 5), altra migliore definizione non può trovare la collaborazione che la Curia, per sua destinazione e struttura, presta al Papa: “amoris officium”, servizio di amore, dunque, il vostro.

5. Ma esso è anche un servizio di unità.

Da compiere nello spirito delle esortazioni paoline a Timoteo, nella lettura che abbiamo ascoltato: “Carissimo, cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro” (2 Tm 2, 22).

Da compiere nello spirito di ardente fusione dei cuori, per cui Gesù ha pregato nell’Ultima Cena, come ci ha ricordato il Vangelo che è stato proclamato: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21). L’unità a cui mira l’azione della Chiesa, è un bene anzitutto da vivere nell’esperienza e nel proposito quotidiano di quanti, come noi tutti, siamo impegnati in quest’opera. Opera di unità, perché, come ho detto prima, è opera d’amore: “Ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17, 26). Così abbiamo pregato stamani per l’intercessione di Ireneo di Lione: “Fa’ che ci rinnoviamo nella fede e nell’amore, e cerchiamo sempre ciò che promuove l’unità e la concordia” (Collecta liturgiae S. Irenaei, 28 giugno).

6. Il vostro è perciò anche un servizio di fede.

Dalla fede vissuta nasce la coscienza di appartenere alla Chiesa - e a un privilegiato servizio di Chiesa -. Dalla fede nasce l’esigenza di purificarsi continuamente per meritare il dono della Redenzione, il dono della grazia, ed esserne gli umili tramiti nel mondo. Ancora in questa Messa, chiederemo al Signore l’aiuto necessario “perché custodiamo intatta la fede” (Super oblata); perché con la fede viva “diventiamo anche noi veri discepoli del Cristo” (Post Communionem).

Abbiamo bisogno di implorare questo dono della fede viva, perché il nostro lavoro non diventi abitudine, non si trascini con stanchezza, non si svuoti esistenzialmente del suo primario valore ecclesiale. La fede deve tenere alta la nostra volontà, chiara la nostra mente, luminoso il nostro occhio interiore per vedere - anche nei più umili e nascosti lavori, che pur Dio vede e giudica e premia - l’apporto che Cristo ci chiede per aiutarlo a salvare il mondo. Essa deve dare ali al nostro zelo, nella piena coscienza - come vi dicevo nel nostro incontro di giugno dello scorso anno - che il “servizio della Sede Apostolica comporta una specificità propria, che trae il suo valore dall’essere appunto tutti chiamati a partecipare alla stessa missione che il Papa svolge a favore della Chiesa” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V,2 [1982] 2482).

7. Venerati Cardinali, Fratelli e Sorelle, miei Collaboratori!

Tale intensità di intenzione e di impegno non potrebbe realizzarsi senza l’aiuto di Cristo, senza l’intima fusione di grazia con lui e per lui. “Rimanete in me e io in voi - dice il Signore -, chi rimane in me porta molto frutto”. Dobbiamo portare frutto. La riconciliazione con Dio, a cui ci chiama il Giubileo, ne è la premessa. L’incontro eucaristico con Cristo, unendoci strettamente a lui, ce ne dà la possibilità e la forza. Portiamo molto frutto. Non stanchiamoci di tendere sempre al meglio.

Anche nell’inappariscenza della quotidianità logorante, Cristo ci dà la linfa vitale, per cui diventiamo fecondi nella Chiesa. Il Signore ha bisogno di noi. La Chiesa ci guarda e aspetta da noi. Il mondo, assetato di unità e di ordine, attende anch’esso da noi un apporto concreto al suo cammino di crescita nella giustizia e nella verità.

Sant’Ireneo continui a “confermare la Chiesa nella verità e nella pace” (Collecta).

I santi Pietro e Paolo ci aiutino a mantenere intatta la nostra fede, per la quale hanno dato la vita.

E Maria Santissima, in questo cammino di avvento, di preparazione al terzo millennio - di cui il Giubileo della Redenzione è segno e preparazione - ci sia vicina, ci assista, ci presenti il Cristo, Figlio del Padre e Figlio suo, affinché come lei, seguendo lei, imitando lei, possiamo anche noi essere i collaboratori della Redenzione, con il nostro “sì” quotidiano, con la nostra fedeltà alla Parola di Dio, con la nostra disponibilità. Maria ancor oggi ci ripete: “Fate tutto quello che egli vi dirà” (Gv 2, 5).

Fratelli! Qui il segreto dell’efficacia del nostro lavoro. Lo deponiamo nelle mani della Madre, perché vogliamo essere, sempre, i generosi servitori del Figlio e della Chiesa. Perché vogliamo fare quello che il Signore ci chiede. Quello che egli esige da noi tutti, membri della Curia romana: da voi, collaboratori miei: da me, Vicario del Figlio. Sempre, con l’aiuto di Dio, per l’intercessione della Madre. Amen.

 

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