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ADORAZIONE EUCARISTICA NELLA BASILICA VATICANA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Sabato, 24 novembre 1984

 

Resta con noi Signore perché si fa sera” (Lc 24, 29).

1. È questa l’invocazione che sale spontanea dall’animo davanti a Cristo, presente nel sacramento dell’Eucaristia, mentre siamo qui raccolti davanti a lui, al termine di una giornata da voi dedicata al grande e meraviglioso tema della preghiera.

È con animo lieto e riconoscente che ho voluto unirmi a voi per questo momento di adorazione davanti all’Eucaristia, per pregare e per essere ancora una volta illuminati dalla grazia di Cristo e dalla luce dello Spirito Santo sulla preghiera stessa, respiro della vita cristiana, quotidiano conforto in questo terreno pellegrinaggio, vitale dono di partecipazione, mediante Gesù, alla vita di grazia della Trinità.

2. Agli inizi del mio pontificato ho detto che la preghiera è per me il primo compito e quasi il primo annuncio, così come è la prima condizione del mio servizio nella Chiesa e nel mondo (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I [1978] 78). Occorre riaffermare che ogni persona consacrata al ministero sacerdotale o alla vita religiosa, come pure ogni credente, dovrà sempre ritenere la preghiera come l’opera essenziale e insostituibile della propria vocazione, l’“opus divinum” che antecede - quasi al vertice di tutto il suo vivere e operare - qualsiasi altro suo impegno. Sappiamo bene che la fedeltà alla preghiera o il suo abbandono sono la prova della vitalità o della decadenza della vita religiosa, dell’apostolato, della fedeltà cristiana (cf. Ioannis Pauli PP. II, Allocutio ad Religiosas, die 7 oct. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II/2 [1979] 680).

Chi conosce la gioia del pregare, sa pure che v’è in questa esperienza qualcosa di ineffabile e che il solo modo per capirne l’intima ricchezza è quello di viverla: che cosa sia la preghiera lo si comprende pregando. A parole si può solo tentare di balbettare qualcosa: pregare significa entrare nel mistero della comunione con Dio, che si rivela all’anima nella ricchezza del suo amore infinito; significa entrare nel cuore di Gesù per comprendere i suoi sentimenti; pregare significa anche anticipare in qualche misura su questa terra, nel mistero, la contemplazione trasfigurante di Dio, che si renderà visibile al di là del tempo, nell’eternità.

La preghiera è, dunque, un tema infinito nella sua sostanza, ed è altrettanto infinito nella nostra esperienza, poiché il dono dell’orazione si moltiplica in chi prega, secondo la multiforme, irripetibile e imprevedibile ricchezza della grazia divina che ci raggiunge nell’atto del nostro pregare.

3. Nella preghiera è lo Spirito di Dio che ci conduce verso la conoscenza della nostra più profonda verità interiore e ci rivela la nostra appartenenza al corpo di Cristo che è la Chiesa. E la Chiesa sa che uno dei suoi compiti fondamentali sta nel comunicare al mondo la sua esperienza di preghiera: comunicarla all’uomo semplice come al dotto, all’uomo meditativo come a colui che si sente quasi travolto dall’attivismo.

La Chiesa vive nella preghiera la sua vocazione a farsi guida di ogni persona umana la quale, di fronte al mistero di Dio, riscontra di essere bisognosa di illuminazione e di sostegno, scoprendosi povera e umile, ma anche sinceramente affascinata dal desiderio di incontrare Dio per parlargli.

4. Gesù è la nostra preghiera. Questo sia il primo pensiero di fede quando vogliamo pregare. Facendosi uomo, il Verbo di Dio ha assunto la nostra umanità per portarla a Dio Padre come creatura nuova, capace di dialogare con lui, di contemplarlo, di vivere con Dio una comunione soprannaturale di vita mediante la grazia.

L’unione con il Padre, che Gesù rivela nella sua preghiera, è un segno per noi. Gesù ci associa alla sua preghiera, egli è il modello fondamentale e la sorgente del dono dell’adorazione nella quale egli coinvolge come capo tutta la sua Chiesa.

Gesù continua in noi il dono della sua preghiera, quasi chiedendo a noi in prestito la nostra mente, il nostro cuore e le nostre labbra, perché nel tempo degli uomini continui sulla terra l’orazione che egli iniziò incarnandosi ed eternamente prosegue, con la sua stessa umanità, nel cielo (cf. Pio XII, Mediator Dei: AAS 39 [1947] 573).

5. Noi sappiamo, però, che nelle condizioni terrene in cui ci troviamo c’è sempre qualche fatica da compiere per pregare bene, qualche ostacolo da superare. Nasce spontaneo l’interrogativo sulle condizioni della preghiera. Al riguardo i classici della spiritualità offrono alcuni utili suggerimenti, che tengono conto della concretezza della nostra condizione umana.

Prima di tutto la preghiera richiede da noi l’esercizio della presenza di Dio. Così i maestri di spirito chiamavano quel profondo atto di fede che ci rende consapevoli che quando preghiamo, Dio è con noi, ci ispira e ci ascolta, prende sul serio le nostre parole. Senza questo atto di fede previo la nostra preghiera potrebbe rimanere più facilmente distratta dal suo fine precipuo, quello di essere un momento di vero dialogo col Signore.

Per pregare occorre inoltre realizzare in noi un profondo silenzio interiore. La preghiera è vera se noi non cerchiamo noi stessi nell’orazione, ma solo il Signore. Occorre immedesimarsi nella volontà di Dio con animo spoglio, disposto a una totale dedizione a Dio. Ci accorgeremo allora che ogni nostra preghiera converge, per natura sua, verso la preghiera che Gesù ci ha insegnato e che divenne la sua unica preghiera nel Getsemani: “Non la mia, ma la tua volontà si compia” (cf. Mt 6,10; Lc 22,42).

Infine, teniamo presente che nella preghiera siamo, con Gesù, ambasciatori del mondo presso il Padre. L’intera umanità ha bisogno di trovare nella nostra preghiera la propria voce: si tratta di un’umanità bisognosa di redenzione, di perdono, di purificazione. Nella nostra preghiera inoltre deve entrare anche quello che ci aggrava, ciò di cui ci vergogniamo; ciò che per sua natura ci separa da Dio, ma che appartiene alla nostra fragilità o alla povertà delle nostre singole persone (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 543). Così ha pregato Pietro dopo la pesca miracolosa, dicendo a Gesù: “Allontanati da me, Signore, perché io sono un uomo peccatore” (Lc 5,8).

Questa preghiera, che nasce dall’umiltà dell’esperienza del peccato e che si sente solidale con la povertà morale di tutta l’umanità, tocca il cuore misericordioso di Dio e rinnova nella coscienza di chi prega l’atteggiamento del figlio prodigo, che scosse il cuore del Padre.

6. Cari fratelli e sorelle, raccolti dinanzi al sacramento della presenza reale di Cristo, noi chiniamo la fronte, consapevoli della nostra pochezza, ma fieri al tempo stesso per l’immensa dignità che questa presenza ci reca: “Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4, 7). Noi possiamo stringerci intorno a lui, possiamo parlargli confidenzialmente, soprattutto possiamo ascoltarlo, restando in silenzio davanti a lui, col cuore vigile, pronti a cogliere il misterioso sussurro della sua parola.

Pregare non è un’imposizione, è un dono; non è una costrizione, è una possibilità; non è un peso, è una gioia. Ma per gustare questa gioia, occorre creare nel proprio spirito le giuste disposizioni.

Per questo anche stasera, noi ci ritroviamo sulle labbra l’invocazione degli apostoli: “Signore, insegnaci a pregare!” (Lc 11, 1). Sì, Signore Gesù, ammaestraci in questa scienza singolare, l’unica necessaria (cf. Lc 10, 42), l’unica alla portata di tutti, l’unica che valicherà i confini del tempo per seguirti nella casa del Padre tuo, quando anche noi “saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Gv 3, 2). Insegnaci, Signore, questa scienza divina; essa ci basta!

 

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