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VISITA PASTORALE A VERONA

BEATIFICAZIONE DI GIUSEPPE NASCIMBENI E GIOVANNI CALABRIA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Stadio Bentegodi - Verona
Domenica, 17 aprile 1988

 

1. “Di questo voi siete testimoni” (Lc 24, 48).

Caro pastore della Chiesa che è in Verona, signori Cardinali, diletti fratelli nell’episcopato, carissimi fratelli e sorelle della diocesi di Verona e del Veneto.

Ci troviamo nel tempo pasquale, che è iniziato con la domenica di Risurrezione per estendersi su tutto un periodo di cinquanta giorni fino a Pentecoste. Cristo destinò questi giorni agli incontri con i suoi apostoli - e poi, dopo la sua Ascensione al Padre, alla loro preparazione diretta alla venuta del Paraclito.

La liturgia della Chiesa ci permette di partecipare a questo tempo beato, per così dire, in un duplice ritmo: anzitutto, quello degli eventi che ebbero luogo prima dell’Ascensione, il ritmo cioè degli incontri diretti col Signore risorto; successivamente, il ritmo delle testimonianze degli Atti degli Apostoli, le testimonianze che diedero gli apostoli subito dopo la discesa dello Spirito Santo; il tempo degli inizi della Chiesa.

Vi è uno stretto legame tra l’uno e l’altro, come lo si può bene notare nelle letture dell’odierna liturgia.

2. Cristo appare agli apostoli, ancora impressionati per la recente notizia dell’incontro sulla via di Emmaus. Stavano ancora parlandone, quando Cristo viene visibilmente in mezzo a loro e dice “Pace a voi!”. Essi, tuttavia, hanno paura.

Non c’è da meravigliarsi. Gli apostoli sapevano che Cristo era morto tra le torture della croce ed era stato sepolto in una tomba. Stupiti quindi e spaventati potevano ben immaginare di vedere un fantasma (cf. Lc 24, 37).

Allora il Risorto dice loro: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate” (Lc 24, 39). Infine chiede qualche cosa da mangiare (cf. Lc 24, 41).

Un giorno l’apostolo Giovanni scriverà “Noi abbiamo veduto con i nostri occhi . . . abbiamo contemplato . . . le nostre mani hanno toccato” (1 Gv 1, 1). La testimonianza degli apostoli si fonda su un’esperienza diretta.

Per rispondere, fino in fondo, alla domanda dei suoi discepoli, Gesù - così come aveva fatto sulla via di Emmaus - spiegò che bisognava “che si compissero tutte le cose scritte su di lui” nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi: il Cristo doveva patire e risuscitare dai morti il terzo giorno (cf. Lc 24, 44. 46).

3. Nel giorno della Pentecoste l’apostolo Pietro ripeterà le medesime parole: “Dio ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto” (At 3, 18). È stato quindi condannato alla morte di croce con una sentenza umana. Ma la sentenza divina è stata diversa: “Dio l’ha risuscitato dai morti, e di questo noi siamo testimoni” (At 3, 15).

In questo modo la Chiesa degli apostoli cresceva e si consolidava nella certezza che Gesù Cristo “è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo . . . abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, giusto” (1 Gv 2, 2. 1).

Coloro ai quali “ardeva” il cuore in petto - quando il Risorto spiegava le Scritture (cf. Lc 24, 32); quando si faceva conoscere nello spezzare il pane, come ad Emmaus (cf. Lc 24, 35); quando stava insieme con loro perfino a mensa - sono diventati i testimoni.

Sulla testimonianza apostolica si costruisce la fede della Chiesa, di generazione in generazione.

4. Una tale fede, nutrita costantemente dall’Eucaristia, rinnovata dalla preghiera e anche dalla lettura e dalla conoscenza dei Libri Sacri, ha formato la vita della Chiesa in mezzo ai singoli popoli e nazioni.

Coloro che come testi oculari hanno avuto la certezza della verità rivelata in Cristo, sono diventati in seguito i testimoni e il fondamento della viva tradizione.

Venendo oggi nella vostra città, a Verona, e avendo davanti agli occhi tutto ciò di cui è costituito il suo passato e il suo presente - la sua eredità cristiana - oserei ripetere a tutti voi che siete qui ciò che Cristo ha detto agli apostoli: “Di questo. siete testimoni” (Lc 24, 48) anche voi.

Queste parole non diventano forse particolarmente attuali in questa circostanza, considerando proprio l’opera dei due figli di questa Chiesa, che mediante la beatificazione ottengono oggi la glorificazione nella vostra comunità cristiana!

5. Giuseppe Nascimbeni, un sacerdote della vostra diocesi, un parroco della vostra terra, un pastore d’anime legato ai problemi pastorali ed alle istanze sociali di una popolazione tanto vicina per costumi e tradizioni alla gente veronese di oggi.

Eppure un testimone singolare del Cristo per la sollecitudine amorosa, intelligente e fattiva verso le necessità del suo popolo; un pioniere nel promuovere opere e servizi sociali, e nell’aprirsi cristianamente alle esigenze via via incalzanti del tempo.

La fonte del suo zelo per le anime era l’Eucaristia, della quale era innamorato, al punto di non decidere mai alcuna questione importante senza avere prima pregato a lungo davanti al Santissimo Sacramento. Visse la sua missione di parroco con spirito missionario, aperto alle necessità della Chiesa, dedito a costruire o ricostruire la fede e l’esperienza di Cristo nell’anima dei suoi fedeli. Per questo istruiva i fanciulli ed i fedeli con costanti predicazioni, era particolarmente sollecito nell’insegnamento della catechesi, premuroso nell’offrire agli adulti occasioni di riflessione sulla dottrina e sulla morale cristiana, generoso nel provvedere alla formazione dei giovani attraverso gli oratorii maschile e femminile. Questi strumenti di apostolato, che sono nella tradizione di codesta Chiesa di Verona, costituirono la palestra della sua santificazione come pastore d’anime. Con tali mezzi riuscì ad inserirsi pienamente nella vita del suo popolo, che amava e voleva condurre a Dio.

Era attento a comporre gli odii, a provvedere alle necessità dei più poveri, premuroso verso i lontani, che cercava con zelo, verso i malati, i soldati, i migranti, i poveri, “ritenuti i suoi padroni perché gli rubavano il cuore” (cf. “Informatio super virtutibus”, 55).

Con questo spirito apostolico istituì la congregazione delle “Piccole Suore della Sacra Famiglia”, per estendere ancor più, mediante la loro opera, il suo ministero di parroco. Egli volle legare la Congregazione al lavoro pastorale nelle parrocchie con l’intento che fosse da essa propagata la devozione alla Famiglia di Nazaret, modello di vita e di santità per tutte le famiglie cristiane.

6. Don Giovanni Calabria è un altro testimone che ha lasciato una profonda traccia nella vostra Chiesa: testimone della carità verso i poveri, dello zelo per le anime, dell’amore intenso per Dio.

Esperto della povertà, come sapete, perché nato da famiglia poverissima; aiutato egli stesso dalla carità nel periodo dei suoi studi, amò soprattutto i giovani poveri, gli orfani, gli abbandonati. La sua esperienza gli aveva offerto una particolare sensibilità e capacità nell’avvicinare i giovani lontani dalla fede, sprovvisti di aiuti, bisognosi soprattutto di calore familiare.

Fu proprio la singolare e vasta esperienza della povertà che suscitò in lui la fiducia illimitata nella Provvidenza di Dio. Egli chiamò sempre “opera del Signore” le sue iniziative e le sue fondazioni. È noto che fin da giovane egli era stato fortemente impressionato dalle parole del Vangelo: “Non vi angustiate per il cibo e il vestito: il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33). Con questo animo egli chiamò la sua famiglia religiosa “Poveri Servi della Divina Provvidenza” affidando ai suoi figli spirituali il compito di andare là “dove non c’è niente di umano da ripromettersi”.

Questo progetto di carità, umanamente paradossale, così audace, così fiducioso, così singolare, non può non colpire e indurre a rendere grazie a Dio, che ha suscitato in mezzo a noi un tale testimone di fiducia senza riserve nella parola del Vangelo.

Ma di don Calabria occorre ancora ricordare l’amore per la Chiesa. Il gemito degli ultimi anni della sua vita, come è noto, era quasi un riflesso dell’angoscia del Crocifisso per le anime. Egli riferiva come voce del Signore quel sospiro tanto insistente: “La mia Chiesa, la mia Chiesa”. Da questo amore sofferto per la Sposa di Cristo nacque in don Calabria la dedizione ai sacerdoti ed ai religiosi. Voi ricordate ancora i suoi appassionati, sofferti, arditi appelli alle autorità ecclesiastiche, ai sacerdoti, ai religiosi, ai sacerdoti in difficoltà, per chiedere a tutti un radicale rinnovamento di vita, un ritorno vigoroso alla “apostolica vivendi forma”. Tale messaggio al clero ed alle persone consacrate non deve essere dimenticato. La vostra Chiesa ha il compito e l’eredità di mantenerlo vivo e di testimoniarlo con generosità e vigore nel nostro tempo.

L’amore alla Chiesa suscitò in don Calabria anche l’impegno per l’unità dei cristiani.

Egli pregò per questo scopo, ebbe contatti di amicizia con membri di altre Chiese e comunità ecclesiali, offerse l’abbazia di Maguzzano come sede della sezione italiana della “Catholica Unio”. Dalle sue lettere risulta chiaramente la sua intuizione che la piena comunione dei cristiani passa per una via importante, quella che cerca di coinvolgere l’intero Popolo di Dio nel desiderio e nella ricerca dell’unità desiderata da Cristo.

7. Ecco, fratelli e sorelle carissimi, due esempi che il Signore ha suscitato in mezzo a voi, due testimoni della vostra fede, due modelli per l’impegno che vi riguarda nel tempo presente.

Essi continuano a parlare a noi oggi della santità della famiglia cristiana, della carità verso i giovani, della comprensione per le loro miserie, al fine di sanarle e di redimerle.

Essi esortano alla santificazione le anime consacrate a Dio nel ministero e nella vita religiosa; ed incitano ad un affetto premuroso per la Chiesa di Cristo, per le sue sofferenze ed i suoi problemi, per la Chiesa che Gesù chiama “sua” con ineffabile amore.

Queste voci, rese autorevoli dalla santità, suggeriscono alla Chiesa veronese di oggi un programma impegnativo di vita, un progetto di lavoro pastorale urgente e vigoroso per tutti. Occorre salvare la famiglia, salvarla dalla disunione, dalla meschinità dell’edonismo, dalla tentazione di fuga dalle leggi morali che la riguardano o dalle esigenze dell’amore vero e santificante. Occorre salvare i giovani dal degrado di una vita priva di ideali. Occorre essere, come gli apostoli, testimoni di Cristo, consci della sua presenza in mezzo a noi, affinché dall’amore di Cristo nasca per tutti la forza dell’impegno severo, e nello stesso tempo liberante, che solo può condurre a un domani migliore.

8. Ecco, in questo giorno solenne entrambi i beati ascoltano insieme con noi la voce della Chiesa, che si esprime con le parole del salmista:
 “Sappiate che il Signore fa prodigi per il suo fedele” (Sal 4, 4).

Veramente. Il Signore fa così.

I vostri beati lo confermano. Confermano anche la verità delle parole della prima lettera di san Giovanni apostolo: “Chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto” (1 Gv 2, 5).

Quindi noi tutti ringraziamo il Risorto per la testimonianza dell’amore perfetto di Dio e del prossimo, che si è fatta vedere nella vita dei nuovi beati, Giuseppe e Giovanni.

Ardono i nostri cuori . . . quando il Signore parla a noi col vivo esempio di fratelli e concittadini.

Ardono . . . ritrovano coraggio, riacquistano la fede nel bene e nella verità. Diventiamo così come i primi discepoli di Cristo nel cenacolo; Cristo appare in mezzo a noi, oggi, e dice: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? . . . Sono proprio io” (Lc 24, 38-39).

Sì! Lui è in mezzo a noi: “Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre!” (Eb 13, 8). Resta con noi! Trasformaci! Sii la nostra vita.

“Sono proprio io”.

Amen.

 

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