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DISCORSO DI GIOVANI PAOLO II
AI VESCOVI PORTOGHESI
DELLE PROVINCE ECCLESIASTICHE DI EVORA E DI LISBONA
IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM»

Venerdì, 11 febbraio 1983

 

Amati fratelli in Cristo,

1. È con grande gioia che, in questo incontro, grazie alla vostra gradita presenza, ritorno in spirito al Portogallo. Salutandovi cordialmente, desiderando che grazia e pace vi siano date in abbondanza, in questo momento forte della vostra visita “ad limina Apostolorum”, senza soffermarmi a mettere in rilievo il suo significato - del resto già sottolineato dal signor Cardinale Patriarca di Lisbona - ringrazio Dio per questa occasione privilegiata di affermazione e vita in comune di quella Collegialità effettiva ed affettiva che in quest’ora continua la tradizione che viene dalla “disciplina primitiva della Chiesa, secondo la quale i Vescovi del mondo intero comunicavano tra loro e con il Vescovo di Roma, nel vincolo dell’unità, della carità e della pace” (Lumen Gentium, 22).

Vi dicevo in nome del Signore, venerabili e amati fratelli Vescovi del centro e del sud del Portogallo e degli arcipelaghi di Madeira e delle Azzorre, che integrate le province ecclesiastiche di Lisbona ed Evora. Con la maggior stima per ciascuno di voi e ciascuna delle vostre comunità diocesane, che qui rendete presenti, desidererei, se il tempo me lo permettesse, fare in qualche modo dei riferimenti individuali, allo scopo di evidenziare e di stimolare il vostro generoso lavoro pastorale e manifestare, con l’affetto in Cristo verso le persone, il mio apprezzamento per il patrimonio culturale e cristiano che è affidato alla vostra sollecitudine.

Non potendo farlo, obbedisco appena all’impulso di un vivo sentimento di gratitudine, ricordando le nostalgiche giornate di Lisbona, Fatima e Vila Viçosa, della mia recente visita pastorale alla vostra terra e della mia peregrinazione mariana: ancora una volta, tante grazie!

E mi sia permesso rivivere particolarmente i momenti del Cenacolo - “con Maria, Madre di Gesù” - a Fatima: con voi e con la moltitudine dei pellegrini, insieme con tutta la Chiesa, Corpo mistico di Cristo, volli là “unirmi con il nostro Redentore, nella sua consacrazione in favore del mondo e per tutti gli uomini”: e invocare Nostra Signora come Madre della Chiesa, degli uomini e dei popoli, per aiutarci a vivere, con tutta la verità, la consacrazione a Cristo per l’intera famiglia umana (cf. Giovanni Paolo II, Homilia in area Templi Sanctuarii Fatimensis habita, 13 maggio 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 [1982] 1567 ss.; Eiusdem Actus consecrationis totius mundi ad Beatam Mariam Virginem, 13 maggio 1982: loc. cit., pp. 1586 ss.).

2. A questa evocazione - che in me continua ad essere preghiera fiduciosa - faccio riferimento per queste mie parole fraterne, nel continuare i colloqui personali che abbiamo avuto e l’incontro di giorni fa, con i fratelli Vescovi che vi hanno preceduto nella visita “ad limina Apostolorum”. Per rispondere agli interrogativi del nostro tempo, marcato dal fenomeno, non privo di pericoli, della socializzazione (cf. Gaudium et Spes, 6 et 25), sottolineavo allora la necessità di unire gli sforzi, soprattutto in quello spazio privilegiato che è la Conferenza episcopale; e lasciando le concretizzazioni alla vostra sapiente esperienza, mettevo in rilievo in particolare due piste di riflessione e ricerca: l’evangelizzazione e il compito prioritario di un’intensiva pastorale vocazionale.

Sono certo che l’arte e lo zelo di cui avete dato prova e le buone disposizioni di cui si è appena fatto interprete il signor Cardinale-Patriarca, devono saper discernere gli orientamenti necessari per un cammino in unità e senza imbarazzo, per rispondere a tali sfide.

Oggi, unendomi maggiormente alla responsabilità personale di ogni Vescovo, di valersi sempre dell’appoggio, degli orientamenti e dello stimolo della Conferenza che egli integra, voglio presentarvi alcune considerazioni a proposito della necessità di “vivere, con tutta la verità, la consacrazione a Cristo per l’intera famiglia umana”; questa è la nostra vocazione di Vescovi, che come tutti sappiamo, è: servire, nella Chiesa, nella fedeltà all’uomo visto nel mistero della Redenzione, in modo che “tutti ci considerino come ministri di Cristo” (1 Cor 4, 1).

3. La responsabilità personale di ogni Vescovo non è assorbita, sostituita o soppressa dalla Conferenza episcopale; né questa pretende di diminuirla o restringerla, ma solo servirla. E ogni Vescovo, davanti alla sua Chiesa particolare, che egli ha la triplice missione di santificare, ammaestrare e governare, si identifica con Cristo, nell’unione con tutto il Collegio episcopale e nella comunione con il successore di Pietro, in cui il Signore ha istituito il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione.

Sempre al servizio del Corpo di Cristo “intero, coordinato e unito per mezzo di tutte le sue giunture . . . perché si edifichi la carità” (Ef 4, 16), “il Vescovo deve essere considerato come il Sommo Sacerdote del suo gregge, da cui deriva e dipende, in qualche modo, la vita dei suoi fedeli in Cristo” (Christus Dominus, 41).

E con questo inquadramento dottrinale, sarebbe il caso di descrivere l’immagine che voi, amati fratelli Vescovi portoghesi, presentate alla Chiesa e al mondo: un’immagine di semplicità e di povertà di vita, di coraggio nel compimento del dovere, di zelo e di dedizione per il maggior bene delle anime, di fedeltà alla Sede Apostolica e di amore al Papa. È una tradizione che voi onorate e che vi onora, note come sono le vicissitudini storiche vissute dalla Chiesa della vostra patria, specialmente da due secoli a questa parte.

Situati nel presente, nella cordiale semplicità di questo incontro di fratelli, so che vi fate portavoce delle angustie e delle speranze, delle tristezze e delle gioie della gente della vostra terra, nel vivere un momento di transizione della sua storia; e vi vedo in ore in cui forse nei vostri animi palpita una domanda: “Che dobbiamo fare?”.

4. Era già grande, ma aumentò dopo la mia visita pastorale, la simpatia che nutro per il caro popolo portoghese: un popolo buono, segnato dalla propria storia e in fase di ricerca, coraggioso, resistente e persistente nell’affrontare le avversità; sensibile e capace di identificarsi con gli altri, soprattutto nella prova; entusiasta nei confronti dei grandi ideali - si pensi ai suoi missionari -, ospitale e rispettoso, fino ad una certa timidezza simpatica nel rapporto con gli altri; e soprattutto, di profonda religiosità, che si esprime in confidenza nella Provvidenza, speranza e timor di Dio che, nonostante le deviazioni o le malformazioni, nel fondo sono ricchezza di vita e cultura, in cui ha lanciato radici profonde la “buona semente” del messaggio del Vangelo di Cristo, che non ha mancato di sbocciare in frutti di grazia e santità, nel corso dei secoli.

5. Davanti alle nuove situazioni mondiali, descritte nelle pagine luminose della costituzione Gaudium et Spes e alle situazioni locali, forse in via di definizione o per lo meno di riaggiustamento, voglio dirvi, amati fratelli: conservate la fedeltà all’uomo, con il quale Cristo Redentore si è unito, con il quale egli desidera incontrarsi; la fedeltà all’uomo concreto della vostra terra, anch’egli il “cammino che la Chiesa sceglie sempre”, come ebbi opportunità di dire nella mia prima enciclica (cf. Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 14).

E sappiamo dove incontrare i punti di appoggio di una tale fedeltà: “Presiedendo al posto di Dio al gregge di cui siamo pastori” (cf. Lumen Gentium, 20), per mantenere credibilità, il nostro essere fedeli all’uomo passa per la fedeltà a Dio, in modo che “tutti ci considerino come ministri di Cristo” (1 Cor 4, 1).

Questo, ovviamente, a cominciare dal centro della stessa Chiesa: dai nostri presbiteri, dove dobbiamo essere e essere visti come “padri e fratelli” dei nostri sacerdoti; dai nostri seminari, compresi i seminari minori, dove dobbiamo essere “di casa”; nell’ambito delle comunità religiose che vivono e operano nelle nostre circoscrizioni, dove dobbiamo essere e apparire come “fratelli”, senza svalutazione delle proprie attribuzioni; tra le file dei laici, dove deve essere considerata la nostra presenza di “padri nella fede” e prontamente accettata l’autorità come “servizio” di guida, orientamento e appoggio stimolante. Infine, mandati dal Padre di famiglia, abbiamo sempre davanti agli occhi l’esempio del Buon Pastore, che venne per servire e non per essere servito (cf. Gaudium et Spes, 27).

Inoltre, anche nell’ambito ecclesiale, in dialogo nel mondo attuale con l’uomo che è nostro diocesano, nostro concittadino e nostro fratello, almeno nell’umanità, che tutti ugualmente ci considerino come ministri di Cristo, uniti in modo convinto e profondo alla sua consacrazione per il mondo e per gli uomini. Si riveste di una dimensione sociale il nostro essere Pastori, come promotori dei valori umani e collaboratori nel bene comune, attenendosi ai requisiti imposti dalla nostra identità.

6. Non è il momento ora di sviluppare la questione dei programmi sociali della Chiesa. Per noi, uomini di Chiesa, è sempre motivo di gioia contare su programmi umani, intendendo l’uomo nella pienezza della sua verità e dignità; altrimenti, ci si impone di fare quello che è alla nostra portata perché essi lo siano sempre più; questo, senza timore e senza abdicazioni perché sempre motivati dall’“amore che caccia il timore . . .”, ma non è disgiunto dal precetto: “Chi ama Dio, ami anche il fratello” (1 Gv 4, 18-21). E le manifestazioni di amore - spiega l’apostolo Giacomo - sono imperativo della fede nel nostro Signore Gesù Cristo, che si confà con l’accettazione di persone, si traduce in opere e non si concilia con le cattive passioni: “Sarà giudicato senza misericordia, chi non avrà usato misericordia” (Gc 2, 13).

Alla luce di questa presentazione della fede, si scoprono facilmente tre linee per orientare una pastorale che si sviluppi sulla situazione sociale di quelli che si desidera portare a incontrare Cristo, Redentore dell’uomo: verità, presenza attiva, partecipazione e misericordia.

Senza dubbio l’obiettivo primario della pastorale rimane sempre l’evangelizzazione. Ma evangelizzare mira anche a “rinnovare tutta la vita della società, a partire dal di dentro . . . E modificare con la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori reali, i centri di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita degli uomini” (cf. Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 18 et 20).

Quando in una società si avverte malessere, sorgono spontanei interrogativi radicali sulla sua riorganizzazione, per poter opportunamente incontrare e attuare le misure che eliminano tale malessere, tante volte generato da carenze di base nell’alimentazione, nella salute, nell’educazione, nell’abitazione e nell’impiego. E questi interrogativi incidono, come norma, nella politica economica, sociale, agricola, salariale, creditizia, tributaria, ecc. Le misure di emergenza, di carità, di beneficenza e di assistenza, devono essere lanciate, favorite e sviluppate; sono sempre benemerite. Ma risolveranno esse i problemi di fondo?

7. Una trasformazione benefica per tutte le strutture della vita economica è un cammino difficile, che non si potrà attuare se non interverrà una vera conversione delle menti, delle volontà e dei cuori, che possa ovviare agli assalti degli istinti, che esistono nel fondo di ogni uomo e si manifestano nelle “cattive passioni”, soprattutto quella di avere, di potere e di piacere, che non di rado portano a confondere la libertà con interessi individuali o di parte (cf. Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 16).

Nessuno possiede, in campo economico-sociale, la soluzione esclusiva. Noi concorriamo, assieme a tutti gli uomini di buona volontà, per la ricerca di quelle che si presentano come più idonee. Abbiamo, tuttavia, il privilegio di verità e certezze della fede - su Gesù Cristo, la Chiesa e l’uomo - che vogliamo vivere e testimoniare, come proposta, invito fraterno e anche come interpellanza sollecita per il maggior bene del nostro simile. Tutto l’uomo, di fatto, creato a immagine di Dio nella Redenzione di Cristo, ci costringe a “dare gratuitamente quello che gratuitamente abbiamo ricevuto” (cf. Mt 10, 8).

Forti e sicuri nella Verità, coltivata nell’intimità con Colui che si è definito la “Verità” (cf. Gv 14, 6), si impone una presenza attiva e una partecipazione dei figli della Chiesa, con la loro coscienza di cristiani, in quella zona di conflitto tra la verità e l’errore, tra una concezione della vita che salvaguarda la trascendenza della persona umana, e concezioni più o meno immanentiste e materialiste dell’uomo, in cui le armi palesi sono i mezzi di informazione e comunicazione sociale, specialmente la stampa e i mezzi audiovisivi. Uguale presenza e partecipazione, per la verità in favore dell’uomo con la sua dimensione trascendente si esige nei campi dell’istruzione e dell’educazione e nei centri di cultura. Davanti agli assalti del permissivismo o al semplice installarsi di un certo relativismo di comodo, sotto la cappa di una falsa libertà o all’ombra di posizioni che pretendono di fare “moda” - dal laicismo ateo al secolarismo - rimangono “sacri” alcuni valori fondamentali, che sono un bene incontestabile non solo della morale cristiana ma anche della morale semplicemente umana, della cultura morale, come il rispetto della vita umana fin dal momento del concepimento, il rispetto del matrimonio, con la sua unità indissolubile, e il rispetto per la stabilità della famiglia. In tutti questi campi, quando il lavoro dell’intelligenza e della volontà degli uomini non sono genuinamente umanisti, facilmente diventano una minaccia per l’uomo, lasciandolo solo con interrogativi, che non favoriscono la serenità e la gioia di vivere.

Qui, non vorrei lasciare senza una parola di apprezzamento lo sforzo che state facendo, concretizzato particolarmente nella vostra radio e nella vostra università cattolica, per le quali va un cenno di simpatia, di appoggio e di stimolo, per far sempre più e sempre meglio, con l’aiuto di Dio.

8. Al pari della vita, del culto e della difesa della verità, in una presenza attiva e in una partecipazione alla vita della società, la Chiesa, per ciascuno dei suoi figli deve, oggi più che mai, mettere in pratica la misericordia, intesa come “uno stile di vita e una caratteristica essenziale e continua della vocazione”, in attuazione di quel “processo autenticamente evangelico, che consiste nella pratica perseverante dell’amore, nonostante tutte le difficoltà di natura psicologica e sociale” (cf. Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia, 14).

Non c’è tempo, né sarebbe il caso, di ricordare quanto esposi nell’enciclica Dives in Misericordia (cf. Ivi) circa “questo elemento indispensabile per dar forma alle reciproche relazioni fra gli uomini, in uno spirito del più profondo rispetto per tutto ciò che è umano e per la fraternità reciproca”. Oltre che vissuta e testimoniata, la misericordia deve costituire oggetto di ardente e costante preghiera.

Sì, la preghiera! Questa parola ci porta nuovamente a Fatima: “il mondo e l’uomo furono consacrati con il potere della Redenzione; furono affidati a Colui che è infinitamente santo; furono offerti e consegnati all’Amore stesso, all’Amore misericordioso . . . E quanto ci fa soffrire tutto quello che nella Chiesa e in ciascuno di noi si oppone alla santità e alla consacrazione! Quanto ci fa soffrire che l’invito alla penitenza, alla conversione e alla preghiera non abbia avuto quell’accoglienza che doveva! Quanto ci fa soffrire che molti partecipino così freddamente all’opera della Redenzione di Cristo!” (cf. Eiusdem, Actus consecrationis totius mundi ad Beatam Mariam Virginem, 13 maggio 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 [1982] 1586ss.).

Ma abbiamo fiducia e continuiamo ad invocare Maria. È quello che faccio in questo momento, qui con voi, per concludere queste fraterne parole, con lo scopo prevalente di “confermarvi” come fratelli molto amati; e lo faccio pensando alle vostre terre, alle vostre greggi diocesane e in appello a tutti gli amati fedeli del Portogallo, perché rispondano alla chiamata della Signora del Messaggio, con particolare impegno nell’imminente Anno Santo della Redenzione.

“Cuore Immacolato di Maria, aiutaci a vincere la minaccia del male, che così facilmente si radica nei cuori degli uomini di oggi, e che, con i suoi effetti incommensurabili, pesa già sulla nostra epoca e sembra chiudere i cammini del futuro! . . . Che si riveli una volta ancora . . . la forza infinita dell’Amore misericordioso! . . . Che si manifesti per tutti, nel tuo Cuore Immacolato, la luce della Speranza!” (cf. Giovanni Paolo II, Actus consecrationis totius mundi ad Beatam Mariam Virginem, 2.3. 13 maggio 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 [1982] 1587ss.).

E con il cuore in preghiera, con tutto l’affetto in Cristo, per mezzo vostro impartisco a tutti i fedeli affidati alla vostra sollecitudine di “ministri di Cristo” la benedizione apostolica.

 

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