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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARROCI E AL CLERO DI ROMA

Giovedì, 17 febbraio 1983

 

1. Pur avendo a disposizione un testo già preparato, non vorrei utilizzarlo, ma “reagire” brevemente alle voci che abbiamo sentito e ai temi che sono stati posti dinanzi a noi.

Parliamo innanzitutto della famiglia. Io porto ancora nei miei occhi e nelle mie orecchie il Sinodo dei Vescovi del 1980, una grande esperienza pastorale nella dimensione della Chiesa universale. Paolo VI disse una volta che per lui partecipare a queste riunioni plenarie del Sinodo contava più di molte letture e di altri atti del pontificato, perché poteva conoscere la Chiesa così come essa vive, la Chiesa nella sua esperienza vissuta. Qui noi abbiamo oggi una circostanza e una opportunità simile: la Chiesa romana, come un’esperienza vissuta, si svela e si dimostra tramite voi, le vostre voci e i vostri interventi. Una grande ricchezza: molte constatazioni, molte domande, molti incoraggiamenti, molte esperienze particolari, molti suggerimenti.

Tutto questo si doveva notare per avere il senso pieno e completo della ricchezza di questo incontro e io devo dire che preferisco questo modo di incontrare il clero di Roma: ascoltandolo. Naturalmente il dovere del Vescovo è anche quello di parlare al clero così come ai fedeli, a tutta la Chiesa. Ma ascoltare vuol dire anche parlare, sia pure in un altro senso, perché nella Chiesa vi è la comunione e la prima realtà della comunione è l’ascolto, come punto di partenza delle proprie parole.

Vi ringrazio per tutte queste osservazioni, domande, suggerimenti. Molti di questi, è vero, sono andati fuori dei due temi previsti, ma tutti appartengono a questa realtà alla quale io sono tanto profondamente legato, cioè alla Chiesa di Roma.

2. Tornando ancora al Sinodo del 1980, voglio riferirmi al documento che scaturì da quel Sinodo, la Familiaris Consortio. Si deve dire che il problema della famiglia nell’ultimo Sinodo non fu soltanto discusso, studiato, affrontato; esso fu anche in un certo senso sofferto. Questo perché c’è una realtà umana, la famiglia, che da una parte ci affascina con la sua bellezza e con la sua grandezza se si guarda all’ideale, al disegno divino della famiglia che noi dobbiamo predicare e proporre al nostri fratelli e alle nostre sorelle. Dall’altra parte, tale realtà, la famiglia, ci fa soffrire quando si guarda alle diverse esperienze umane, alle varie difficoltà e ai molteplici conflitti. Non vorrei soffermarmi troppo su questo punto, ma vorrei dire solamente che il documento, la Familiaris Consortio, che è uscito da quel Sinodo, costituisce veramente l’“abc” della pastorale della famiglia, e deve essere assiduamente letto e studiato. Si deve fare una lettura di questo documento. Penso infatti che una efficace pastorale della famiglia, in ogni diocesi, e poi in ogni parrocchia, consista nella sempre più approfondita lettura della Familiaris Consortio. Lettura non soltanto nel senso meccanico e intellettuale della parola, ma lettura pastorale, lettura tramite un certo compito, il compito pastorale.

Questo compito pastorale è affidato alla Chiesa, è affidato a noi. Per la famiglia, questo compito è affidato a lei stessa, ma con il nostro aiuto: noi dobbiamo aiutare la famiglia ad essere evangelizzatrice di se stessa, apostola di se stessa, catechista di se stessa, guida di se stessa. Il programma fondamentale della pastorale della famiglia è questo: aiutare la famiglia ad essere lei stessa a svolgere quei compiti, a scoprire la sua identità umana e cristiana, a scoprire la sua vocazione. Tutto questo si trova nella Familiaris Consortio e noi dobbiamo sempre guardare - ai diversi livelli della Chiesa di Roma, a cominciare dal centri del Vicariato per passare poi alle prefetture, alle parrocchie e alle altre comunità responsabili - noi dobbiamo sempre guardare e seguire la dottrina della Familiaris Consortio nella sua integrità: tutti i problemi, tutti i principi morali che vi si trovano, tutta la dottrina dogmatica ed etica che è espressa in questo documento. E poi dobbiamo cercare le strade e i modi per affrontare questi problemi: come affrontarli noi e che cosa fare per rendere la famiglia soggetto attivo di questo apostolato, di questa missione, di questa pastorale.

Certamente - e questa è una idea della Familiaris Consortio - l’apostolato della famiglia si fa tramite la famiglia; famiglia per famiglia, ogni famiglia per se stessa e ciascuna per le altre. Il nostro compito è di suscitare tutto questo, evocare questo, assecondare questo. In questo senso noi possiamo salutare i genitori, gli sposi, le comunità familiari a vivere profondamente questo magnifico disegno di Dio sulla famiglia.

3. Sul tema dell’Anno Santo della Redenzione ho ascoltato con grande interesse i diversi interventi. Ho visto che ci sono molte esperienze, molte idee, molti suggerimenti su come vivere l’Anno Santo a Roma. C’è tutta una potenzialità pastorale, una creatività pastorale, che si dimostra tramite le vostre voci e devo dire che ho ascoltato tutti gli interventi con grandissimo interesse; ho imparato molto perché tra i componenti di questa assemblea vi sono persone che hanno vissuto l’Anno Santo del 1933 e anche l’Anno Santo del 1925. Ma noi dobbiamo vivere l’Anno Santo 1983, con l’esperienza del nostro tempo, approfittando delle esperienze passate.

Non vorrei entrare nei particolari - perché per la diocesi di Roma c’è un comitato che si occupa di questi problemi e spero che esso proporrà un programma adeguato -, ma vorrei dire che l’Anno Santo della Redenzione, così come è programmato nei documenti di partenza e particolarmente nella Bolla d’indizione, è visto soprattutto come una realtà ordinaria vissuta in modo straordinario, per la circostanza del “kairós”, per la circostanza dell’anno. Penso che il principio deve essere questo: l’Anno Santo deve essere vissuto dal basso, non dall’alto. Non si deve partire dalle grandi celebrazioni papali: sì, il Papa serve tutti. Ma l’Anno Santo deve essere vissuto cominciando dalla parrocchia. Questo si è cercato di sottolinearlo nei documenti, nella Bolla, nelle allocuzioni, e io intendo sottolinearlo anche nella lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo. Si deve partire dalla base della parrocchia: la parrocchia deve vivere l’Anno Santo in se stessa, anche se, naturalmente, in relazione con la diocesi, in relazione con la Chiesa di Roma, ma partendo da se stessa, dalla sua propria sostanza.

Non è un progetto straordinario o progetto di una cosa che rimane supplementare; al contrario, deve essere inquadrato nella vita della parrocchia, deve emergere dalla vita della parrocchia e manifestarsi nella sua vita ordinaria. Così io vedo l’Anno Santo in Roma, celebrato nelle 310 parrocchie, come Anno Santo delle parrocchie. Qui a Roma, naturalmente, abbiamo speciali punti di riferimento: le basiliche, San Pietro, il Papa, la Porta Santa; tutte le ricchezze e tesori che ci provengono dal passato e che appartengono alla realtà dell’Anno Santo. Queste ricchezze avranno la loro propria vita nella Chiesa di Roma, nella diocesi di Roma, se ci saranno tanti Anni Santi, tanti Giubilei, quante sono le parrocchie. Poi tutte queste parrocchie confluiranno in quei punti di riferimento e così potremo dire che la nostra diocesi, Roma, ha vissuto l’Anno Santo e così vedo l’Anno Santo vissuto in ogni diocesi del mondo.

Se in questo momento io non fossi Vescovo di Roma e fossi Vescovo di Cracovia, cercherei di organizzare così, di realizzare così: passando per le parrocchie. Tante parrocchie, tante celebrazioni o tante esperienze vissute dell’Anno giubilare della Redenzione.

4. Voglio ringraziarvi per l’opportunità che mi avete offerta oggi di incontrarmi con la vostra comunità, con il presbiterio di Roma. Devo sottolineare che per me è molto prezioso ogni incontro con la mia Chiesa, la Chiesa di Roma, con ogni parrocchia di Roma; è preziosa ogni visita pastorale che cerco di compiere quando è possibile, come preziosi sono tutti gli altri incontri e le altre esperienze fatte con i fedeli, con i sacerdoti, con i religiosi e le religiose della diocesi di Roma.

Roma è una diocesi molto ricca e quando la diocesi è ricca, il Vescovo deve essere molto povero per poter affrontare questa ricchezza. Penso che tra tutti i Vescovi del mondo, il più povero deve essere il Papa, perché la sua diocesi è così ricca.

 

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