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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AD UN GRUPPO DI MALATI DELLA DIOCESI DI VERCELLI

Aula Paolo VI - Sabato, 25 febbraio 1984

 

Carissimi fratelli e sorelle, pellegrini dell’Oftal.

1. È con gioia e affetto profondi che io vi rivolgo il mio caldo saluto e vi do il più vivo benvenuto in questa circostanza dell’Anno Giubilare della Redenzione: un avvenimento ecclesiale che ha una risonanza tutta particolare con la situazione di coloro che, come voi, sono provati dalla sofferenza. E tanto più commovente per me è la vostra presenza, cari malati, se penso agli inevitabili disagi e sacrifici che avete dovuto affrontare per giungere fin qui, pur con tutte le cure amorevoli che vi sono state certamente dedicate.

Saluto con voi, cari fratelli sofferenti, tutte le altre persone che vi accompagnano e vi assistono: barellieri, dame, medici e sacerdoti dell’Opera federativa. Un grazie grande a tutti per questa testimonianza d’amore reciproco che vi lega e fa di voi una vera famiglia spirituale.

Siete giunti presso la tomba di Pietro per l’acquisto del dono dell’indulgenza. Con tale gesto, voi date al mondo una preziosa testimonianza di fede: non vi accontentate di offrire al Signore le vostre pene quotidiane, ma desiderate anche chiedere a Dio la sua misericordia attraverso la grazia e il condono del Giubileo.

2. La vostra presenza mi fa comprendere meglio le verità che ho esposto nella mia recente Lettera apostolica «Salvifici Doloris», e in particolare un tema che ho sviluppato e approfondito nel corso di questo documento: il legame della sofferenza con l’amore, secondo il piano della salvezza voluto dal Padre celeste. La sofferenza, di per sé ripugnante alla natura, è assunta dal cristiano con un atto d’amore che imita quello stesso col quale il Padre “ha dato” il Figlio per la salvezza del mondo (cf. Gv 3,16) e col quale il Figlio ha corrisposto, obbedendo, alla volontà del Padre (cf. Mt 26, 42).

In tal modo, come ho detto nella mia Lettera, la sofferenza “è stata legata all’amore” e l’amore è anzi “la fonte più ricca del senso della sofferenza”, cosicché “nel programma messianico di Cristo, che è insieme il programma del regno di Dio, la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore” (Ioannis Pauli PP. II, Salvifici Doloris, 18.13.30).

Questo amore si fonda su quello stesso di Gesù per il Padre e per l’umanità: è quell’amore sacrificale per il quale il Figlio di Dio, com’è scritto nel Libro di Isaia, volle offrire se stesso in espiazione per i nostri peccati (cf. Is 53, 10).

Al fine di imitare quest’amore, e grazie ad esso poter proseguire il vostro cammino di salvezza, voglio esortarvi anch’io, cari fratelli, con san Paolo, “per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12, 1).

3. Tale assunzione cosciente e libera della sofferenza in vista di unirsi alla passione redentrice di Cristo, ha, come risultato, di portare l’uomo alla sua maturità spirituale. Si tratta di quello “stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo”, di cui parla san Paolo (Ef 4, 13). Si tratta di quella “perfezione”, della quale parla ancora l’apostolo, legata alla vera sapienza, quella che non si vanta di saper altro che Cristo crocifisso (cf. 1 Cor 2, 2), “il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore” (1 Cor 1, 30-31).

E la maniera migliore per verificare e per approfondire questo valore redentivo della sofferenza non è tanto un approccio dal di fuori, uno studio astratto, ma è l’esperienza dello stesso soffrire: la sofferenza stessa ci illumina sul senso della sofferenza: “Man mano che l’uomo prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla croce di Cristo, si rivela davanti a lui il senso salvifico della sofferenza” (Ioannis Pauli PP. II, Salvifici Doloris, 26).

E per mezzo di questa sequela di Cristo sofferente, la sua vita diventa sempre più alimento della nostra, sicché con san Paolo possiamo dire: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20), e semina nella nostra carne mortale il germe della vita futura e della gloria celeste.

Fratelli carissimi, lasciamoci tutti penetrare dalla vita di Cristo e giungeremo anche noi a quella gloria dove egli, con la Vergine santissima e tutti i santi, ci attende.

Con la mia affettuosa benedizione.



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