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VISITA PASTORALE IN SARDEGNA

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI DETENUTI DEL CARCERE CIRCONDARIALE «BUONCAMMINO»

Cagliari - Domenica, 20 ottobre 1985

 

Cari fratelli, ospiti di questo Istituto.

1. Vi saluto con sentimenti di sincera amicizia. Vengo a voi come fratello in Cristo e come persona che intimamente partecipa alle vostre sofferenze. Nel salutarvi, il mio pensiero va anche a tutti coloro che condividono la vostra situazione, in special modo ai detenuti del carcere di Nuoro, che non ho potuto visitare nonostante il loro invito, ma ai quali mi sento in questo momento particolarmente vicino.

Questo appuntamento non poteva mancare nella visita pastorale che sto compiendo in Sardegna. Ho desiderato incontrarmi con voi, seguendo un comando ben preciso che mi viene dalle parole del Signore: “Ero carcerato, e siete venuti a visitarmi . . . In verità vi dico, ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (cf. Mt 25, 36. 40).

Gesù ha dichiarato in questo modo di volersi identificare con voi, come con ogni uomo sofferente e con tutti coloro che, nella comunità degli uomini, subiscono privazioni e dolorose umiliazioni.

Ringrazio per le parole molto belle, che mi sono state rivolte a nome di tutti voi; ringrazio per l’accoglienza, così calorosa che mi avete riservato e soprattutto per quel grande sentimento di fiducia e di speranza, che traspare dai vostri volti e che il vostro rappresentante ha così bene interpretato.

2. Nella Sacra Scrittura si parla del carcere con una certa frequenza. Sembra anzi che tutta la storia della salvezza ne sia segnata, come se si trattasse di un’esperienza dolorosa ma necessaria per il faticoso procedere della parola di Dio tra gli uomini. Sono stati incarcerati i profeti e gli apostoli. La Chiesa delle origini ha provato questa esperienza in modo particolare nel suo Capo, Pietro. È detto, nel libro degli Atti degli Apostoli, che durante la prigionia di Pietro “una preghiera saliva incessante a Dio dalla Chiesa per lui” (At 12, 5). Anche Gesù Cristo in un certo senso fu in carcere, prima di essere condotto al supplizio della Croce.

Ciascuno di voi, nella sua tristezza, potrà dire perciò: anche Gesù Cristo, innocente e giusto, ha provato questa pena, questa angoscia, questo dolore che al presente mi fa soffrire. Gesù lo ha provato, Egli che annunciò la sua missione dicendo di essere venuto “per proclamare ai prigionieri la liberazione . . . per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore” (cf. Lc 4, 18-19). È essenziale per tutti noi tenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù. Qualunque sia il nostro passato egli ci ama e offre a tutti la possibilità di redimersi e di salvarsi.

3. Negli Atti degli Apostoli c’è un episodio molto significativo, che vorrei qui ricordare perché ricco di spunti per la nostra riflessione. È detto dunque che Paolo e Sila, accusati di aver portato il disordine nella città di Tiatira, furono gettati in prigione. Il carceriere, avuto l’ordine di fare loro buona guardia, li mise nella cella più interna del carcere e strinse loro i piedi nei ceppi. “Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano a Dio, mentre i carcerieri stavano ad ascoltarli. D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito tutte le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti. Il carceriere si svegliò e vedendo aperte le porte della prigione, tirò fuori la spada per uccidersi, pensando che i prigionieri fossero fuggiti. Ma Paolo gridò forte: non farti del male, siamo tutti qui” (At 16, 25-28).

Il racconto degli Atti prosegue descrivendo la conversione del carceriere, il suo battesimo, il suo primo atto di fraterna carità e la gioiosa festa che ne segui: “A quella medesima ora della notte ne lavò le piaghe e subito si fece battezzare con tutti i suoi; poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio” (At 16, 33-34).

Nella cella più interna . . . strinse i loro piedi nei ceppi”. Immagine, questa, ben espressiva della profonda tristezza di chi è carcerato: la solitudine, l’angosciosa paura per il giudizio degli uomini e per quanto ad esso potrà seguire, la logorante attesa di un processo, che non di rado è dilazionato troppo nel tempo, altrettanti stati d’animo che possono vedersi plasticamente raffigurati in quel trovarsi con i piedi “stretti nei ceppi”.

Voi sapete che l’uomo non dispone sempre di mezzi sicuri per far luce sulle vicende umane; l’esperienza vi dice quanto sia difficile conoscere nella sua profondità la vostra storia e apprezzare il vostro sentimento più vero, il desiderio cioè di superare la situazione pensosa nella quale vi siete venuti a trovare.

Io vi incoraggio in questo proposito e vi invito a sperare confidando in una provvidenza divina che è generosa oltre che equanime, vicina al vostro cuore oltre che giusta. Vi esorto a rivolgervi a Dio con animo aperto. Non lasciate che l’animo vostro, nel momento della più dura prova, ceda alla tentazione del dubbio circa l’amore di Dio, circa la sua vicinanza e la sua possibilità di aiuto. E se talvolta vi fossero passate per la mente parole come queste, che pur sono scritte nella Bibbia: “La mia sorte è nascosta al Signore, e il mio diritto è trascurato dal mio Dio?” (Is 40, 27), sappiate che il Signore non le lascia senza risposta, e vi rassicura: “Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio” (Is 41, 10).

4. “Non farti del male, siamo tutti qui”. Le parole che Paolo grida al suo carceriere sono un’espressione di fraterna carità cristiana. Voi sentite che qui c’è un invito a volervi bene anche nelle circostanze più difficili e amare.

La Chiesa invita tutti gli uomini a comprendere il vostro desiderio di una vita migliore, diversa, profondamente maturata grazie all’esperienza stessa del dolore. La società deve disporsi a capire che siete pronti a rientrare nel civile consorzio, per portare ancora un messaggio di pace, di civiltà, di fraternità, improntata al dialogo e all’amicizia sincera. Sull’esempio di Cristo la Chiesa proclama l’urgente necessità di carità, che permetta ad ogni uomo di uscire da tutti quei condizionamenti che lo hanno indotto a delle scelte sfortunate.

Però la Chiesa vi dice anche che dovete amarvi tra di voi, che dovete rendere la vostra vita meno dura proprio perché sapete essere amici. Voi potete ben capire quanto sia importante trovare in qualcuno una parola che sostiene, un gesto di cortesia, di rispetto, di bontà nel momento sconfortante della carcerazione. La comune sofferenza può costruire una maggiore ricchezza di fraternità e di sensibilità umana.

Non fatevi, quindi, del male, ma siate tutti insieme costruttori di un’umanità più ricca di amore.

5. “A quella medesima ora della notte ne curò le piaghe”: sono ancora parole del Libro degli Atti. La carità di Paolo ha prodotto una radicale trasformazione nell’animo del carceriere, che gli diventa amico, e si china sulle piaghe del fratello carcerato. Così facendo, egli mostra di aver compreso il valore della persona umana che gli sta accanto. Ecco un bell’esempio del rispetto dovuto all’uomo anche nel caso in cui, per qualsiasi motivo, egli possa essere ritenuto meritevole di pena. Anche se costretto a scontarla, l’uomo rimane immagine di Dio, segno della presenza divina nell’opera della creazione.

È su questa dignità dell’uomo che si può costruire un’efficace speranza.

Il cuore chiuso e indurito rende la vita più oscura e disperata; curare a vicenda le proprie piaghe è invece un impegno comunitario che moltiplica la fraternità proprio nel momento in cui se ne ha maggior bisogno.

6. “Fu pieno di gioia insieme a tutti”: con questa annotazione si conclude il brano degli Atti sul quale abbiamo riflettuto.

Il risultato dell’amore fraterno è la gioia. E anch’io vorrei che questa mia visita fosse per tutti voi un motivo di gaudio e ulteriore incentivo per i vostri giusti desideri.

Mi avete fatto un dono che ha un grande valore simbolico: una nave. Essa vuole ricordare la barca di Pietro; ma è anche la nave del buon viaggio, la scialuppa della speranza.

Vi ringrazio. Terrò con me questo vostro dono, penserò a voi e pregherò per voi affinché la vostra speranza non venga mai meno: la speranza che - come avete detto - è fiducia nell’aiuto di Dio e nella comprensione degli uomini.

Formulo l’augurio sincero e vivo che possiate raggiungere il porto dove le vostre speranze diverranno una meravigliosa realtà.

Per questo volentieri imparto a voi la Benedizione Apostolica, come avete chiesto, e desidero estenderla anche a tutte le persone che vi sono care.



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