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VISITA PASTORALE A VERONA

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AL MONDO DEL LAVORO NELL’«AGRICENTER»
DELLA FIERA DELLE MACCHINE AGRICOLE

Domenica, 17 aprile 1988

 

Illustri signori, gentili signore.

1. Non poteva mancare, nella cornice della mia visita pastorale a Verona, uno speciale incontro con i rappresentanti della vita economica di questa città e della provincia, che è a tutti ben nota per la sua operosità e per i prestigiosi traguardi raggiunti in questo campo.

Il posto stesso dove ora ci troviamo ne è eloquente testimonianza. È qui che si svolgono, tra altre manifestazioni di tale ricca operosità, le varie fiere, e anzitutto la Fiera delle macchine agricole, ben nota anche oltreoceano.

Siamo dunque, per così dire, nel vostro ambiente proprio, e ciò senza dubbio ci invita a riflettere insieme su quei grandi temi della vita umana, della cultura e della società, che sono il lavoro, l’impresa, la produzione di beni e di servizi.

2. Rivolgo a tutti il mio saluto deferente e cordiale. Ho ascoltato con grande attenzione le parole del vostro portavoce e debbo dire che sono stato colpito dalla loro schiettezza e dal loro realismo, ma anche, e più, dalla loro carica ideale.

Sì, il lavoro, sotto ogni sua forma, è una componente essenziale della vita umana; o, come ho scritto nell’enciclica Laborem Exercens, “una dimensione fondamentale dell’esistenza umana sulla terra” (Laborem Exercens, 4). Questa “dimensione fondamentale” si concretizza oggi nella realtà dell’impresa, della fabbrica, del laboratorio, dei vari uffici. È una realtà pluralistica e molto diversificata, in cui però si avvertono elementi comuni, che convergono in un grande disegno di base: la trasformazione di una materia, o di qualcosa di preesistente, per farne scaturire, mediante la collaborazione dell’intelligenza e del lavoro manuale, beni e servizi ad uso della comunità degli uomini. È uno scopo che chiama ugualmente in causa il capitale, ossia gli investimenti di diverso tipo, la tecnologia e l’impegno di ogni singolo operaio.

3. In questo quadro così complesso dell’impresa moderna e della sua funzione sociale, la prima caratteristica è certamente l’intelligenza. Ogni sua componente è ugualmente necessaria e sarebbe ozioso interrogarsi circa la preminenza dell’una o dell’altra.

Ma una simile interdipendenza esiste pure tra la società e il mondo dell’industria e dei servizi: la società ha bisogno di ciò che le attività produttive forniscono, e queste, a loro volta, hanno bisogno sia dello sbocco offerto dalla società mediante la sua capacità di acquisto, sia delle risorse che la società procura sotto forma di persone capaci di lavoro, di investimenti, di tecnologia. E siamo tutti consapevoli che tale interdipendenza non è più racchiusa entro i limiti di una società o di una nazione, ma è estesa a dimensioni continentali e intercontinentali.

Se “tutti dipendiamo da tutti” (Sollicitudo Rei Socialis, 38) in qualsiasi ambito ed ordine della vita umana, ciò risulta tanto più vero nell’ordine dell’attività produttiva e della vita economica.

Ora, questa interdipendenza così stretta e così capillare può essere subita come una coazione, ovvero accettata e assunta come un dovere morale. Quando la si interpreta in questo secondo modo - l’unico, a dire il vero, degno della vocazione umana, individuale e sociale - l’interdipendenza si trasforma, da un dato di fatto più o meno cosciente, in un valore: il valore della solidarietà.

Questo a sua volta significa, cari rappresentanti del mondo del lavoro, che le vostre attività, legate alle dimensioni terrestri della vita, hanno implicazioni morali radicali; anzi, devono essere rette da criteri morali. Il primo tra questi criteri è appunto quello della solidarietà.

4. Nell’enciclica Sollicitudo Rei Socialis, a cui il vostro portavoce ha fatto riferimento, sono più volte ritornato su questa nozione fondamentale (cf. Sollicitudo Rei Socialis, 38, 39, ecc.), sottolineando che si tratta di una “categoria morale”, di una “virtù”, non di “un sentimento di vaga compassione”. Solidarietà è la “determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune” (Sollicitudo Rei Socialis, 38). Nello stesso contesto, ho aggiunto che questo è il modo, anzi il solo modo, di vincere “con un atteggiamento diametralmente opposto”, “le cause che frenano il pieno sviluppo”: la “brama del profitto e la sete di potere” ad ogni costo (cf. Sollicitudo Rei Socialis, 38).

L’applicazione del criterio della solidarietà all’attività produttiva, ed in particolare al mondo dell’impresa, ha conseguenze di grande rilevanza per la soluzione dei problemi a cui faceva riferimento il vostro portavoce. La prima conseguenza è, come ho già accennato, di ammettere che esistono criteri morali, non soltanto economici alla base dell’attività produttiva e che ad essi ci si deve attenere per ragioni di coscienza, e non soltanto di legalità. L’altra conseguenza immediata è che i protagonisti di tale attività, nel momento di affrontare le scelte operative, devono interrogarsi e decidere alla luce di tali criteri.

Tra questi, primario è sicuramente il criterio del bene comune. La norma oggettiva infatti della solidarietà è il bene di “ogni uomo e di tutti gli uomini”, considerati nella loro dignità di immagini, anzi di figli di Dio.

È chiaro che, in questa prospettiva, il solo criterio del profitto non basta, soprattutto quando fosse eretto a criterio assoluto: “guadagnare” di più, per “possedere” di più, e non soltanto oggetti tangibili, ma partecipazioni finanziarie che consentono nuove forme di proprietà sempre più larghe e sempre più dominatrici. Non che il mirare ad un profitto sia cosa di per sé ingiusta. Un’impresa non potrebbe farne a meno. La ricerca ragionevole del profitto, del resto, è in rapporto col diritto di “iniziativa economica”, che ho difeso nell’enciclica ora citata (Sollicitudo Rei Socialis, 15). Quel che intendo dire è soltanto che, per essere “giusto”, il profitto deve essere sottoposto a criteri morali, in particolare a quelli connessi col principio di solidarietà.

5. Tale principio ha una sua precisa rilevanza anche nei rapporti all’interno dell’impresa, ove esige l’osservanza rispettosa dei diritti di tutti quelli che vi collaborano. L’impresa infatti non è soltanto uno strumento al servizio del benessere degli imprenditori ma è essa stessa un bene comune di imprenditori e lavoratori, al servizio del bene comune della società.

Chi vi collabora, a qualsiasi livello, possiede i diritti che corrispondono al suo ruolo nell’impegno comune, come pure i relativi obblighi, ed in particolare quei diritti e quei doveri che sgorgano dalla sua dignità di uomo o di donna, chiamato, anzi tenuto, a svolgere una vita veramente umana in ogni sua dimensione: affettiva, culturale, sociale, spirituale, religiosa. È questo, ancora una volta, non soltanto come conseguenza delle imposizioni legali, pur esse validissime, ma per dovere di coscienza - in quanto uomo, e in quanto cristiano.

Certamente, in questa prospettiva, i più deboli, o i più poveri, richiedono un’attenzione prioritaria, come ricorda, con tutta la tradizione cristiana, la recente enciclica (cf. Sollicitudo Rei Socialis, 42). Ci sono dei “poveri” anche nelle imprese; soprattutto ci sono i veri “poveri”, cioè le masse dei disoccupati, o di quelli che sono in cassa-integrazione. La ferrea logica del profitto porterebbe a farli dimenticare, o considerare superflui, o peggio ancora, a provocarne l’aumento. Occorre invece affermare con forza che un uomo, una donna, un giovane, non sono mai superflui, né mai si può da essi prescindere nella elaborazione di nuovi progetti.

Vorrei aggiungere ancora che gli stessi imprenditori non dovrebbero dimenticare se stessi, quando si tratta di sviluppare tutte le dimensioni di una vita veramente umana. La legge del profitto e le esigenze di un impegno imprenditoriale sempre più logorante non possono mai sostituirsi al dovere che ogni uomo e ogni donna ha di essere aperto alla famiglia, al prossimo, alla cultura, alla società, e, sopra ogni cosa, a Dio. Questa molteplice disponibilità ai valori superiori della persona umana certamente gioverà a dare allo stesso lavoro imprenditoriale il suo vero senso e la sua giusta misura.

6. Il valore della solidarietà e del bene comune deve guidare anche i rapporti tra imprese e società sia nell’ambito nazionale che in quello internazionale.

Ci sono strumenti che non dovrebbero essere prodotti, o la cui produzione e commercializzazione dovrebbe essere rigorosamente controllata. Il primo esempio sono le armi (cf. Sollicitudo Rei Socialis, 24). Ma forse non è l’unico. Neanche qui la legge del profitto può ritenersi suprema.

Si potrebbe dire, in questo senso, che un importante compito degli imprenditori cristiani, ma anche di quanti hanno a cuore il vero bene dell’uomo, sarebbe oggi di stabilire come una scala di priorità tra i beni da produrre. Non tutti i beni infatti sono ugualmente utili e necessari. Il criterio della solidarietà e del bene comune viene qui precisato e affinato allo scopo di farci capire meglio che certi prodotti toccano più da vicino l’“essere” dell’uomo, mentre altri non servono che all’“avere”, e quindi, come tali, valgono di meno dal punto di vista umano, qualunque sia il loro valore di mercato. Moltiplicarli, con una eccessiva e artificiale sostituzione di modelli sempre nuovi e subito invecchiati, è quello che chiamiamo il “consumismo” (cf. Sollicitudo Rei Socialis, 28). Un’impresa non dovrebbe mirare a creare dei bisogni superflui per poi cercare di soddisfarli con prodotti sempre più sofisticati, causa a loro volta di nuovi bisogni.

Tra i beni più vicini all’“essere” dell’uomo, spiccano senza dubbio quelli necessari al suo sostentamento, come gli alimenti. In questa città, e in questa fiera, non posso fare a meno di riferirmi alle ben note tradizioni in fatto di produzione agricola, e di tecnologie intese ad accrescerla e a migliorarla. Auspico che in questo settore possano realizzarsi ulteriori progressi al servizio dei bisogni elementari dell’uomo, in Italia, ma anche in altre parti del mondo, meno favorite e meno sviluppate. La solidarietà di cui parlavo possiede infatti questa dimensione universale, poiché le decisioni che si prendono in un Paese hanno sempre riflessi, negativi o positivi, anche negli altri.

Al dovere di solidarietà e all’obbligo di promuovere il bene comune, appartiene infine il rispetto per la natura e per le risorse naturali, su cui mi sono pure soffermato nell’enciclica Sollicitudo Rei Socialis (cf. Sollicitudo Rei Socialis, 34). L’uso che le nostre tecnologie fanno di tali risorse è anch’esso sottoposto a norme morali. Non siamo padroni assoluti di questi beni, ma amministratori, doverosamente attenti alle conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita che le vostre decisioni hanno sia sulla generazione odierna, sia sulle generazioni future, a cui dobbiamo trasmettere un mondo abitabile.

7. Cari amici, rappresentanti del mondo del lavoro di Verona, vorrei concludere queste riflessioni sulla vostra attività economica e produttiva col riferimento ad un aspetto essenziale della vocazione cristiana, che coinvolge ogni battezzato, dando senso e valore permanente anche ad ogni impegno umano, degno di questo nome.

È l’aspetto del servizio. Nostro Signore, pur essendo Dio, s’è fatto uomo tra gli uomini “non per essere servito ma per servire” (cf. Mt 20, 28; Mc 10, 45). Ha preso infatti “la condizione di servo” (Fil 2, 7). Ciò per indicare a noi tutti la strada da seguire. Ciascuno di noi, nella sua vita individuale come in quella associata, è chiamato a seguire le orme del Signore Gesù, servo di tutti per amore. E le nostre realizzazioni umane, per quanto sofisticate e complesse, tanto valgono quanto si rivelano strumenti di servizio nei confronti dei nostri fratelli e sorelle. È questo quindi il criterio ultimo del È in questa prospettiva che vi invito a vivere e a sviluppare la vostra attività di protagonisti nel mondo del lavoro a Verona.

Su di essa, come anche sulle vostre persone e sulle vostre famiglie, invoco la benedizione di Dio, al quale elevo per tutti voi la mia preghiera.  

 

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