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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AL TERMINE DELLA CELEBRAZIONE DEL
I CENTENARIO DELLA «RERUM NOVARUM»

Aula del Sinodo - Mercoledì, 15 maggio 1991

 

Eminenze,
Cari fratelli nell’episcopato,
Cari fratelli e care sorelle
,

1. In questi giorni, migliaia di pellegrini di vari continenti vengono a Roma per celebrare con sentimenti di gratitudine il centenario della pubblicazione dell’enciclica Rerum novarum. Numerose iniziative vengono prese ovunque nel mondo per celebrare questa data storica. La Santa Sede, consapevole del suo debito nei riguardi di Papa Leone XIII, la celebra con questa seduta solenne che voi onorate della vostra presenza e che io ho la gioia di presiedere. Essa fa seguito al seminario estremamente attuale sulla “destinazione universale dei beni”, i cui partecipanti sono tuttora qui e che io tengo a salutare in maniera particolare. Per queste iniziative assai opportune, vorrei ringraziare l’intero Pontificio Consiglio Giustizia e Pace nella persona del suo presidente, il Cardinale Roger Etchegaray e del suo vice presidente Monsignor Jorge Mejía. Questi studi, aperti agli specialisti delle diverse discipline, seguono una antica tradizione di cui già aveva beneficiato Papa Leone XIII per la preparazione della sua enciclica.

Attualmente, nel contesto di questo centenario della Rerum novarum e in rapporto con la Centesimus annus, vorrei proporvi alcune riflessioni proprio riguardo al pensiero sociale della Chiesa sulla destinazione universale dei beni.

La destinazione universale dei beni della terra.

2. Fin dall’inizio della sua enciclica, Papa Leone XIII ha sottolineato il fatto che, come conseguenza delle nuove tecniche, la produzione dei beni è aumentata rapidamente, e l’umanità si è trovata di fronte ad una ricchezza mai sperimentata nel passato. Egli non rifiutava questa “res nova” come tale; al contrario, egli vedeva in essa una nuova realizzazione della volontà di Dio di perfezionare l’opera della sua creazione grazie al lavoro dell’uomo e per il bene dell’uomo. Ma la preoccupazione del Papa era di vedere che questa nuova ricchezza, invece di essere accessibile a tutto il genere umano, rimaneva in realtà concentrata nelle mani di un piccolo gruppo di persone, mentre la massa dei proletari era esclusa dal suo godimento e diventava sempre più povera.

Questo risultato era in contraddizione diretta con la volontà di Dio, che ha donato la terra a tutto il genere umano perché ne facesse uso e potesse disporne. Ecco perché il Papa si sforzò volutamente, in particolare con la sua enciclica, di mostrare le vie e i mezzi per realizzare questa volontà di Dio anche nella società industriale. Non si poteva certo pensare realisticamente di conseguire questo risultato abolendo la proprietà privata; perciò il Papa chiedeva l’assegnazione di un salario equo, la possibilità reale di accedere alla proprietà, e anche l’intervento dello Stato e una organizzazione giusta del lavoro.

Il Papa non aveva allora - e non può sorprendere - la possibilità di conoscere o di prevedere tutti i mezzi e tutti i metodi di cui disponiamo oggi, come la formazione professionale, la partecipazione al capitale produttivo, la previdenza a spese dello Stato, le diverse forme di ridistribuzione del profitto e altre cose ancora. Pertanto, nella sua enciclica, Leone XIII cominciava con lo stabilire il fondamento e l’orientamento su cui si sono modellate le encicliche seguenti, sia per denunciare delle situazioni ingiuste, sia per aprire nuove possibilità per l’attuazione della destinazione universale dei beni.

Da parte mia, nell’enciclica Centesimus annus, ho messo l’accento soprattutto su tre problemi attuali. Il primo riguarda la ripartizione ingiusta dei beni tra i paesi industrializzati e i paesi in via di sviluppo. La Chiesa si rende conto che non è facile colmare questo “abisso” dall’oggi all’indomani. Quando si auspica e si chiede una politica di sviluppo, non bisogna essere utopisti, ma, di fronte all’aggravarsi della miseria da una parte e le possibilità economiche e le tecniche avanzate dall’altra, la Chiesa giudica necessario ribadire che, sia pure gradualmente, bisogna urgentemente prendere delle iniziative più radicali, più efficaci, a favore e con la collaborazione dei paesi poveri.

La proprietà è uno dei mezzi per proteggere
la libertà e la responsabilità

3. Il secondo problema riguarda l’ingiusta distribuzione dei beni all’interno di ogni Paese; questo è un problema che tocca sia i Paesi in via di sviluppo sia i Paesi industrializzati. Nel corso dei miei viaggi pastorali nei Paesi del Terzo Mondo, ho spesso ripetuto che l’ingiusta distribuzione dei beni della terra, lo sfruttamento del lavoro e lo stile di vita lussuoso di certuni costituiscono delle violazioni scandalose della distribuzione universale dei beni.

Ma, bisogna ripeterlo, problemi dello stesso tipo si pongono nei Paesi industrializzati. Una parte consistente della popolazione dell’Europa dell’Ovest vive in condizioni di povertà che sono motivo di terribili sofferenze. Nei Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale, il fenomeno è ancora più diffuso. E questa nuova povertà non tocca oggi una classe in particolare, ma riguarda gruppi diversi che si tende a dimenticare spesso se non sempre nella società del benessere.

Vorrei ancora insistere su un altro fatto che è legato alla destinazione universale dei beni. Sappiamo che il capitale produttivo nel vero senso della parola aumenta velocemente, soprattutto nei paesi industrializzati. Eppure, questo aumento non si realizza sempre a beneficio di un gran numero di persone, ma il capitale resta concentrato nelle mani di alcune persone. Ora, la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto la partecipazione di un gran numero di persone al capitale produttivo, perché la proprietà è uno dei principali mezzi per proteggere la libertà e la responsabilità della persona e, di conseguenza, della società.

La nostra responsabilità nei confronti del creato
e delle generazioni future

4. Il terzo problema di attualità riguardo alla destinazione dei beni si riferisce alle nostre responsabilità nei confronti della creazione e nei confronti delle generazioni future. Certuni ripongono tutte le loro speranze delle nuove tecnologie pensando che esse possano notevolmente ridurre tutte le minacce che pesano sull’equilibrio ecologico. A dire il vero, per la Chiesa, non si tratta solamente di un problema tecnico ma anche e soprattutto di un problema morale. Non è sufficiente evocare gli enormi danni causati all’ambiente naturale; bisogna anche insistere, e ancor di più, forse, sulle sofferenze quotidiane che vengono inflitte agli uomini con le diverse forme di inquinamento, con gli alimenti adulterati o nocivi, con il traffico caotico dei mezzi di trasporto che rende l’aria irrespirabile. E ancora, “oltre all’irrazionale distruzione dell’ambiente naturale, è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell’ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la necessaria attenzione” (Centesimus annus, 38).

La “destinazione universale” del “servizio dell’autorità”.

5. È noto che Leone XIII nel suo documento esprimeva una seconda preoccupazione: egli osservava lucidamente che il nuovo sistema di produzione, derivante dal capitalismo, portava con sé la concentrazione di un tale potere economico e sociale nelle mani dei padroni del capitale, che gli operai, non disponendo di alcuna proprietà personale, potevano essere facilmente sfruttati e oppressi dal peso stesso del capitale. Ma questo pericolo non era il solo. Il Papa ne aveva previsto anche un altro: il pericolo che il capitale si “impadronisse”, cioè conquistasse e usurpasse l’autorità stessa dello Stato, rafforzando così il suo monopolio economico e sociale.

Di fronte a questa situazione critica, il Papa dichiarava in modo incisivo: “I proletari né più né meno dei ricchi sono di naturale diritto cittadini, membri veri e viventi onde si compone, mediante le famiglie, il corpo sociale . . . Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai: non facendolo, si offende la giustizia che vuole reso a ciascuno il suo . . . Sennonché (lo Stato) nel tutelare le ragioni dei privati vuolsi avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri . . . e però agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi” (Rerum novarum, 27-29; cf. Centesimus annus, 8.10). A questo proposito si può stabilire un’analogia: come i beni della terra sono destinati a tutti, così i poteri pubblici sono destinati al bene di tutti, e non solamente al bene di un gruppo particolare. Insistendo su questo principio, il Papa non prendeva affatto la difesa dello Stato assistenziale e totalitario; al contrario, egli ribadiva esplicitamente che la responsabilità sociale non deve essere concentrata esclusivamente nelle mani dello Stato. In effetti, egli ripeteva che i diritti della famiglia vengono prima di quelli dello Stato, e che le associazioni libere hanno il diritto naturale di organizzarsi e di risolvere autonomamente i loro problemi sociali. Quindi, bisogna sostenere che la natura sociale dell’uomo non si esaurisce nello Stato, ma che la “personalità” della società deve sempre essere rispettata con la sua autonomia e le sue peculiari responsabilità (cf. Ioannis Pauli PP. II, Centesimus annus, 13).

Lasciando da parte questa necessaria chiarificazione, l’insistenza di Papa Leone XIII, sulla “destinazione” dei pubblici poteri a beneficio di tutti rappresentò un importante contributo non soltanto per appoggiare gli operai, ma anche nella prospettiva di superare la lotta di classe.

In questo campo, non vi è da meravigliarsi che il Papa non abbia avuto allora conoscenza di tutto ciò che implicava l’affermazione della “destinazione” dei poteri pubblici a beneficio di tutti. Ma qui ancora, la Rerum novarum enunciava un principio di base sul quale le encicliche sociali seguenti si sono basate per approfondire il ruolo dello Stato per la promozione del bene comune in campo economico, come pure in campo sociale e culturale, insistendo sempre sia sulla sua presenza necessaria sia sul principio della sussidiarietà.

Assistenzialismo e meccanismi burocratici:
due pericoli per lo Stato oderno

6. Il raggio d’azione dei poteri pubblici fa parte, ancora oggi, dei problemi più gravi dell’ordine sociale nei Paesi industrializzati così come nei Paesi in via di sviluppo. Anche se l’ideologia della lotta di classe non trova quasi più sostenitori dopo il crollo del “socialismo reale”, lo Stato moderno si trova di fronte a due pericoli:

Il primo consiste nella tendenza per lo Stato di diventare un ente di assistenza per tutti i cittadini, senza prendere in considerazione particolarmente le persone più bisognose. In queste condizioni, i bisogni di certi gruppi vengono ignorati o ricondotti a delle categorie generali. Si pensi per esempio ai bisogni specifici delle famiglie numerose, delle persone handicappate, degli anziani, dei rifugiati o degli immigrati. Quando Leone XIII parlava della responsabilità dei poteri pubblici nei riguardi di tutti, egli non sosteneva certo un generico egualitarismo; al contrario, egli attirava l’attenzione degli Stati sulla loro responsabilità in particolare nei riguardi di coloro che sono sprovvisti di mezzi per sopperire alle loro necessità vitali.

Il secondo pericolo consiste nel rischio che il peso dell’assistenza assicurata ai cittadini dallo Stato riduca e affievolisca quella che io chiamo la “personalità” della società. Ci troviamo oggigiorno di fronte ad una situazione molto difficile: la tendenza all’individualismo e all’atomizzazione della società è in aumento. Di conseguenza, vediamo svilupparsi la tendenza dello Stato a rimediare alle lacune che ci sono nella solidarietà sociale per mezzo di strutture coercitive e di meccanismi burocratici. In queste condizioni è essenziale che lo Stato moderno riesca a responsabilizzare la società e a motivarla nel senso di attività economiche, sociali e culturali. Per ottenere il bene comune in una maniera veramente degna dell’uomo, bisogna che ci sia un giusto equilibrio tra la corresponsabilità dei membri della società e l’impegno dello Stato, come ho ricordato io stesso nella Centesimus annus (Ioannis Pauli PP. II, Centesimus Annus, 48).

La portata di questo orientamento supera di molto la dimensione nazionale, essa tocca anche la costruzione dell’unità europea o gli sforzi analoghi fatti in altri continenti. Una Europa unita non può assorbire, nelle sue strutture uniformi, le specifiche iniziative economiche, sociali e culturali di ciascun Paese, ma può essere di grande aiuto per tutti se le organizzazioni continentali si associano e si consultano con le regioni, nel rispetto della loro autonomia.

La “destinazione universale” dell’annuncio evangelico.

7. Leone XIII era convinto che la destinazione dei beni a tutta l’umanità e la “destinazione” dei poteri pubblici a tutti fossero dei principi fondamentali agli albori della civiltà industriale. Tuttavia è impressionante leggere, nella Rerum novarum, che “i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere umano” ( Leone XIII, Rerum novarum, n. 21), e constatare come l’insieme del documento sia permeato dalla convinzione che le riforme economiche e politiche non siano sufficienti da sole a risolvere la questione sociale. Le riforme di struttura devono essere accompagnate e anzi precedute da una riforma morale ispirata al Vangelo e sostenuta dalla grazia. Su questo poggia l’appello costante del Papa alla coscienza dei dirigenti delle aziende e degli operai, la sua insistenza sul fatto che la religione debba essere considerata fondamentale nelle associazioni di operai e di dirigenti. Allo stesso modo va inteso l’appello allo Stato affinché protegga il diritto degli operai alla pratica religiosa.

Leone XIII era convinto che la Chiesa, accanto alla sua missione specifica di diffondere il Vangelo, avesse il dovere di insistere sulle conseguenze sociali che ne derivano. La sua più grande preoccupazione era di non vedere instaurarsi una sorta di processo di alienazione che separasse il Vangelo dalla società industriale, e per conseguenza facesse perdere al Vangelo ogni influenza nella soluzione dei problemi sociali. Egli diceva: “È primariamente tutto l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri, incominciando da quelli che impone la giustizia” (Leone XIII, Rerum novarum, n. 16). E non esitava ad aggiungere questa considerazione essenziale: “Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l’animo non si erge ad un’altra vita, ossia all’eterna: senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente dileguasi, anzi l’intera creazione diventa un mistero inesplicabile” (Ivi, n. 18). E ancora: “Non saran paghe di una semplice amicizia, vorranno darsi l’amplesso dell’amore fraterno. Poiché conosceranno e sentiranno che tutti gli uomini hanno origine da Dio, padre comune” (Ivi, n. 21).

Nella sua storia ormai centenaria, la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto che la riforma delle strutture deve essere accompagnata da una riforma morale, poiché la radice profonda dei mali sociali è di natura morale, ossia “da una parte la brama esclusiva del profitto e dall’altra la sete del potere” (Ioannis Pauli PP. II, Sollicitudo rei socialis, 37). Essendo la radice dei mali sociali di tale ordine, ne consegue che essi possono essere superati soltanto a livello morale, cioè per mezzo di una “conversione”, un passaggio da comportamenti ispirati ad un egoismo incontrollato ad una cultura di autentica solidarietà.

Questa affermazione conserva pienamente il suo senso per la società odierna e per quella di domani. Di fronte ai gravi problemi nazionali e internazionali attuali, è essenziale conservare la viva speranza che anche coloro che non professano esplicitamente alcuna fede religiosa siano convinti che i mali sociali “non sono soltanto di ordine economico, ma dipendono da atteggiamenti più profondi configurabili, per l’essere umano, in valori assoluti” (Ivi, 38). Ho fatto appello a tutte le Chiese e a tutte le comunità cristiane, oltre che alle altre religioni del mondo, perché collaborino per far condividere a tutti gli uomini la convinzione che questo fondamento morale e religioso sia necessario per risolvere i numerosi problemi economici, sociali e politici che rimangono aperti.

Il nuovo millennio sia un'era di giustizia e di pace

8. Cari fratelli e sorelle, il centesimo anniversario della Rerum novarum ci invita ad avere uno sguardo “retrospettivo”, uno sguardo “attuale” sulle “cose nuove” che ci circondano, e anche a posare il nostro sguardo “verso l’avvenire” (cf. Ioannis Pauli PP. II, Centesimus annus, 3). Lo sguardo “retrospettivo” ci invita a rendere grazie a Dio che ha donato alla Chiesa un “ricco patrimonio” nel messaggio storico di Leone XIII. La nostra gratitudine va anche a tutti coloro che, nel corso di questi cento anni, si sono adoperati ad approfondire questo messaggio e a metterlo in pratica. Lo sguardo “attuale” ci invita a constatare e a valutare con molta attenzione i profondi cambiamenti economici, sociali e politici sopraggiunti in questi ultimi anni, al fine di contribuire alla soluzione dei problemi che suscitano. Lo sguardo “verso l’avvenire” ci invita, oggi più che mai, a rinnovare l’impegno che Leone XIII formulava così: “Che ciascuno faccia la parte che gli conviene; e non s’indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più malagevole la cura di un male già tanto grave”. E aggiungeva: “Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancar mai e in modo nessuno l’opera sua” (Leone XIII, Rerum novarum, 45).

Mentre si avvicina l’inizio del terzo millennio cristiano, credo che la celebrazione più degna e fruttuosa della enciclica Rerum novarum consista nel rinnovare questo impegno, nel confermare che il suo compimento generoso è un dovere. Noi osiamo sperare che il nuovo millennio sia un’era di giustizia e di pace per il mondo intero.

Che la benedizione di Dio ci aiuti ad essere sempre più “assetati di giustizia” e “pacificatori” (Mt 5, 6-9)!

 

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