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AD EXTREMAS

LETTERA ENCICLICA DI
S.S. LEONE XIII

 

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e agli altri Ordinari locali che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.
Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Alle estreme propaggini dell’Oriente, esplorate dall’ingegno e dalla tenacia dei Portoghesi, dove ogni giorno molti cercano opulenti commerci, Noi pure, nella speranza di beni di gran lunga maggiori, già dall’inizio del Nostro Pontificato abbiamo spinto il pensiero e la riflessione. Agitano l’animo, e fortemente muovono in Noi l’affetto, quelle immensità delle Indie, nelle quali da tanti secoli si consumano le fatiche degli uomini del Vangelo. In primis Ci viene alla mente l’apostolo beato Tommaso, che a buon diritto viene ritenuto l’autore della promulgazione del Vangelo presso gli Indii; poi Francesco Saverio che, a distanza di molto tempo, tenacemente lavorò per lo stesso scopo impegnandosi con costanza e amore incredibili per convertire centinaia di migliaia di Indii alla sana religione e alla fede dalle fantasie del Bramanesimo e dall’inaccettabile superstizione. Dopo quel santissimo uomo, molti sacerdoti dell’uno e dell’altro Ordine, per decisione e mandato della Sede Apostolica tentarono, e tutt’oggi tentano con diligenza, di custodire e diffondere i sacri istituti cristiani che Tommaso introdusse e Saverio consolidò. Tuttavia, in così vasta regione, quanti uomini sono ancora lontani dal vero ed avviluppati nelle tenebre di una misera superstizione! Soprattutto a settentrione, quanto vasto territorio non è ancora disponibile a ricevere la semente del Vangelo!

Facendo nell’animo Nostro queste considerazioni, confidiamo moltissimo nella misericordia e nella benignità di Dio, nostro Salvatore, che solo conosce le opportunità e i tempi giusti per donare la sua luce e che suole spingere le menti degli uomini sul retto sentiero della salvezza col silente soffio della celeste ispirazione; per quanto sta in Noi, vogliamo e dobbiamo darci da fare perché tanta parte del mondo senta qualche beneficio dalle Nostre veglie. Con questo proposito, avendo il pensiero fisso se in qualche modo si potesse più agevolmente ordinare e accrescere il patrimonio cristiano nelle Indie Orientali, abbiamo felicemente stabilito alcuni provvedimenti destinati a giovare alla salute del nome cattolico. Per prima cosa, in virtù del protettorato del Portogallo nelle Indie Orientali, col fedelissimo Re del Portogallo e degli Algarbi, con scambio di promesse abbiamo stabilito alcuni patti. Per questa ragione quelle liti non piccole che per lungo tempo avevano angosciato gli animi dei cristiani, eliminata la ragione del contendere, si calmarono. Inoltre giudicammo i tempi maturi perché in singole comunità di cristiani, che prima avevano obbedito a Vicarî o a Prefetti apostolici, si formassero delle vere Diocesi, che avessero i loro Vescovi e fossero amministrate con diritto ordinario. Perciò, con la bolla Humanae salutis del 1º settembre 1886 fu costituita in quelle regioni una nuova Gerarchia che comprende otto province ecclesiastiche, cioè di Goa, con titolo patriarcale ad honorem, di Agra, di Bombay, di Verapoli, di Calcutta, di Madras, di Pondicherry, di Colombo. Da ultimo, tutto ciò che potrebbe fruttificare per la salvezza eterna, tutto ciò che riteniamo utile ad incrementare pietà e fede, cerchiamo di farlo costantemente col Nostro sacro Consiglio, per diffondere il nome cristiano.

Tuttavia c’è un’ultima cosa da cui dipende in gran parte la salvezza delle Indie: a questo problema voi, Venerabili Fratelli, e tutti quanti amano l’umanità e il nome cristiano, vogliamo che prestiate la massima attenzione. L’incolumità della Chiesa cattolica in India non è difesa, e la sua propagazione sarà incerta fino a quando mancherà un Clero scelto tra gli indigeni, opportunamente istruito per i doveri sacerdotali, il quale possa non solo essere di aiuto ai preti forestieri ma esso stesso nelle proprie popolazioni possa rettamente amministrare i compiti sacerdotali. È stato tramandato che avesse questo stesso parere Francesco Saverio, che era solito dire che la religione cristiana non poteva stabilirsi definitivamente in India se non c’erano pii decisi sacerdoti, nati in India. E appare con chiarezza come su questa questione egli avesse visto acutamente. In realtà molte difficoltà incontrano coloro che vengono dall’Europa, soprattutto per l’ignoranza della lingua locale, di cui è molto difficile capire il senso; parimenti la differenza di abitudini e costumi, a cui non ci si abitua nemmeno dopo lungo tempo. Pertanto è necessario che i Chierici europei stiano là come in luogo straniero. Per questa ragione è evidente come la moltitudine a fatica creda ai forestieri e come l’opera di sacerdoti indigeni possa essere in futuro di gran lunga più fruttuosa. Questi conoscono le tendenze, le consuetudini, i costumi della loro gente; conoscono il tempo di parlare e di tacere. Da ultimo gli Indii si aggirano tra gli Indii senza alcun sospetto: ciò dice quanto sia importante soprattutto in tempi critici.

Inoltre bisogna considerare che i Missionari stranieri sono troppo pochi per curare le comunità cristiane che attualmente ci sono. Ciò balza evidente dalle statistiche missionarie: da queste si conferma come le Missioni Indiane chiedano sempre da Propaganda fide nuovi Nunzi del Vangelo, e non smettano di insistere. Per la verità, se nemmeno ora i sacerdoti esterni sono sufficienti all’educazione cristiana, che sarà in futuro con l’aumento del numero dei cristiani? E non c’è speranza che il numero di coloro che manda l’Europa cresca in proporzione. Dunque, se si vuole provvedere alla salvezza degli Indii e consolidare il nome cristiano in quella immensa regione nella speranza del futuro, è necessario scegliere tra gli indigeni coloro che adempiano alla missione sacerdotale dopo una diligente preparazione.

In terzo luogo non si deve passare sotto silenzio ciò che è molto distante dalla verità, ma che nessuno potrebbe negare che possa avvenire: e cioè in Europa o in Asia può talora avvenire che per forza e necessità le Indie possano essere costrette a rimpatriare i preti stranieri. In tal caso, se manca il Clero indigeno, chi può salvare la religione, senza alcun ministro dei Sacramenti, senza alcun maestro della dottrina? Parla abbastanza chiaro su questa materia la storia dei Cinesi, dei Giapponesi, degli Etiopi. In verità più di una volta presso i Giapponesi e i Cinesi, in presenza di odii e persecuzioni contro il nome cristiano, la forza nemica, uccisi o mandati in esilio i sacerdoti stranieri, risparmiò i nativi, i quali, conoscendo lingua e costumi patrii, e sostenuti da parentele e amicizie, poterono non solo restare impunemente in patria, ma amministrare liberamente in tutte le province i Sacramenti e gli offici sacerdotali proprî della religione. Per contro in Etiopia, dove già i cristiani erano duecentomila, non essendovi Clero indigeno, uccisi o esiliati i Missionari europei, l’imrovvisa tempesta della persecuzione cancellò dalle fondamenta il frutto del loro diuturno lavoro.

Infine, se si guarda al passato, noi vediamo la cura che si metteva un tempo nel conservare religiosamente le istituzioni della salvezza. Nell’adempimento dei doveri apostolici, per prima cosa si insegnarono al popolo i precetti cristiani poi divenne costume e consuetudine degli apostoli iniziare alcuni scelti, tra i fedeli, al sacro ministero, e portarli perfino all’episcopato. I romani Pontefici, seguendo il loro esempio, erano soliti comandare agli uomini apostolici, dove si fosse formata una comunità abbastanza numerosa di fedeli, di scegliere con ogni sforzo il Clero fra gli indigeni. Dal momento che si decise di conservare e propagare la dottrina cattolica presso gli Indii, bisognò avviare al sacerdozio gli Indii, che potessero comodamente amministrare i Sacramenti ed essere a capo dei loro cristiani in qualunque momento.

Per questo i Prefetti delle Missioni Indiane, per consiglio ed esortazione della Sede Apostolica, dove fu possibile fondarono i Seminari. E così nei Sinodi di Colombo, Bangalore, Allahabad, che si ebbero agli inizi del 1887, si stabilì che ogni Diocesi avesse il suo Seminario per il Clero indigeno; se qualche Vescovo suffraganeo per scarsità di mezzi non poteva averlo, mantenesse a sue spese i Chierici della sua Diocesi nel Seminario metropolitano. I Vescovi, secondo le loro forze, s’impegnano a realizzare codesti decreti, ma nel loro sublime lavoro sono ostacolati dalla povertà delle famiglie e dalla penuria di sacerdoti idonei a dirigere gli studi e a governare sapientemente l’organizzazione. Perciò a stento e nemmeno a stento esiste un solo Seminario in cui si abbia l’educazione completa e perfetta degli alunni: ciò, in questi tempi in cui i Governatori civili e i Protestanti in non piccolo numero non tralasciano alcuna spesa o fatica perché tutta la gioventù sia istruita in modo raffinato e colto.

Questo mostra quanto sia opportuno, quanto utile alla pubblica salute fondare nelle Indie Orientali dei Seminari dove i giovani del luogo, speranza della Chiesa, siano istruiti ad ogni finezza di dottrina e a quelle virtù senza le quali non si possono esercitare né santamente né utilmente i sacri ministeri della Chiesa. Rimossi i motivi di discordia attraverso patti stipulati, e ordinata l’amministrazione delle Diocesi con la Gerarchia ecclesiastica, se Ci sarà possibile — come Ci proponiamo — provvedere adeguatamente alla formazione dei Chierici, Ci sembrerà di aver realizzato il coronamento dell’opera. Infatti, come abbiamo detto, una volta fondati i Seminari per i Chierici, sarebbe sicura la speranza che ne uscirebbero in gran copia sacerdoti preparati che largamente diffonderebbero il lume della pietà e della dottrina, e che nello spargere la semente del Vangelo applicherebbero scientificamente gli aspetti principali della loro inventiva. In un’opera così nobile e utile alla salvezza futura di una moltitudine infinita di persone, è cosa degna che gli Europei diano qualche aiuto, soprattutto perché da soli non possiamo essere all’altezza della mole delle spese. È proprio dei Cristiani sentire come fratelli tutti gli uomini, dovunque siano, e non considerare alcuno estraneo alla propria carità: ciò soprattutto in quei problemi nei quali si tratta della salvezza eterna del prossimo. Perciò chiediamo con insistenza a voi, Venerabili Fratelli, che vogliate collaborare, per quanto sta in voi, al Nostro proposito e al Nostro tentativo. Fate in modo che si conosca la condizione della religione cattolica in regioni così lontane; fate in modo che tutti comprendano che è necessario tentare qualcosa per gli Indii: lo sentano soprattutto coloro che pensano essere un ottimo frutto del denaro poter fare beneficenza.

Sappiamo per certo che Noi abbiamo implorato non invano la munifica volontà delle vostre popolazioni. Se la generosità sarà maggiore delle spese necessarie per i Collegi di cui abbiamo parlato, ciò che resterà del denaro raccolto, cureremo che sia erogato in altre opere cominciate utilmente e piamente.

Auspice dei celesti doni e testimonianza della Nostra paterna benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli, al Clero e al popolo vostro impartiamo ben volentieri l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 giugno 1893, nel sedicesimo anno del Nostro Pontificato.

 

LEONE PP. XIII



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