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Tra autodeterminazione e precarietà politica

Se l'Afghanistan
vuole ballare da solo


di Gabriele Nicolò

Dall'ottimismo delle parole allo scetticismo dettato dai fatti. Entro il 2014 - così recita il documento finale del vertice Nato a Lisbona svoltosi lo scorso fine settimana - la piena responsabilità della sicurezza, nelle trentaquattro province afghane, passerà alle autorità di Kabul. Quindi ci si chiede se le forze locali saranno in grado, nei prossimi tre anni, di completare una formazione militare, tattica e logistica che permetta loro di fronteggiare la mai domata violenza talebana.
Il presidente statunitense Barack Obama ha tenuto a precisare che dopo il 2014, quando il contingente internazionale avrà terminato la sua missione, l'Afghanistan non sarà abbandonato  a  se  stesso.  Gli  ha  fatto eco il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, sottolineando che lasciare gli afghani soli significherebbe vanificare i progressi finora ottenuti. Non sono poche, in realtà, le operazioni antitalebane condotte, soprattutto negli ultimi tempi, dall'esercito di Kabul:  alcune anche con discreti risultati. Ma al momento manca una strategia articolata che consenta alle autorità locali di pianificare efficaci campagne militari in tutto il territorio. Tanto che il Pentagono, in attesa che le forze afghane maturino maggiori capacità ed esperienza, ha deciso, come riportato in questi giorni dal "Washington Post", di schierare i carri armati:  sarebbe la prima volta dall'inizio del conflitto, nove anni fa.
I talebani, nel frattempo, non stanno a guardare. Hanno giudicato l'esito del vertice di Lisbona un "fallimento" della politica militare e diplomatica occidentale, e hanno detto di attendere il disimpegno militare della coalizione internazionale per intensificare la loro azione destabilizzante. I guerriglieri, nello stesso tempo, continuano a declinare, almeno ufficialmente, ogni proposta di negoziato formulata da Kabul, nell'ambito del processo di riconciliazione nazionale. Da tempo si rincorrono voci riguardo a trattative, più o meno segrete, fra miliziani e rappresentanti del Governo, con la mediazione, anche questa non del tutto certificata, della Nato. La comunità internazionale riconosce nel dialogo con i guerriglieri un passaggio obbligato lungo il processo di stabilizzazione del territorio. E il presidente afghano Karzai ha espresso più volte la convinzione che l'elemento talebano è essenziale in un impegno negoziale diretto a garantire al Paese un assetto stabile, non più insidiato dalle violenze.
Mentre si lavora sul versante diplomatico, non si tralascia l'azione militare, che supera tra l'altro i confini afghani. Gli Stati Uniti, infatti, negli ultimi mesi hanno intensificato i raid dei droni in Pakistan, in particolare nel Nord Waziristan (contestati da Islamabad perché mettono a rischio l'incolumità dei civili), nella convinzione che è proprio in quest'area - dove ancora resistono numerose postazioni talebane - che si gioca la battaglia più importante nella lotta al terrorismo nell'intera regione. L'Afghanistan dunque si trova tra due fuochi:  quello di una febbrile attività diplomatica e quello di un'intensa azione militare. Un crinale quanto mai delicato, per un Paese alla ricerca di equilibrio.
Un equilibrio che non trova riscontro, per esempio, sul piano politico. In queste ore, dopo più di due mesi dalle elezioni legislative (tenutesi il 18 settembre), sono stati finalmente resi noti i risultati definitivi, la cui ufficializzazione era stata a più riprese posposta per esaminare gli oltre seimila ricorsi presentati per brogli e altre irregolarità. Eppure, nonostante un ritardo così marcato, neppure i dati annunciati dalla commissione elettorale indipendente risultano completi:  mancano, infatti, ancora quelli della provincia sudorientale di Ghazni, uno dei teatri principali dell'insurrezione talebana. E mentre le Nazioni Unite esprimono soddisfazione per la formalizzazione dell'esito del voto, si registrano proteste di piazza in varie città afghane, con dimostranti che issano cartelli con scritte quali "Parlamento sequestrato, crollo della democrazia", e "La commissione elettorale è nemica della democrazia". A Kabul, per disperdere i manifestanti radunatisi davanti al palazzo presidenziale, sono intervenute mercoledì 24 le forze antisommossa. Le proteste nascono dall'esclusione di numerosi candidati accusati di "comportamento irregolare".
Sui 249 seggi in palio alla Camera bassa ne sono dunque stati assegnati finora 238. Non è ancora chiaro che cosa ne sarà degli undici seggi spettanti alla provincia di Ghazni, che ufficialmente non sono stati attribuiti per problemi tecnici, con sospensione a tempo indeterminato. Secondo i risultati finora certificati, l'etnia pashtun uscirebbe sconfitta, a vantaggio della minoranza degli hazara. Il processo elettorale è quindi fermo:  l'ipotesi più accreditata è che, al momento, rimarranno in carica i deputati eletti nella precedente consultazione, anche se ciò favorirebbe i rappresentanti pashtun. Dunque l'Afghanistan, ancora una volta, ha mancato di valorizzare un voto politico come strumento di stabilità (le presidenziali furono un altro insuccesso a causa della pioggia di brogli), confermando la difficoltà di gestirsi da solo. E il 2014 non è poi così lontano.