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PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì delle Ceneri, 23 febbraio 1966

 

Insostituibile valore della penitenza

Diletti Figli e Figlie!

Questa udienza si è iniziata col rito tanto espressivo e caratteristico per l’apertura della Quaresima, il rito della imposizione delle ceneri, il quale offre perciò il tema della breve conversazione, con cui oggi accogliamo i Nostri visitatori. Crediamo di non mancare alla cortesia ad essi dovuta, se li abbiamo fatti partecipare, attori o spettatori che siano, ad una così severa e impressionante cerimonia penitenziale; innanzi tutto perché voi, pellegrini e visitatori presenti, non disdegnate, bensì desiderate osservare quanto meglio possibile la persona e la vita del Papa nell’esercizio del suo ministero; e ciò per un interesse ben superiore a quello avido di scene singolari e folcloristiche, per l’interesse invece della vostra pietà religiosa e della vostra devozione filiale al successore di S. Pietro e Vicario di Cristo. In secondo luogo perché la cerimonia delle ceneri ha importanza per tutti, e acquista oggi un valore d’attualità, che invita tutti ad associarvi lo spirito: apposta l’abbiamo voluta quest’anno celebrare in questo quadro più solenne e più propizio alla riflessione sul suo impressionante significato.

Il significato del rito delle ceneri è duplice: ricordare la morte, imporre la penitenza; due significati che concorrono in uno, quello di ridestare la coscienza del peccato, causa originaria e fatale della morte, e di portarvi il rimedio a noi consentito, l’espiazione. Nulla di più grave, nulla di più drammatico può essere intimato alla coscienza dell’uomo; lo sanno gli esistenzialisti moderni, che non potrebbero trovare altrove motivi più forti per la loro angoscia.

La Chiesa maestra non teme d’offrire ai fedeli suoi alunni lezioni tremende, come questa: quella della cenere, quella cioè della fine d’ogni cosa creata, quella della caducità fatale di quanto noi siamo e di quanto la nostra vita ama ed ammira, quella della sorte tragica e inesorabile, che soggiace, come un’insidia sempre in agguato, ad ogni più piena manifestazione della vita, l’insidia della morte che sta per divorare quanto abbiamo di più bello e di più prezioso; ed ecco la cenere, spenta e arida e misera conclusione di tutto il mondo della nostra esperienza vitale nel tempo, generatore e distruttore. E quasi non bastasse il simbolo a farci pensare a così terribile sorte, le parole si aggiungono e rincalzano; e non potrebbero essere più gravi e più vere: «Pensa, uomo, che sei polvere, e che in polvere ritornerai»; e con le parole spietate, il gesto; il gesto, che fa tremare chi lo compie e chi lo riceve, dell’imposizione di tale segno di umiliazione e di morte sulla testa d’una persona viva.

Eppure questo non è un rito macabro e disperato. Si pensa al medioevo, quando all’alfabeto del pensiero molto servivano le cose sensibili, e quando la vita spirituale era considerata superiore ad ogni altra forma della nostra complessa esistenza. Ma l’origine di questo linguaggio simbolico risale più indietro, quando non a tutti i fedeli, come ora avviene, s’imponeva sul capo la cenere quaresimale, ma soltanto ai penitenti qualificati, ammessi così ad espiare pubblicamente le loro colpe dinanzi alla comunità dei fedeli e da essa in tal modo parzialmente segregati. Risale anzi ancora più indietro, ai primi tempi del cristianesimo, eredi essi pure d’una tradizione biblica, che associa appunto l’aspersione della cenere alla professione della penitenza, e vi aggiunge l’imposizione di una veste ruvida e povera di umiliazione, il cilicio (cfr. Esth. 4, 3; Matth. 11, 21). Vale a dire che l’uso di questo simbolo percorre tutta la tradizione dell’antico e del nuovo Testamento, e entra in quel robusto linguaggio che la divina pedagogia della salvezza impiega non già per sospingerci alla disperazione, ma alla conversione, alla penitenza cioè, principio e via della nostra riabilitazione e condizione per ricuperare ciò che da noi non più e non mai potremmo conseguire: la misericordia di Dio, la sua grazia, la nostra vita soprannaturale, l’unica in cui deve risolversi ogni nostra aspirazione.

Ci si può chiedere, noi moderni, se questa pedagogia sia ancora comprensibile. Rispondiamo affermativamente. Perché è pedagogia realista. È un severo richiamo alla verità. Ci riporta alla visione giusta della nostra esistenza e del nostro destino. Ci presenta la filosofia della sapienza. Essa sorprende l’uomo moderno sotto due aspetti: quello della sua immensa capacità di illusione, di auto-suggestione, di inganno sistematico di se stesso sopra la realtà della vita e dei suoi valori; e ci grida che siamo mortali e che dobbiamo dare una spiegazione soddisfacente a questa nostra sorte, la quale, se compresa e ben meditata, ci obbliga a rivolgere il nostro supremo interesse verso i valori che sfuggono alla condanna della cenere: i valori spirituali, i valori morali. E l’altro aspetto, sotto il quale l’uomo moderno è accessibile da questo crudo insegnamento, è il fondamentale pessimismo dell’uomo stesso. Si può dire che la maggior parte della documentazione umana, offertaci oggi dalla filosofia, dalla letteratura, dallo spettacolo, conclude per proclamare l’ineluttabile vanità d’ogni cosa, l’immensa tristezza della vita, la metafisica dell’assurdo e del nulla. Questa documentazione è un’apologia della cenere. Ma mentre essa nella cenere si affonda e sconsolata rimane, la lezione dell’ascetica cristiana dalla cenere risale alla speranza e alla vita, facendone strumento di penitenza, cioè di conversione, di cambiamento, di nuova ripresa di vigore e di gaudio.

Ed è così che la Chiesa ci impone questa lezione non solo perché è vera, ma perché di più è necessaria. Ed è necessaria sempre: oggi, come ieri. Cambiano, e non poco, le forme della penitenza, ma il bisogno umano non cambia, la legge di Dio non cambia. È ciò che Noi abbiamo cercato di spiegare col Nostro recente documento dottrinale e disciplinare, che si apre con la parola che gli dà il titolo «Paenitemini».

Figli carissimi, farete bene a darvi un’occhiata; e siate sicuri che non solo non resterete rattristati e impediti nelle vostre doverose e intense attività, ma piuttosto istruiti, confortati, e avvicinati a quello spirito, da cui vorremmo fosse rianimata la vita cristiana, dopo il Concilio.

Buona Quaresima perciò, e fin d’ora buona Pasqua! con la Nostra Apostolica Benedizione.

                                  



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