Index   Back Top Print

[ IT ]

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 5 ottobre 1966

 

Obbedienza filiale attiva gaudiosa

Diletti Figli e Figlie!

A voi, che siete qua guidati dall’amore alla Chiesa; alla Chiesa nella sua unità, nella sua autenticità, nella sua potestà; a voi, che conoscete qualche cosa dello stato di fervore e di rinnovamento, in cui la Chiesa si trova dopo il Concilio, e che partecipate certamente con buona volontà al processo post-conciliare di risveglio, di riforma, di novità, di sviluppo che pone Clero e fedeli in fermento e in movimento, di pensiero, di attività, di usanze, di istituzioni; a voi, che sentite lo stimolo dello Spirito Santo per uscire dal conformismo, dalla inerzia, dalla tepidezza, e per fare qualche cosa di buono e di utile per la Chiesa, Noi presentiamo ancora la Nostra e vostra domanda: di che cosa ha ora maggiore bisogno la Chiesa? Daremo oggi una risposta semplicissima, che voi, perché buoni, perché fedeli, perché fervorosi, potete comprendere ed accettare: la Chiesa ha bisogno di obbedienza. Sì, Figli e Figlie, che amate la Chiesa: di obbedienza. Ed ancor più che dell’esteriore obbedienza passiva ed esecutiva, dell’interiore e spontaneo spirito d’obbedienza.

Ci pare di ascoltare qualche reazione benevola, se non da voi, da ipotetici commentatori di questa familiare lezione settimanale. Ecco la prima: non si è già parlato più volte di questo tema? Sì, è vero, ne abbiamo parlato altre volte, e con Noi ne hanno parlato Vescovi e Superiori, i responsabili cioè delle comunità, a cui l’obbedienza si riferisce. Ma il bisogno di riparlarne, e chiaramente, rimane. Rimane per una certa insofferenza, un certo spirito d’indisciplina e d’emancipazione, che affiora qui e là in diversi ceti del Popolo di Dio, finora esemplarissimi nell’osservanza dell’obbedienza, fieri anzi ed onorati di dare a questa virtù evangelica la loro luminosa testimonianza. Rimane per la necessità, cresciuta in questo periodo post-conciliare, di coesione interna della compagine ecclesiastica: come rinnovare spirito, opere e strutture nella Chiesa, se ella non è solidale con se stessa? Come avvicinare i Fratelli da noi divisi, se la divisione, anche puramente intenzionale o disciplinare, diminuisce l’armonia, ch’è e deve essere caratteristica della società ecclesiale, raffredda la carità, e attenua la capacità di esempio e di apologia in chi a loro si rivolge? E come parlare al mondo, che vorremmo evangelizzare, se vien meno fra Noi la sapienza e l’autorità di farlo per difetto di quell’autenticità apostolica, che solo l’obbedienza qualifica e vivifica?

Può darsi, che, a questo punto, si pronunci una seconda reazione. L’obbedienza, interpreta lo spirito del Concilio? Non ha parlato il Concilio dei diritti della personalità, della coscienza, della libertà? Sì, ha parlato di questi temi, ma non ha certo taciuto quello dell’obbedienza. In questo momento Noi non intendiamo parlare di questi stessi temi, bellissimi, se pur complessi e delicati, circa la libertà dei figli di Dio, circa il carattere sacro della coscienza e circa la pienezza che la vita cristiana conferisce alla personalità umana; ma vogliamo semplicemente ricordare come queste prerogative dell’anima cristiana non siano offese, sì bene tutelate e moderate dall’obbedienza vigente nel tessuto comunitario della Chiesa, quando si rifletta che l’ordine, cioè la perfezione, la pienezza, a cui mira l’economia della salvezza cristiana, non sono propriamente antropocentriche (come la mentalità moderna è tentata di credere), ma teocentriche. «In Deo salutari meo», in Dio è la mia salvezza (Luc. 1, 47 ), diremo con la Madonna; e aggiungeremo col Concilio, che noi dobbiamo cercare non tanto la soddisfazione dei nostri desideri, quanto il compimento della volontà divina (cfr. Presbyt. Ord. 15). È bello, scriveva P. Wenger giorni or sono su «La Croix» (15-IX-1966), che il Concilio compia questa funzione di motore nel pensiero e nella vita delle persone e delle istituzioni; ma è anche vero che alcuni attribuiscono volentieri al Concilio le loro proprie opinioni e identificano troppo facilmente le deliberazioni conciliari con i loro propri desideri, e cercano così di affrancarsi dalla norma stabilita.

Ma allora, insisteranno forse i nostri commentatori, nulla è cambiato in fatto di obbedienza con il Concilio? Oh, no! Noi crediamo che sia lo spirito, che le forme dell’obbedienza ricevano dal Concilio una rigenerazione. Sarebbe lungo il parlarne. Ma se noi abbiamo compreso qualche cosa della dottrina centrale del Concilio, sul mistero della Chiesa, saremo facilmente persuasi come l’obbedienza, ancor prima d’essere ossequio puramente formale e giuridico alle leggi ecclesiastiche e sottomissione all’autorità ecclesiastica, è penetrazione e accettazione del mistero di Cristo, che mediante l’obbedienza ci ha salvati; è continuazione e imitazione del suo gesto fondamentale: il sì alla volontà del Padre; è comprensione del principio che domina tutto il piano dell’Incarnazione e della Redenzione (cfr. Lumen Gentium, 3). Così l’obbedienza diventa assimilazione a Cristo, il divino obbediente; diventa norma fondamentale della nostra pedagogia di formazione cristiana; diventa coefficiente indispensabile dell’unità interiore della Chiesa, fonte e segno della sua pace; diventa cooperazione effettiva alla sua missione evangelizzatrice; diventa esercizio ascetico di umiltà e spirituale di carità (cfr. Phil. 2, 5-12); diventa comunione con Cristo e con chi di Cristo è per noi apostolo e rappresentante.

E questo è tanto più bello quando pensiamo che il rapporto fra chi comanda e chi obbedisce, cioè fra chi nella Chiesa è rivestito d’autorità e chi ad essa è soggetto, esce dal Concilio riaffermato, purificato, precisato e perfezionato: dalle dottrine sulla costituzione organica e gerarchica della Chiesa e sulle virtù operative congeniali di essa (cfr. Lumen Gentium, 27, 37), non che dalle finalità di servizio e dall’indole pastorale della potestà ecclesiastica, come pure dall’esaltazione che il Concilio ha fatto del Popolo di Dio, del sacerdozio dei Fedeli, della partecipazione dei Presbiteri al sacerdozio del Vescovo, e della funzione dei Laici nella Chiesa di Dio.

V’è chi ha voluto ravvisare in ciò un mutamento radicale del rapporto fra autorità e obbedienza, quasi che esso si trasformasse in dialogo vincolante l’autorità e affrancante l’obbedienza; ma più che dialogo, che le toglierebbe il suo merito specifico, e che si addice piuttosto alla collaborazione e al consiglio, possiamo notare come il concetto di tale rapporto, senza escludere quello della responsabilità e della decisione, riservato all’autorità, si arricchisce di elementi non ignoti al costume cattolico, ma ora maggiormente valorizzati, quali il rispetto, la fiducia, l’unione, la collaborazione, la corresponsabilità, la bontà, l’amicizia, la carità . . ., che lo riportano al suo contenuto evangelico ed al suo stile veramente cristiano ed ecclesiale. Dove cioè l’obbedienza si fa filiale, attiva e gaudiosa.

Di questa, dicevamo, ha bisogno la Chiesa, perché non sia reso vano il frutto del Concilio e perché essa, la Chiesa, sia davvero il regno di Dio e la luce delle genti. A voi, Figli carissimi, perciò la raccomandiamo con la Nostra Benedizione Apostolica.

                                                   



Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana