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PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 21 giugno 1967

 

Ricerca della verità e perseveranza nella preghiera

LA FEDE PRINCIPIO DEI NOSTRI RAPPORTI CON DIO

Diletti Figli e Figlie!

Parliamo ancora della fede, come da qualche tempo siamo soliti a fare in questo umile e breve colloquio settimanale, È oggi molto importante, per tutti, parlare della fede: la fede è il principio dei nostri autentici rapporti con Dio; è il criterio logico e l’energia spirituale, entrambi rinvigoriti, che devono regolare l’orientamento spirituale e pratico della nostra vita (iustus ex fide vivit); la fede è la nostra fortuna, che ci qualifica cristiani e che ci assegna il nostro posto di credenti in mezzo all’umanità priva di questa scienza di Dio e dell’uomo; la fede è il nostro conforto nella risoluzione dei problemi fondamentali dell’esistenza, la nostra sicurezza, la nostra consolazione; poi la fede è il nostro primo dovere, davanti a Dio che parla e vuole che noi gli crediamo; davanti alla Chiesa maestra, che espone la dottrina della fede e che assiste i suoi figli nel conoscerla e nel tradurla in preghiera ed in opera; e davanti al mondo che ci domanda ad ogni passo: Tu ci credi? e attende da noi la testimonianza, di cui oggi spesso si parla.

Dicevamo, altra volta, appena accennando, delle difficoltà, che l’uomo d’oggi incontra davanti alla fede. Ma vi è una difficoltà, o meglio una condizione di fatto, che sempre espone l’uomo al pericolo di non avere la fede, perché la fede, nel suo vero significato teologale, è un dono, un dono di Dio. È la dottrina di. S. Paolo, che insegna: «Voi siete stati salvati per grazia mediante la fede; e ciò non è da voi, ma è dono di Dio» (Eph. 2, 8); ed è il grande insegnamento di S. Agostino, il quale dimostra che anche l’inizio della salvezza è opera della grazia, quando egli scrive: «Fidem, qua christiani sumus, donum Dei esse . . .» la fede, che ci fa cristiani, è dono di Dio (De praedestin. sanctorum, P.L. 44, 961); e sarà l’insegnamento della Chièsa ripetuto dai suoi Concili (cf. Denz.- Schoen., 375 [178]; 1553 [813]) e dai suoi maestri, da S. Tommaso, per esempio, il quale afferma che nemmeno il miracolo, per se, è causa sufficiente della fede (S. Th. II, IIæ, 6, 1): per credere occorre un principio interiore, che non può venire se non da Dio; occorre il «lumen fidei» (ibid. 1, 4 ad 3), una luce interiore che dispone la mente ad assentire alle verità rivelate da Dio; è la virtù in noi infusa dal battesimo.

NECESSARIA LA NOSTRA COOPERAZIONE PER LA SALVEZZA

Questa gratuità della fede, tutta dipendente da Dio, sembra annullare l’opera dell’uomo, e quasi insinuargli un rassegnato e inerte fatalismo, che tutto attende da Dio e nulla offre di suo. Ma così non è. Davanti al mistero che circonda l’azione divina a riguardo della nostra salvezza non vengono meno le nostre responsabilità, non è annullata la nostra collaborazione. Dio offre, a noi l’accettare. La salvezza, come ancora insegna il Dottore della grazia, S. Agostino, non è raggiunta «nisi volentibus nobis», senza che noi vogliamo (ibid. 965).

Questa dottrina apre un vastissimo campo di considerazioni sul dramma della fede: perché molti non credono? come possono salvarsi quelli che non hanno la fede? e quali sono i nostri doveri verso questo dono divino? come si ottiene? come si conserva? quali disposizioni nei nostri animi corrispondono al disegno di Dio di collegarsi con noi e di salvarci mediante la sua Parola, e quella accettazione della sua Parola, che si chiama la fede?

Voi comprendete quanto studio richiederebbero le risposte a questioni così gravi e così complesse. Noi qui diremo semplicemente, primo, che bisogna davvero considerare la fede come grande, felicissimo dono di Dio, perché esso è il primo segno, il primo regalo della carità divina verso di noi. L’amore di Dio si manifesta a noi dapprima con la vocazione alla fede. La sua Parola è l’espressione della sua Carità. Non potremo mai incontrarci effettivamente col pensiero salvifico di Dio, se non ascoltando la rivelazione della sua Verità. La fede è in Dio una chiamata d’Amore. E dev’essere da parte nostra una prima fondamentale risposta d’amore. E la nostra fortuna, è la nostra felicità, è la chiave del nostro destino. Bisogna perciò fare grande conto della fede! Quale poca saggezza dimostrano coloro che si concedono gli atteggiamenti più spregiudicati, più fatui, più irresponsabili davanti alla questione della fede. Purtroppo grande parte della gente giudica questa questione con estrema leggerezza, con incosciente volubilità, non pensa ch’è questione capitale. La fede richiede, sì, una libera adesione; ma appunto per questo impegna ad una riflessione ponderata e virile. L’uso della libertà non è un giuoco irrilevante. Definisce l’uomo nella sua grandezza e nel suo destino.

CERTEZZA E GAUDIO SPIRITUALE

Ed ecco allora un secondo dovere, dopo quello della giusta valutazione e della custodia, verso la fede: la ricerca, cioè la conoscenza dei termini in cui il problema della fede si pone, sia circa le verità da credere e sia l’atto spirituale, logico, psicologico e morale, a noi richiesto per credere, sempre ricordando che la fede non mortifica il nostro pensiero, anche se non ne soddisfa il naturale processo, ma lo abilita ad una conoscenza, ad una certezza, ad un gaudio spirituale di grado superiore a quello normale.

E accenneremo ad un terzo dovere, quello di pregare per avere, per conservare, per accrescere la fede. Il rapporto fra fede e preghiera dovrebbe essere esaminato con grande cura: e lo sarebbe certo con grande soddisfazione. «Bisogna rendersi ben conto che anche la fede (soggettiva) è vita, e come tale ha le sue evoluzioni e la sua storia. Non è una conoscenza ferma, stabilita una volta per tutte, comunque vada Ia vita, così come si conosce la tavola pitagorica, quando la si sia imparata . . . La fede si alimenta con le forze dello spirito e del cuore, col giudizio e con la fedeltà, vale a dire con tutta la vita interiore . . . La fede deve perseverare e con lei la preghiera» (Guardini, Introd. alla preghiera, p. 187).

Ed è ciò che Noi vi raccomandiamo, Figli carissimi, affinché quel prezioso dono di Dio, ch’è la fede, sia perseverante, sia forte, sia attivo, sia gioioso nei vostri animi; con la Nostra Apostolica Benedizione.


Professori e studenti della facoltà teologica di Salonicco

Messieurs les Professeurs, chers étudiants,

De tout cœur Nous vous disons: soyez les bienvenus: kalós orísate!

Vous avez voulu prendre Rome comme but de votre voyage annuel, pour y vénérer et admirer les monuments que les premiers chrétiens, nos pères dans la foi, y ont élevés sur une terre souvent sanctifiée par le sang des martyrs. Et vous y venez à un moment où Nous Nous apprêtons à célébrer le dix-neuvième centenaire de la mort de ces deux grands témoins, Saint Pierre et Saint Paul, les deux coryphées des Apôtres. Permettez-Nous de voir en cet événement un des mystérieux desseins de la divine Providence. Ne venez-vous pas en effet de Thessalonique, cette Eglise qui a eu traditionnellement de si étroites relations avec l’Eglise de Rome? Et n'avez-vous pas célébré récemment le onzième centenaire de deux des fils de votre ville, qui furent, eux aussi, en rapports étroits avec Rome et travaillèrent tant à répandre l’Evangile du Christ, les saints frères Cyrille et Méthode?

Mais plus encore, n’êtes-vous pas les fils de cette Eglise si chère au cœur de Saint Paul, les descendants de ceux qu’il félicitait de «l’activité de leur foi, du labeur de leur charité, de la constance de leur espérance» (1 Thess. 1, 3) et de ce que «leur foi en Dieu s’était répandue de tout côté» (ibid. 1, 8)? Saint Paul était fier de la foi des Thessaloniciens. Et voici qu’au moment où Nous allons rendre hommage au suprême témoignage de la foi de Pierre et de Paul par une année centenaire - que Nous voudrions tout entière orientée vers un réveil, un renouvellement, un approfondissement de la foi da,ns tous et dans chacun des chrétiens - voici que Nous avons la joie de vous recevoir dans Notre maison, vous les fils de cette noble et grande cité. Il y a quelques jours, une lettre de Notre frère très aimé et vénéré, le Patriarche Athénagoras, Nous apprenait qu’il enverrait, pour s’associer aux fêtes de ces prochains jours, une délégation du Patriarcat œcuménique. Vous en êtes un peu comme les précurseurs, et du fond du cœur Nous vous redisons ce que Saint Paul écrivait à vos Pères: Y Que la parole de Dieu que vous avez accueillie reste active en vous» (2 Thess. 3, 13). «Gardez fermement les traditions que vous avez apprises» de Paul (2 Thess. 2, 15) et n’oubliez pas que sur l’amour fraternel, vos pères «n’avaient pas besoin. qu’on leur écrive car ils avaient personnellement appris de Dieu à s’aimer les uns les autres» (cf. 1 Thess. 4, 9).

Comme Nous aimons à le répéter souvent, et comme l’a bien compris la troisième Conférence panorthodoxe de Rhodes, c’est la voie royale de la charité qui nous mènera à retrouver dans la clarté la pleine communion de foi. Vous le dites dans l’admirable liturgie de Saint Jean Chrysostome, avant la récitation du symbole de foi: «Aimons- nous tous les uns les autres, pour que d’un seul cœur nous puissions confesser le Père, le Fils et le Saint-Esprit, Trinité consubstantielle et indivisible».

La charité est le milieu nourricier indispensable à la foi et donc au travail théologique, à votre travail au service du Christ. Que votre pèlerinage à ces hauts lieux de la primitive Eglise renouvelle l’activité de votre foi, intensifie le labeur de votre charité et renforce la constance de votre espérance. C’est ce que Nous vous souhaitons au Nom du Seigneur, en vous demandant de transmettre à votre évêque Mgr Pantaleïmon Nos salutations respectueuses et fraternelles dans la charité du Christ Jésus.

                                



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