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PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì delle Ceneri
12 febbraio 1975

 

La coscienza morale norma suprema di condotta

Le Ceneri: questo è un giorno forte nel calendario liturgico e nella formazione spirituale del cristiano, che incomincia la sua preparazione alla celebrazione del mistero pasquale, mediante l’esercizio della penitenza, della preghiera e delle opere buone, al quale esercizio diamo il nome di quaresima. Noi lasceremo ai riti propri di questo giorno singolare l’esplorazione del suo significato e della sua applicazione alle nostre anime, invitate alla severa e grande scuola quaresimale.

Per quanto riguarda il riflesso di questo giorno sul tema, che  ci siamo prefissi per questo momentaneo colloquio circa la spiritualità dell’Anno Santo, sul tema della nostra rinnovazione religiosa, della nostra « conversione » cristiana, noi ci limitiamo ora a considerare l’urto, la scossa, lo « choc », che l’imposizione delle ceneri, con la sentenza funerea che l’accompagna, intende produrre, non solo per ricordare l’inesorabile ‘ed effimera fragilità della vita umana soggetta naturalmente alla morte, ma per risalire altresì alla causa di questa terribile sorte, come c’insegna S. Paolo, in una delle sue pagine più gravi e più studiate: « per causa del peccato entrò la morte nel mondo » (Rom. 5, 12).

Ritorniamo così ad un tema ricorrente sia nella predicazione, che nella concezione generale della vita cristiana; ed è il tema del peccato. Che cosa è il peccato? È il conflitto della nostra volontà, di esseri liberi e responsabili, ma nello stesso tempo di esseri creati e piccoli, con la volontà sovrana, buona e paterna di Dio. È un’azione sbagliata, vista nel suo aspetto religioso. È l’offesa, volontaria e cosciente, al rapporto che, volere o no, intercorre fra la nostra vita e la legge di Dio, Chi pensa e comprende questa trascendente ripercussione del nostro operare su la vigilante presenza giusta e amorosa di Dio, sa che cosa è il peccato; anzi ne avverte l’insondabile e abissale gravità; ricordate le parole del « figliolo prodigo » nella celebre parabola evangelica, vero specchio del dramma del peccato: « Padre, io ho peccato contro il cielo e contro di Te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio » (Luc 15, 18-21). Il peccato è simultaneamente offesa a Dio e rovina di chi lo commette (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, I-IIæ, 55, 1 et 2). Una rovina, mentre ancora siamo nella vita presente, non totale; l’uomo resta uomo, cioè capace di ragionare, naturalmente inclinato al bene, debilitato però a perseguirlo con forze naturali intatte; l’esperienza del male, che tanti, anche educatori, credono utile alla formazione della coscienza umana, è come una malattia che, potendo, dovremmo risparmiare all’uomo, al giovane specialmente, già infermo per le conseguenze del peccato originale, e ancora inesperto nel ricorso alle risorse della coscienza morale.

Coscienza morale: ecco un altro grande capitolo dell’antropologia, cioè della scienza dell’uomo; un capitolo, ohimé, che l’uomo profano e moderno tenta spesso di lasciare intonso, quando fa l’apologia della coscienza per sottrarsi alle esigenze estrinseche dell’obbedienza, limitando la consultazione della sua coscienza al primo e grande capitolo della coscienza psicologica. La quale, staccata dalla coscienza morale, orientata al riferimento della sua responsabilità religiosa, non è più buona consigliera; essa registra l’esperienza interiore e esteriore delle azioni umane; si contenta delle analisi psicanalitiche, oggi di moda, ma prive di obbligazioni etiche, prive di coscienza morale. Così che il criterio distintivo fra bene e male diventa puramente edonistico, utilitario, estetico, igienico. La coscienza gode d’un ottimismo fallace e pericoloso, simile, nelle sue applicazioni pratiche, a quello di chi non consulta più, o non consulta mai, la vera e propria coscienza umana, e vive senza scrupoli, beato di concedere a se stesso ogni cosa desiderabile e possibile.

Si parla tanto di coscienza, come somma ed unica norma della propria condotta; ma se la coscienza ha perduto la sua luce morale, cioè la sua sensibilità del vero bene e del vero male, sensibilità che non può essere avulsa dal polo dell’Assoluto, dal riferimento religioso, dove ci può condurre? A quali esperienze ci può abusivamente autorizzare? Basterà il codice penale a rendere buoni, onesti e giusti gli uomini? e basterà una correttezza legale? (« ... io sono un galantuomo; io non faccio del male a nessuno; la mia fedina penale è pulita ... »), basterà ad assicurare all’uomo il suo vero eterno destino? E che diremo di quanti hanno soffocato la propria coscienza morale in omaggio ad una propria irrazionale libertà, una libertà passionale, o venale o crudele, o comunque una licenza ribelle alla legge divina? una libertà, una licenza peccatrice? Dio ci scampi da tale abuso della coscienza! Un giorno, quel giorno fatale, del nostro diretto ed esistenziale incontro con Dio, non potremo sentirci rispondere alle nostre estreme istanze di salvezza: « Non ti conosco »? (Cfr. Matth. 25, 12)

La nostra storia si fa drammatica. Chi ha la sapienza e il coraggio di guardarla in faccia, con la coscienza morale, che apre gli occhi sul passato, si sentirà invaso da uno stato di tristezza, di paura, di tormento, caratteristico della nostra scuola spirituale, e ben conosciuto dalla grande letteratura (Cfr. Oreste di Euripide, Macbeth di Shakespeare): il rimorso. È un momento critico ed intenso, al bivio di due strade decisive, rivolte a direzioni contrarie: la disperazione (Cfr. Gen. 4, 3-16; Matth. 27, 3-10); l’umile e pentito abbandono nell’ancora aperta misericordia di Dio (Cfr. Manfredi, in Dante, 11, 3, 120; l’Innominato del Manzoni): quest’ultima è la scelta tipica della quaresima, la scelta dell’Anno Santo. Con la nostra Benedizione Apostolica.


Sei gruppi che affollano oggi l’udienza ci sono tutti egualmente cari, sentiamo tuttavia il dovere di menzionare con speciale rilievo i tremila fedeli della nostra diocesi di Roma, che ieri, nella Memoria liturgica della Madonna di Lourdes, hanno ricordato proprio qui in S. Pietro i pellegrinaggi da essi compiuti alla Grotta di Massabielle.

Vi accogliamo con vivo compiacimento, carissimi figli e figlie: e per il titolo che strettamente vi lega a noi come al vostro Vescovo e Pastore; e per la devozione alla Vergine Santissima, che vi tiene uniti per aver vissuto insieme indimenticabili esperienze di fede e di preghiera nella città privilegiata dei Pirenei. Auspichiamo pertanto che questo duplice carattere abbia sempre il dovuto rilievo nella vostra vita di cristiani: brilli cioè sempre in voi anzitutto l’amore alla vostra diocesi, a questa Roma sacra, che specie nell’Anno Santo è centro di spirituale attrattiva per tutto il mondo, e deve perciò dimostrarsi, come città collocata sul monte (Cfr. Matth. 5, 14), comunità viva di fede, di amore, di esempio, di testimonianza: il vostro impegno quotidiano, insieme con quello di tutte le parrocchie dell’Urbe, garantisca e conservi alla città il suo carattere spirituale, nell’esplicazione coerente e generosa del dovere cristiano. Accanto a questo, l’amore a Maria Santissima, Salus Populi Romani, sia il segno autentico, il suggello genuino della vostra appartenenza fedele a Cristo e alla Chiesa, perché Maria è della Chiesa stessa «singolare membro, . . . figura ed eccellentissimo modello nella fede e nella carità» (Lumen Gentium, 53). Nell’esortarvi a mantenere alta la fiamma della pietà verso di Lei, esprimiamo il particolare voto che voi, ex-pellegrini di Lourdes, sappiate distinguervi nella fedeltà al Rosario mariano, recitandolo nelle vostre famiglie secondo lo spirito da noi indicato nella Esortazione Apostolica «Marialis Cultus» (Marialis Cultus, 52-54; cfr. 42-50) Siamo certi che corrisponderete alla nostra fiducia. A tanto vi conforti la Benedizione Apostolica, che impartiamo con viva benevolenza, a voi e ai vostri cari, in special modo agli ex pellegrini infermi.

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Dopo i saluti in lingua italiana, il Santo Padre rivolge la sua meditazione sull'inizio della Quaresima ai partecipanti all'Incontro internazionale dei responsabili della Pastorale dei Nomadi.

Chers Frères dans l’Episcopat
et chers Fils consacrés à l’Evangélisation des Nomades,

d’un mot jailli du plus profond de notre coeur de Pasteur, Nous encourageons les travaux prometteurs de votre présent Congrès International. Persévérez dans l’aménagement de structures pastorales souples et réalistes. Elles vous permettront de rejoindre plus efficacement le monde si divers et si attachant des Nomades. Entraidez- vous pardessus-tout à vivre le mystère du Verbe Incarné. Lui aussi, selon les paroles de Saint-Jean, a planté sa tente parmi les hommes. Il a accueilli les pauvres avec tendresse et respect. Il a partagé avec eux sa vie et sa lumière divines. Sans jamais perdre votre identité sacerdotale ou religieuse ni le sens exact de votre mission d’Eglise, travaillez dans la joie et l’espérance, à la manière de l’Apôtre Paul.

Votre labeur est très important. En ce temps où l’Eglise ré-évalue sa présence au monde des pauvres, en ce temps où nos frères nomades sont souvent l’objet de discrimination et de propagande néfaste, aidez-les à mieux vivre leurs richesses humaines et spirituelles: leurs joies et leurs souffrances particulières . . . Déjà le Seigneur vous permet de cueillir le fruit de vos efforts: des hommes et des femmes s’éveillent aux responsabilités de leur milieu, et même des vocations se manifestent! Courage et confiance! Avec notre Bénédiction Apostolique.

 

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