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DISCORSO DI PAOLO VI
AI PARTECIPANTI ALLA XXI SETTIMANA NAZIONALE
DI AGGIORNAMENTO PASTORALE

Giovedì, 9 settembre 1971

 

Figli carissimi,

Abbiamo accolto con spontanea gioia, nonostante la pressione delle sempre risorgenti occupazioni, la domanda che ci è stata rivolta di ricevere in udienza i partecipanti alla XXI Settimana Nazionale di Aggiornamento Pastorale. Ringraziamo dell’opportunità che ci è così offerta, di incontrare una numerosa e qualificata schiera di operatori pastorali, e di porgere a voi, giunti da ogni parte d’Italia, insieme al Nostro cordiale e riverente saluto, l’assicurazione dell’interesse e della stima con cui Noi seguiamo i vostri lavori.

Già di per sé la XXI edizione di questa Settimana Nazionale di Aggiornamento Pastorale è un segno della buona e saggia efficienza dell’iniziativa, che da tempo ormai è diventata un punto di riferimento per il clero, i religiosi e il laicato italiano in materia pastorale. Ma quest’anno lo è ancor più dal momento che così numerosi sono gli organismi operanti nei vari settori dell’apostolato che vi partecipano. Ne esprimiamo la Nostra viva compiacenza al Centro di Orientamento Pastorale e all’Istituto Ricerche Applicate Documentazioni e Studi, che hanno promosso la Settimana, e in particolar modo al caro e venerato Mons. Grazioso Ceriani, che volentieri vediamo qui presente, e al cui zelo va il merito non solo di aver dato l’avvio a questi provvidi incontri, ma di averne stimolato altresì il continuo incremento.

Siete stati chiamati a discutere insieme sul tema «Diocesi, parrocchia e comunità di base»: argomento quanto mai impegnativo, specialmente in questo momento così carico di tensioni e problemi, ma anche ricco di promesse e speranze per la Chiesa in genere e per la Chiesa italiana in particolare. L’importanza del tema proposto, come pure la gravità e complessità dei problemi che a tale tema si riferiscono, esigerebbero che anche la Nostra parola entrasse a lungo e nel vivo dell’argomento stesso. Non è questa la Nostra intenzione, anche perché il tempo non ce lo consentirebbe. Ci limiteremo perciò a richiamare la vostra attenzione, sia pur brevemente, sui punti fondamentali intorno ai quali si articolano le vostre discussioni.

Come è chiaramente indicato dal tema del Convegno, i vostri lavori giustamente prendono l’avvio da un esame approfondito della concezione di Chiesa particolare o locale, con cui coincide concretamente il concetto di Diocesi, cioè: «Una porzione del Popolo di Dio affidata alle cure pastorali del Vescovo coadiuvato dal presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da questo tenuta unita nello Spirito Santo mediante il Vangelo e l’Eucaristia, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente ed operante la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica ed apostolica» (Christus Dominus, 11). Di fronte a tendenze innovatrici e discutibili circa il senso della formula «Chiesa locale» così divulgata dopo il Concilio, riteniamo più che mai necessario non distaccarci dalla definizione data dal Concilio stesso, dalla quale possiamo desumere che la Chiesa locale o particolare è localmente una porzione dell’unica Chiesa universale, ed una manifestazione locale (o particolare) della comunione universale propria della Chiesa. Si dovrà quindi parlare di Chiesa locale non come di «frazione di Chiesa» che si aggiunge ad altre «frazioni» per formare la Chiesa universale, quasi a modo di somma aritmetica; né come di Chiesa autonoma ed autarchica, giuridicamente chiusa in se stessa o, peggio, contrapposta alla Chiesa universale, con prerogative che sono proprie di questa; ma bensì come di espressione autentica (anche se spesso con caratteri originali) della Chiesa unica e cattolica, autorizzata e garantita dal rapporto con la compagine organica e gerarchica e con l’animazione dello Spirito Santo donde vive l’intera Chiesa. È chiaro che da questa genuina concezione dovrà partire ogni discorso per una pastorale valida, ed è qui che dovrà trovarsi la soluzione dei problemi che riguardano autentici rinnovamenti di struttura e di azione.

Ma ciò che più direttamente importa lo scopo della vostra Settimana è l’aspetto pastorale della Chiesa locale. Al riguardo, dal momento che tanto si parla di cambiamento di «strutture» della Chiesa al fine di meglio adeguarle alle nuove acquisizioni della vita ecclesiale e della società, riteniamo che non sia superfluo confermare che le strutture della Diocesi come comunità di salvezza con a capo il Vescovo, successore degli Apostoli, rimarranno nel diritto canonico nel loro disegno tradizionale.

Ed allora quale significato pastorale si dovrà ad esse attribuire, quale valore sviluppare per renderle più efficienti, e quale eventuale deformazione o decadenza saranno da rimuovere? Voi avete certamente già fatto oggetto di studio questo aggiornamento da apportare alla Diocesi. A Noi ora basterà accennare soltanto ad alcuni aspetti particolari.

Innanzi tutto la dimensione territoriale. È vero che il concetto di Diocesi prescinde di per sé da tale aspetto. È un fatto, però, che nella stragrande maggioranza dei casi la Diocesi è contenuta entro precisi confini territoriali, i quali vengono ad assumere un’incidenza notevole nella realizzazione delle finalità proprie della Diocesi stessa. Per questo, obbedendo a precise indicazioni del Concilio, è in corso in Italia lo studio per la revisione delle circoscrizioni territoriali. Geografia e pastorale così sono realtà che devono essere studiate insieme; e per geografia intendiamo un complesso di elementi etnici, storici, sociali ed economici, come pure elementi statistici e anagrafici. Ma è chiaro che questa analisi, nel quadro dell’azione pastorale, non ha altro valore se non in funzione di agevolare l’esercizio del ministero, di meglio identificare le responsabilità proprie della cura d’anime, e di contribuire alla migliore formazione del «sensus ecclesiae» in un determinato territorio. Non altrimenti devono intendersi altri esperimenti in corso di grande importanza, come la tendenza a raggruppare le diocesi troppo piccole, spesso d’origine feudale o comunale, e la tendenza a suddividere in diocesi suffraganee o in delegazioni vescovili le grandi concentrazioni urbanistiche.

Orbene da queste esperienze in corso emergono alcune direttive che devono essere ben tenute presenti. Anzitutto la necessità di valorizzare la figura, la funzione e l’autorità del Vescovo, non già nel suo aspetto esteriore - il che urterebbe la sensibilità dell’uomo d’oggi - ma nel suo significato spirituale, morale, avente il carisma primo dell’apostolicità. Senza questa valorizzazione della potestà ministeriale della Chiesa, non si potrà parlare di efficiente vita pastorale. Dal Vescovo infatti «deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo» (Sacrosanctum Concilium, 41); egli è l’economo della grazia del supremo sacerdozio (Cfr. Lumen gentium, 26); è il maestro autentico che proclama con autorità la parola di Dio riguardante la fede e i costumi (Ibid., 25). L’altra linea direttiva che deve essere ben ricordata è la necessità della più stretta, organica, personale collaborazione di tutte le componenti della Diocesi col proprio Vescovo. La funzione pastorale di questi, per quanto preminente, non è né solitaria né separata nel suo esercizio concreto, ma abbisogna dell’apporto di tutti i suoi membri. Apporto che i sacerdoti soprattutto devono dare, oltre che per un motivo funzionale o pratico, anche e specialmente per una motivazione teologica che il Concilio enuncia con queste parole: «Per ragione dell’Ordine sacro e del ministero tutti i sacerdoti, sia diocesani che religiosi, sono associati al Corpo episcopale e, secondo la loro vocazione e grazia, servono al bene di tutta la Chiesa» (Ibid., 28). Ecco allora il Consiglio Presbiterale e l’antico, ma venerando Capitolo; ed ecco altresì il Consiglio Pastorale, mediante il quale è messa in luce la funzione ecclesiale dei laici, non solo come destinatari del ministero pastorale, ma anche come fattori attivi di esso, non già per sola concessione gerarchica, ma per vocazione nativa dei laici stessi e per esigenza intrinseca della Chiesa.

Il discorso fin qui tenuto porta per naturale conseguenza a parlare della parrocchia, che è come la cellula viva della Diocesi (Cfr. Apostolicam actuositatem, 10), perché è la comunità organizzata localmente sotto la guida di un pastore che vi rende presente il Vescovo. Si parla oggi di crisi della parrocchia e si arriva a pensare da parte di alcuni all’abolizione di questa istituzione. Nonostante le crisi vere o presunte da cui la parrocchia sarebbe colpita, non si può certamente ammettere che si tratta ormai di una istituzione superata. Anche nelle città di densissima popolazione, non si può prescindere dalla delimitazione territoriale. Da analisi molto accurate condotte dalla S. Congregazione per il Clero circa la revisione di questo istituto canonico, si è giunti alla conclusione che la parrocchia deve essere mantenuta, anzi perfezionata, specialmente favorendo la vita comune del clero, l’articolazione delle diverse forme di assistenza che si svolge nei quartieri, presso i vari gruppi sociali, a favore di categorie omogenee, particolarmente della gioventù, del lavoro, delle varie professioni, degli infermi, dei carcerati, dei disoccupati. Dovrà essere perfezionata altresì con l’integrazione della cura pastorale di parrocchie vicine e di parrocchie personali riguardanti per esempio, i militari, i fedeli di riti diversi, i profughi, i turisti.

Il discorso sulla azione pastorale organica della Chiesa locale e della parrocchia non può prescindere inoltre dall’esame di un fenomeno che si sta oggi sempre più sviluppando anche in Italia: il fenomeno dei gruppi ecclesiali, diversamente denominati, che voi avete esplicitamente collocati nel titolo e negli impegni di studio della Settimana come «comunità di base».

Non ignoriamo i pericoli ai quali sono facilmente esposte queste nuove forme comunitarie, quello soprattutto di una tendenza a staccarsi dalla Chiesa istituzionale per l’opposizione alle sue strutture esterne, in nome della semplicità e dell’autenticità della vita vissuta nel senso dell’Evangelo.

Ma Noi riteniamo che sia necessario compiere uno sforzo per assistere questi gruppi, per comprenderne le tensioni dinamiche e i valori positivi che possono contenere, onde inserirli nella comunione ecclesiale della Chiesa locale. Integrati così, questi gruppi potranno aiutare a rianimare la tendenza associativa, la quale oggi sembra aver perduto l’attrazione degli anni scorsi, e soprattutto a riscoprire e ricostruire il senso della comunione ecclesiale, come vuole il Concilio: e in tal modo rendere servizio efficace alla pastorale della Chiesa locale.

Anche la «domus ecclesiae», forma originaria e primitiva della «congregatio fidelium», può avere una sua funzione in date situazioni: dove, ad esempio, la vita pubblica della Chiesa è impedita, ovvero occasionalmente dove una circostanza speciale richiama familiari e conoscenti ad un momento di preghiera, ovvero di istruzione e di studio. Non si deve tuttavia, senza ragione e senza la debita autorizzazione, favorire questo frazionamento della comunità ecclesiale e assecondare interpretazioni personali della vita religiosa. Bisognerà piuttosto infondere in coloro che hanno sensibilità spirituale e religiosa il gusto dell’interiorità personale, del contatto con Dio insieme a quello della carità esteriore, del celebrare insieme i misteri della fede e la liturgia.

Abbiamo voluto, figli carissimi, affidare alla vostra attenzione i punti che abbiamo creduto utile toccare, nella fiducia che il vostro zelo, la vostra saggezza e il vostro spirito di servizio verso la Chiesa sappiano trovare le vie e i modi più idonei per assicurare ogni desiderato incremento e progresso della vita religiosa della Nazione Italiana. E mentre a questo scopo accompagniamo i lavori del vostro Congresso con la Nostra fervida preghiera, a tutti di cuore impartiamo la Nostra affettuosa Apostolica Benedizione.



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