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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE

Chi non ha nome

Giovedì, 20 marzo 2014

 

(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.065, Giov.-Ven. 20-21/03/2014)

 

C’è una parola «più che magica», capace di aprire «la porta della speranza che neppure vediamo» e restituire il proprio nome a chi l’ha perduto per aver confidato solo in se stesso e nelle forze umane. Questa parola è «Padre» e va pronunciata con la certezza di sentire la voce di Dio il quale ci risponde chiamandoci «figlio». È una meditazione quaresimale che richiama all’essenzialità della fede quella proposta da Papa Francesco nella messa celebrata giovedì 20 marzo nella cappella della Casa Santa Marta.

L’invito a «confidare sempre nel Signore» viene, ha detto il Pontefice nell’omelia, dai testi della liturgia. Infatti «la prima lettura di oggi (Geremia 17, 5-10) incomincia con una maledizione: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”». Anche «in altri passi della Bibbia c’è la stessa maledizione, forse con altre parole», come per esempio: «Maledetto l’uomo che confida in se stesso». Sempre viene definita «maledetta la persona» che confida solo nelle proprie forze, «perché porta dentro di sé una maledizione».

Invece, ha proseguito il Pontefice rimarcando «la contrapposizione», è «benedetto l’uomo che confida nel Signore», perché — come si legge nella Scrittura — «è come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti».

Proprio «questa immagine — ha spiegato — ci fa pensare a quelle parole di Gesù sulla casa: è felice l’uomo che edifica la sua casa sulla roccia, sul sicuro. Invece è un infelice quello che edifica sulla sabbia: non ha consistenza». Dunque «la parola di Dio oggi ci insegna che soltanto nel Signore è la nostra sicura fiducia: altre fiducie non servono, non ci salvano, non ci danno vita, non ci danno gioia». Anzi, «ci danno morte, siccità».

È un insegnamento chiaro che ci trova tutti d’accordo, ha puntualizzato il Pontefice. «Ma il nostro problema è che il nostro cuore è infido», come dice la Scrittura. E così, anche se sappiamo di sbagliare, comunque «ci piace confidare in noi stessi o confidare in quell’amico o confidare in quella situazione buona che ho o in quella ideologia», assecondando «quella tendenza» a decidere noi stessi dove porre «la nostra fiducia». Con la conseguenza che «il Signore resta un po’ da parte».

Ma, si è chiesto il Papa, «perché è maledetto l’uomo che confida nell’uomo, in se stesso? Perché — è stata la risposta — quella fiducia lo fa guardare soltanto a se stesso; lo chiude in se stesso, senza orizzonti, senza porte aperte, senza finestre». Finisce così per essere «un uomo chiuso in se stesso» e «non avrà salvezza», perché «non può salvare se stesso».

Il Pontefice ha poi fatto riferimento al passo evangelico di Luca (16, 19-31), che racconta la storia di «un uomo ricco che aveva tutto, indossava vestiti di porpora, mangiava tutti i giorni grandi banchetti, e si dava alla buona vita». Ed «era tanto contento che non si accorgeva che alla porta della sua casa, coperto di piaghe, c’era un tale Lazzaro: un poveretto, un barbone, e come un buon barbone con i cani». Lazzaro «era lì, affamato, e mangiava soltanto quello che cadeva dalla tavola del ricco: le briciole». E, ha aggiunto, «forse quando Gesù raccontava questo, si è ricordato della cananea, di quella donna che aveva chiesto la salute per la figlia: chiedeva soltanto le briciole» che si danno ai cagnolini.

Il brano del Vangelo, ha detto il Santo Padre, propone una riflessione: «Noi sappiamo il nome del barbone: si chiamava Lazzaro. Ma come si chiamava quest’uomo, il ricco? Non ha nome!». Proprio «questa è la maledizione più forte» per la persona che «confida in se stessa o nelle forze o nelle possibilità degli uomini e non in Dio: perdere il nome!». Tanto che alla domanda «come ti chiami?» risponde non con il proprio nome ma con «il conto numero tale nella banca tale», oppure indicando «tante proprietà, tante ville» o «le cose, gli idoli».

E «guardando queste due persone» proposte nel Vangelo — «il povero che ha il nome e che confida nel Signore e il ricco che ha perso il nome e che confida in se stesso» — noi «diciamo: è vero, dobbiamo confidare nel Signore!». Invece «tutti noi abbiamo questa debolezza, questa fragilità di mettere le nostre speranze in noi stessi o negli amici o nelle possibilità umane soltanto. E ci dimentichiamo del Signore». È un atteggiamento che ci porta lontano dal Signore, «sulla strada della infelicità», esattamente come il ricco del Vangelo che «alla fine è un infelice perché si è condannato da se stesso». E questo è, dunque, il significato autentico dell’espressione biblica: «Benedetto quello che confida nel Signore; maledetto quello che confida in se stesso o nelle possibilità umane».

Si tratta di una meditazione particolarmente adatta alla quaresima, ha puntualizzato il Papa. Così «oggi ci farà bene domandarci: dov’è la mia fiducia? È nel Signore o sono un pagano che confido nelle cose, negli idoli che io ho fatto? Ho ancora un nome o ho incominciato a perdere il nome e mi chiamo “io”?», con tutte le varie declinazioni: «me, con me, per me, soltanto io: sempre nell’egoismo, io!». Questo, ha ribadito, è un modo di vivere che certo «non ci dà salvezza».

Riferendosi ancora al Vangelo, Papa Francesco ha indicato che, nonostante tutto, «c’è una porta di speranza per tutti quelli che si sono piantati nella fiducia nell’uomo o in se stessi, che hanno perso il nome». Perché «alla fine, alla fine, alla fine sempre c’è una possibilità». E lo testimonia proprio il ricco, che «quando si è accorto che aveva perso il nome, aveva perso tutto, alza gli occhi e dice una sola parola: “Padre!”. La risposta di Dio è una sola parola: “Figlio!”». E così è anche per tutti coloro che nella vita puntano ad «avere fiducia nell’uomo, in se stessi, finendo per perdere il nome, per perdere questa dignità: c’è ancora la possibilità di dire questa parola che è più di magica, è di più, è forte: “Padre!”». E sappiamo che «lui sempre ci aspetta per aprire una porta che noi non vediamo. E ci dirà: “Figlio!”».

A conclusione il Pontefice ha chiesto «al Signore la grazia che a tutti noi ci dia la saggezza di avere fiducia soltanto in lui e non nelle cose, nelle forze umane: soltanto in lui». E a chi perde questa fiducia, Dio conceda «almeno la luce» di riconoscere e di pronunciare «questa parola che salva, che apre una porta e gli fa sentire la voce del Padre che lo chiama: figlio».

 



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