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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO INTERNAZIONALE
DEL «MOVIMENTO UMANITÀ NUOVA»

Domenica, 20 marzo 1983

 

Carissimi fratelli e sorelle!

1. Vi esprimo tutta la mia gioia nel trovarmi qui oggi in mezzo a voi, che offrite un’immagine tanto palpitante e persuasiva della Chiesa, e di quell’autentica comunione interpersonale che essa, pur nella molteplicità delle origini e delle condizioni sociali dei suoi membri, permette di sperimentare. “Ecco quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 133, 1), poiché la promessa di Gesù è sicura: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). E io so che tutti voi, tutti noi qui presenti siamo riuniti nel suo nome. Dunque, facciamo spazio a lui, alla sua misteriosa e confortante presenza, al suo Spirito di verità e di forza, che tutti ci unisce in un unico vincolo di fede e di amore.

Voglio innanzitutto ringraziare la signorina Chiara Lubich per le parole rivoltemi a nome di tutti voi, e intendo manifestarle il mio vivo compiacimento per il provvidenziale accrescersi del Movimento dei Focolari non solo in estensione ma soprattutto in intensità.

Nello stesso tempo, saluto di cuore voi tutti, che siete convenuti a Roma, sede di Pietro, tanto numerosi. Nella varietà della vostra provenienza geografica si rispecchia l’universalità della Chiesa, che si realizza a tutte le latitudini con una inesauribile e sempre seducente spinta al superamento di tutte le barriere naturali e storiche. E nell’estrema diversità delle vostre professioni - poiché rappresentate le più svariate categorie sociali - si pone in evidenza la genuina fraternità della Chiesa, nella quale, come autorevolmente si esprime l’apostolo Paolo, “non esiste più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).

Sono lieto, in particolare, di prendere contatto con il “Movimento Umanità Nuova”, da voi rappresentato. Il suo scopo di dare un’anima cristiana a tutti gli strati della società contemporanea, concorrendo al rinnovamento di uomini e di strutture, non può che incontrare la mia approvazione e il mio incoraggiamento. Occorre, infatti, che l’iniziativa di amore vivificante, partita dal Padre celeste e culminante in Gesù Cristo, si estenda e quasi dilaghi a dimensione universale, per coinvolgere tutta l’umanità in una nuova creazione, in una vera “palingenesi” (Tt 3, 5; Mt 19, 28). C’è forse un ideale più grande, più entusiasmante, più divino e insieme più umano?

Proprio su questo progetto, che si direbbe utopico se non fosse concepito dalla volontà salvifica di Dio stesso, vorrei fare qualche considerazione.

2. La Lettera agli Efesini si apre con questi solenni ed esultanti accenti: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo . . . predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1, 3. 5).

Dio-Amore ha voluto stabilire con l’uomo un rapporto da padre a figlio. Per questo interviene nella storia di lui, personale e collettiva, in diversi modi.

Un modo particolare di presenza è il patto che egli ha stipulato con Israele, liberandolo dall’oppressione e costituendolo come popolo. Questa paternità verso Israele è come un segno della paternità più ampia e realissima, che egli intende dimostrare all’umanità intera e che manifesta compiutamente nel dono che ci fa del Figlio: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (Gv 3, 16).

È un Padre premuroso che si rivela; un Padre che si interessa non solo della nostra salvezza spirituale: egli, che veste i gigli del campo e vigila sulla sorte del più piccolo fra gli uccelli (cf. Mt 6, 26-29), ha cura anche dei problemi materiali quotidiani dell’uomo (cf. Mt 6, 31-34).

Questa universale paternità divina si specifica ulteriormente in rapporto ai battezzati, in quanto essi, partecipando all’unica e incomparabile filiazione di Gesù (cf. Gal 4, 1-7; Col 1, 13), diventano realmente a nuovo titolo figli di Dio (cf. 1 Gv 3, 1). Ne deriva che, essendo Cristo “primogenito fra molti fratelli” (Rm 8, 29), tutti coloro che sono inseriti in lui si ritrovano ad essere fratelli fra di loro (cf. Mt 23, 8) e in più stanno sotto una nuova esigenza di amore nei confronti di tutti gli uomini (cf. Mt 5, 43-48).

Il Vangelo, quindi, non è solo una notizia che riguardi il rapporto tra Dio e l’uomo, ma riguarda anche i rapporti degli uomini fra di loro. Al comandamento di amare Dio con tutto se stesso è affiancato e dichiarato simile quello di amare il prossimo come se stesso (cf. Mt 22, 39). È un amore che deve realizzarsi nella reciprocità, e che va al di là di ogni misura umana. Gesù ci chiede di perdonare e amare il nemico, ponendoci come modello la perfezione del Padre (cf. Mt 5, 48); Gesù ci indica come misura dell’amore reciproco tra fratelli il suo stesso amore, che lo porta a dare la vita: “Questo è il mio comandamento; che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (Gv 15, 12-13).

Il Vangelo, dunque, non annuncia una realtà che debba rimanere intimisticamente chiusa nelle anime dei credenti, ma si traduce immediatamente nella trasformazione radicale dei loro rapporti interpersonali, in un rinnovamento della rete delle relazioni sociali. Il Vangelo non è vissuto veramente se non produce, nei seguaci del Cristo, un capovolgimento del loro modo di vivere nel concreto della società.

3. Nel rivelare all’uomo la sua figliolanza divina, il Vangelo rivela all’uomo anche la risposta, che egli deve dare all’amore del Padre per vivere da figlio. Questa risposta è duplice, verso Dio stesso e verso l’altro uomo.

La prima risposta, verso il Padre, dice che cosa significa vivere da figlio, quale comportamento mettere in atto, così che la bontà del Padre si manifesti nella vita dei figli. “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6, 33): allora l’amore del Padre darà ai suoi figli il centuplo e la vita eterna (cf. Mc 10, 29-30).

La seconda risposta è verso il fratello, nel quale Gesù stesso si identifica (cf. Mt 25, 31-46). È una risposta, per la cui attuazione il Cristo ci indica molteplici vie: le sue parole, però, conducono tutte a quella centrale, che è il comandamento nuovo, la condizione affinché l’unità, che è essenza del Vangelo (cf. Insegnamenti di Paolo VI, XI [1973], 56), sia vissuta fra gli uomini, “Il Signore Gesù quando prega il Padre, perché “tutti siano uno, come anche noi siamo uno” (Gv 17, 21-22) mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine fra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità” (Gaudium et Spes, 24).

La paternità di Dio, che ci viene rivelata e partecipata dal Cristo nello Spirito, è il rapporto stesso tra il Padre e il Figlio. Allora il dono del Padre, che ci viene fatto nel Cristo, esige che tutta la vita umana, compresa la struttura profonda del rapporto sociale, sia in tensione verso la sua sorgente e verso il suo dover essere, che è la vita stessa della Trinità. Cristo assunse l’umanità e la sua reale condizione, eccetto il peccato. Nel fare questo, egli stesso unì la vocazione immanente e quella trascendente di tutti gli uomini. I Padri della Chiesa ripetevano sovente: “Ciò che non è assunto [dal Cristo] non è salvato” (S. Gregorio di Nazianzo, Epist. III ad Cledonium): il rapporto sociale è assunto - e salvato - dal Cristo nel suo corpo mistico.

La sfida per il cristiano, allora, è di tradurre questa “socialità redenta, in tutte le dimensioni della vita umana, come fecero i primi cristiani, i quali in mezzo alla società, in cui si trovavano a vivere, portarono e mostravano un nuovo stile di vita, un’autentica solidarietà fraterna, un nuovo tipo di società, una comunità, nella quale agivano le radici trinitarie della convivenza umana.

4. I seguaci di Cristo, per essere fedeli alla loro vocazione, devono dare prova concreta che il Vangelo è vita sia per le anime che per l’intera società. La comunione dei fedeli nello Spirito deve prendere forma in una comunità tale che, spezzando l’unico Pane di vita, condivida anche il pane della terra, operando con forme concrete di incarnazione, secondo le situazioni sociali e culturali, in cui i cristiani si trovano a vivere. Di conseguenza, l’unità vissuta come corpo mistico del Cristo non farà forse dei cristiani coloro che rivelano e mettono in evidenza quel tipo di solidarietà, per la quale soltanto si ha un vero corpo sociale?

La libera articolazione dei molti secondo tutta l’ampiezza delle espressioni umane, ma nell’ambito dell’unico corpo di Cristo, dimostra luminosamente la possibilità della pace più profonda nella convivenza civile e internazionale. La carità, che compagina tra loro le membra del corpo di Cristo, modellata sulla misura dell’amore misericordioso di Dio, non può non indicare i più giusti e fecondi meccanismi per il dialogo della pace.

Il comandamento dell’amore, nella luce dell’universalità della vocazione cristiana (cf. Gal 3, 28), si estende allora alla comunità dei popoli, rendendo possibile amare non solo la patria, ma la stessa identità altrui come la propria.

La libera condivisione dei beni tra i membri della comunità cristiana, là dove viene evangelicamente praticata, mostrerà efficacemente la possibilità della partecipazione ai beni della terra da parte di tutti i membri della comunità politica, a livello nazionale e internazionale; si contribuirà così a trovare quei “meccanismi e strumenti di autentica partecipazione nel campo economico e sociale, con la possibilità offerta a tutti di accedere ai beni della terra, con la possibilità di realizzarsi nel lavoro; in una parola, con l’applicazione della dottrina sociale della Chiesa”, come ho detto nel mio recente viaggio in America Centrale (Giovanni Paolo II, Homilia ad Missam in “Metro Centro” Sancti Salvatoris celebrata, 7, 6 marzo 1983).

La piena realizzazione dell’uomo, diventato membro del corpo di Cristo, diventa allora modello per il riconoscimento della dignità dell’uomo, con i suoi diritti e i suoi doveri, all’interno del corpo sociale.

Ma già in Maria santissima questo progetto è concretizzato, ed ella stessa ce ne dà, nello Spirito Santo, come la “magna charta”. In particolare, “il Magnificat è lo specchio dell’anima di Maria. In questo poema culmina la spiritualità dei poveri di Jahvè e il profetismo dell’antica alleanza. È il canto che annuncia il nuovo Vangelo di Cristo, è il preludio del Discorso della Montagna. Maria ci si manifesta qui vuota di sé, ponendo tutta la sua fiducia nella misericordia del Padre. Nel Magnificat si presenta come modello “per coloro che non accettano passivamente le avverse circostanze della vita personale e sociale”, né sono vittime della “alienazione”, come si dice oggi, ma proclamano con lei che Dio è “vendicatore degli umili” e, se ne è il caso, «rovescia i potenti dal trono» . . .” (Giovanni Paolo II, Allocutio in Sanctuario Zapopán habita, 4, 30 gennaio 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 291).

5. Carissimi fratelli e sorelle! Voi e il vostro Movimento siete chiamati in special modo a rendere questa incisiva testimonianza. In comunione con tutta la Chiesa e con i suoi legittimi Pastori, voi dovete tenere alta la luce del Vangelo, come città sul monte, come lucerna sul moggio (cf. Mt 5, 14-15). Sappiate mantenere sempre inalterato l’entusiasmo del vostro impegno, congiungendolo costantemente all’umiltà di colui che sa che chi semina non sempre miete e che, anzi, quello che si ha la santa fortuna di mietere spesso dipende da una semina fatta da altri, come opportunamente ci ricorda il Signore (cf. Gv 4, 36-38).

Date, quindi, alla Chiesa un salutare esempio di ascolto incessante della Parola di Dio, di preghiera, di comunione vicendevole, di gioia spirituale, di profondo rispetto per i carismi altrui, di inserimento armonioso e fruttifero nella grande compagine del corpo di Cristo, in una parola, di autentica maturità cristiana.

Ho visto dal programma dei vostri lavori che avete trascorso una giornata molto intensa. Soprattutto, la molteplicità delle voci che si sono susseguite hanno toccato un ventaglio amplissimo di problemi, di ambienti, di situazioni, dove è necessario deporre il seme trasformante del Vangelo. Chissà quanti stimoli avete ricevuto, quanti propositi avete formulato, quale generosa disponibilità avete rinnovato.

Che il Signore illumini, confermi, purifichi e corrobori le vostre menti e i vostri cuori. Da parte mia, vi assicuro uno speciale ricordo nella preghiera. Siate certi che seguo la vostra attività e che da voi mi aspetto molto sul piano di una feconda testimonianza evangelica “per una nuova umanità”, secondo il tema del vostro Convegno.

E, insieme al mio affetto, vi accompagni sempre la benedizione apostolica, che sono lieto di impartirvi di gran cuore e che amo estendere ai vostri cari, ai vostri amici e a tutti coloro che incontrerete sul vostro cammino per le strade del mondo.

 

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