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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
A SUA SANTITÀ MORAN MAR IGNATIUS ZAKKA I IWAS,
PATRIARCA SIRO D'ANTIOCHIA

Giovedì, 21 giugno 1984

 

Vostra Santità.

L’amore di Dio che “è stato anche riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5), ci permette di incontrarci come fratelli durante la vostra visita alla Chiesa di Roma e mi dà la grande gioia di ricevervi. È in quest’amore del Signore che con tutto il cuore io vi do il benvenuto.

Quale osservatore del Concilio Vaticano II voi avete incontrato il mio predecessore Giovanni XXIII. Voi accompagnavate Mar Ignatius Jacoub III quando venne a far visita a Paolo VI, né io dimentico il nostro primo incontro. Ma la vostra presenza qui ora ha un’importanza nuova e particolare. Innanzitutto, io do il benvenuto nella vostra persona al capo dell’antichissima Chiesa siriana che ha le sue radici nella comunità apostolica di Antiochia. Poiché, secondo il modello del Buon Pastore, il vescovo è intimamente legato al suo gregge, nel salutarvi io saluto tutti i vostri fedeli. A voi, a sua Beatitudine il Catholicos, agli illustri rappresentanti della vostra Chiesa che sono con voi, al clero e a tutto il popolo rivolgo un cordiale e fraterno saluto, pieno di stima per la vostra Chiesa, la cui storia è così gloriosa, sebbene segnata dalla sofferenza, per le sue tradizioni di teologia, liturgia, spiritualità e disciplina e per la coraggiosa testimonianza che rende oggi alla croce e alla risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo.

C’è un’altra ragione che aumenta la nostra gioia e dà particolare importanza a questo momento. La vostra visita rientra nella serie iniziata dal vostro venerato predecessore, il patriarca Mar Jacoub III, che mirava a ricreare i vincoli tra le nostre Chiese, deterioratisi fino al punto della separazione e dell’estraneità reciproca. Ora vi incontro qui a Roma come patriarca della Chiesa siro-ortodossa. Voi venite per contribuire ad accelerare il progresso verso la piena comunione tra di noi. Voi sapete quanto questo desiderio sia condiviso da me e dal solenne impegno che la Chiesa cattolica ha reso nel Concilio Vaticano II per entrare pienamente e attivamente nel movimento ecumenico. Per dare espressione pratica a questo desiderio del quale lo Spirito Santo ci ha colmati, siamo in grado in quest’occasione di fare insieme una dichiarazione congiunta della nostra comune fede in Cristo, il Figlio di Dio che mediante lo Spirito Santo si è fatto uomo prendendo carne dalla vergine Maria. Così noi progrediamo realmente sulla via dell’unità, e speriamo che, avendo confessato insieme Gesù Cristo vero Dio e vero uomo come nostro unico Signore, egli ci darà la grazia di superare le divergenze che rimangono e che impediscono la piena comunione canonica ed eucaristica tra di noi. Benediciamo Dio per quanto abbiamo già riguadagnato in fraternità e per i progressi che abbiamo fatto insieme.

Poiché il Signore Gesù Cristo ha pregato per l’unità dei suoi, “perché il mondo creda” (Gv 17, 21), e ha dato se stesso perché tutti gli uomini potessero essere riconciliati l’un l’altro e col Padre, noi dobbiamo essere sempre i suoi strumenti disponibili al ristabilimento dell’unità visibile tra i cristiani e per la pace tra tutti i popoli.

“La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e ognuno secondo la propria virtù, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici” (Unitatis Redintegratio, 5). I fedeli delle nostre Chiese dovrebbero incontrarsi ancora di più, imparare a conoscersi meglio e rendere insieme testimonianza al Vangelo di Cristo. Le possibilità della comune testimonianza nella preghiera, nella solidarietà, nell’aiuto reciproco e nel servizio a coloro che sono nel bisogno, non sono state ancora sufficientemente sfruttate. Qui il clero delle nostre Chiese può avere un’influenza decisiva. Già in molti luoghi c’è una collaborazione pastorale in risposta ai bisogni dei fedeli. Vorrei che questo si sviluppasse dovunque con coraggio, fiducia e rispetto. Per quanto riguarda le ricerche teologiche e storiche, esse hanno già prodotto apprezzabili risultati, particolarmente nel quadro di incontri della Fondazione pro-Oriente tra i rappresentanti della Chiesa cattolica e le antiche Chiese orientali. Dovremmo continuare questi incontri affinché essi segnino nuovi progressi per la gloria di Dio.

Se io parlo così della necessità urgente di affermare insieme la nostra comune vocazione all’unità, non è perché le nostre Chiese sono interessate esclusivamente ai loro problemi. Cristo è la luce delle nazioni ed è per rendere testimonianza alla sua luce che i cristiani dovrebbero sempre fare la sua volontà. Il mondo ha bisogno del messaggio di pace e della realtà di salvezza portata da Cristo. Alcuni fedeli delle nostre Chiese vivono in regioni devastate dalla guerra e dalla violenza. In gravi circostanze essi sono chiamati a vivere le Beatitudini del Vangelo e ad essere operatori della riconciliazione. I miei pensieri e la mia preghiera si volgono a loro in questo momento. Che Dio sproni i governi delle nazioni in conflitto affinché l’odio sia bandito e si stabilisca una solida concordia tra i popoli.

Nonostante la forza dell’amore fraterno che ci unisce, spesso noi ci sentiamo deboli e indifesi di fronte a tanti bisogni e a tanta sofferenza; ma non dobbiamo scoraggiarci. Noi fissiamo i nostri occhi sul “pioniere della nostra fede” e sappiamo che siamo circondati da un gran numero di testimoni (cf. Eb 12, 1-2) che sono i nostri padri nella fede, i santi e i martiri che intercedono per noi. Essi hanno pregato e combattuto per la fede, per l’unità della Chiesa e per l’amore tra i cristiani. Vivendo ora in Cristo, ci sostengono e ci attraggono a loro.

Vostra Santità, vi ringrazio sinceramente per la vostra visita. So che la vostra permanenza in questa città è anche un pellegrinaggio al luogo del martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo, la cui memoria è molto cara alla Chiesa di Antiochia come lo è a quella di Roma. Grazie alla loro intercessione Dio benedica noi, il nostro clero e tutti i fedeli delle nostre Chiese.

 

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