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  DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II 
AGLI OFFICIALI E AGLI AVVOCATI DEL TRIBUNALE
DELLA ROTA ROMANA  IN OCCASIONE DELL
’APERTURA
DELL’ANNO GIUDIZIARIO

Venerdì, 10 febbraio 1995

 

1. LE SONO VIVAMENTE GRATO, Monsignor Decano, per le espressioni con cui si è fatto interprete dei sentimenti augurali del Collegio dei Prelati Uditori e degli Officiali del Tribunale della Rota Romana, come pure dei componenti dello Studio Rotale e degli Avvocati Rotali. Tutti saluto con affetto. 

Sono sempre molto lieto di accogliervi in occasione dell’apertura dell’Anno Giudiziario, che mi offre la gradita opportunità anzitutto, di incontrarvi e di manifestarvi il mio riconoscente apprezzamento e, poi, di incoraggiarvi nel vostro peculiare servizio ecclesiale. 

Le riflessioni che Ella ha svolto nel suo indirizzo, Mons. Decano, mi suggeriscono di soffermarmi, quasi a continuazione di quanto ebbi a dire lo scorso anno, su due argomenti, fra loro in qualche modo complementari. Alludo all’urgente necessità, da una parte, di collocare la persona umana al centro del vostro ufficio, più propriamente del vostro «ministerium iustitise»; e, dall’altra, al dovere di tener conto delle esigenze derivanti da una visione unitaria che abbracci insieme giustizia e coscienza individuale. 

2. Non vi è dubbio che l’uomo, creato a immagine di Dio, redento dal sacrificio di Cristo e a Lui fatto fratello, sia l’unico destinatario di tutta l’opera evangelizzatrice della Chiesa e quindi anche dello stesso ordinamento canonico. A ragione quindi il Concilio Vaticano II, ribadendo l’altissima vocazione dell’uomo, non ha esitato a riconoscere il «divinum quoddam se/men in eo insertum». «L’immagine divina - ci ricorda anche il Catechismo della Chiesa Cattolica - è presente in ogni uomo. Risplende nella comunione delle persone, a somiglianza dell’unione delle persone divine tra loro», cosi che - per riprendere l’insegnamento conciliare - «omnia quae in terra sunt ad hominem, tamquam ad centrum suum et culmen, ordinanda sunt». 

«Quid est autem homo?», si domanda immediatamente il Concilio. La questione non è oziosa. Sulla natura dell’essere umano vi sono infatti opinioni tra loro divergenti. Consapevole di ciò, il Concilio si è impegnato ad offrire una risposta nella quale «vera hominis condicio delineetur, explanentur eius infirmitates, simulque eius dignitas et vocatio recte agnosci possint». 

3. Non è quindi sufficiente richiamarsi alla persona umana e alla sua dignità, senza essersi prima sforzati di elaborare un’adeguata visione antropologica, che, partendo da acquisizioni scientifiche certe, resti, ancorata ai principi basilari della filosofia perenne e si lasci insieme illuminare dalla vivissima luce della Revelazione cristiana. 

Ecco perché in un precedente incontro con codesto Tribunale, ebbi a riferirmi ad una visione veramente integrale della persona, e ad ammonire contro certe correnti della psicologia contemporanea, le quali «oltrepassando la propria specifica competenza, s’inoltrano in tale territorio e in esso si muovono sotto la spinta di presupposti antropologici non conciliabili con l’antropologia cristiana». Tali presupposti, infatti, presentano un’immagine della natura e dell’esistenza umana «chiusa ai valori e significati che trascendono il dato immanente e che permettono all’uomo di orientarsi verso l’amore di Dio e del prossimo come sua ultima vocazione».

4. Non è inutile, pertanto, richiamare ancora una volta l’attenzione dei Tribunali ecclesiastici sulle inammissibili conseguenze che da erronee impostazioni dottrinali si riverberano negativamente sull’amministrazione della giustizia ed in modo particolare, ancor più gravemente, sulla trattazione delle cause di nullità del matrimonio. Già da molti anni del resto, la specifica normativa canonica, disponendo in fatto di consultazione di medici specialisti ed esperti nella scienza e pratica psichiatrica, aveva espressamente ammonito: «cauto tamen ut excludantur qui sanam (catholicam) doctrinam hac in re non profiteantur». 

Soltanto un’antropologia cristiana, arricchita dal contributo dei dati raggiunti con certezza dalla scienza anche in tempo recente nel campo psicologico e psichiatrico, può offrire una visione completa, e perciò realistica, dell’uomo. Ignorare che egli «ha una natura ferita, incline al male - ammonisce il Catechismo della Chiesa Cattolica - è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi». Ugualmente fuorviante sarebbe dimenticare che l’uomo è stato gratuitamente redento dal sacrificio di Cristo e reso capace, anche in mezzo a condizionamenti del mondo esterno e di quello a lui, interiore, di operare il bene e di assumere impegni per l’intea sua esistenza. 

5. Tutto questo non può condurre che ad una sempre maggiore considerazione dell’altissima nobiltà dell’uomo, dei suoi diritti intangibili, del rispetto a lui dovuto, anche quando i suoi atti e il suo comportamemto diventano oggetto di esame giudiziale da parte della legittima autorità in genere e di quella ecclesiale in specie. 

È ben noto l’apporto che, soprattutto negli ultimi decenni, l’elaborazione giurisprudenziale della Rota Romana ha offerto ad una conoscenza sempre più adeguata di quell’interior homo da cui nascono, come dal proprio centro propulsore, gli atti consapevoli e liberi. In ciò è del tutto lodevole il ricorso fatto alle discipline umanistiche in senso lato, e a quelle medico-biologiche od anche psichiatriche-psicologiche in senso stretto. Ma una psicologia puramente sperimentale, non coadiuvata dalla metafisica né illuminata dalla dottrina morale cristiana, porterebbe ad una concezione riduttiva dell’uomo che finirebbe per esporlo a trattamenti decisamente degradanti.

In realtà l’uomo, aiutato e corroborato dalla grazia soprannaturale, è capace di superare se stesso: pertanto certe esigenze del Vangelo, che in una visione delle cose puramente terrena e temporale potrebbero apparire troppo dure, non soltanto sono possibili, ma riescono apportatrici di benefici essenziali per la crescita dell’uomo stesso in Cristo. 

6. Verso quest’uomo occorre tenere un atteggiamento di riverente considerazione anche nella conduzione dei processi. A tal fine questa Sede Apostolica non ha mancato di dare, secondo le circostanze e i tempi, opportune direttive. Cosi è avvenuto, ad esempio, quando si è trattato di dover ricorrere ad indagini peritali, che avrebbero potuto in qualche modo ledere il senso di una comprensibile e necessaria riservatezza. 

Parimenti, quando le condizioni psichiche di una parte non garantiscono una consapevole e valida partecipazione al giudizio, la legge canonica vi provvede con l’istituto della rappresentanza tutoria o di curatela. 

Altrettanto risulta da tutta la normativa in fatto di difesa. Di questa si garantisce in primo luogo l’effettiva presenza sia con la scelta privata che con l’assegnazione d’ufficio di competenti patroni; se ne tutela poi il libero esercizio giungendo fino a prevedere la possibile nullità di decisioni giudiziarie nelle quali tale libertà risultasse lesa. Tutto ciò sta a dimostrare la concreta considerazione della dignità dell’uomo, da cui è ispirata la disciplina canonica. 

7. A questo proposito, desidero richiamare la vostra attenzione su un punto di natura processuale: esso riguarda la disciplina vigente circa i criteri di valutazione delle affermazioni fatte in giudizio dalle parti. 

È indubitato che le supreme istanze di una Vera giustizia, quali sono la certezza del diritto e l’acquisizione della verità, devono trovare il loro corrispettivo in norme procedurali, che mettano al riparo da arbitri e leggerezze inammisibili in ogni ordinamento giuridico, ed ancora meno in quello canonico. Il fatto tuttavia che la legislazione ecclesiale riponga proprio nella coscienza del giudice, e cioè nel suo libero convincimento, pur dedotto dagli atti e dalle prove, il criterio ultimo e il momento conclusivo del giudizio stesso, prova come un inutile ed ingiustificato formalismo non debba mai sovrapporsi fino a soffocare i chiari dettami del diritto naturale. 

8. Questo ci porta ad affrontare in modo diretto l’altro argomento, al quale facevo riferimento all’inizio: il rapporto fra una vera giustizia e la coscienza individuale. 

Scrivevo già nell’Enciclica Veritatis splendor [LE 5521]: «Il modo secondo cui si concepisce il rapporto tra la libertà e la legge si collega intimamente con l’interpretazione che viene riservata alla coscienza morale». 

Se ciò è vero nell’ambito del cosiddetto «foro interno», non vi è dubbio però che una correlazione fra la legge canonica e la coscienza del soggetto si pone anche nell’ambito del «foro esterno»: qui il rapporto si instaura fra il giudizio di chi autenticamente e legittimamente interpreta la legge, sia pure nel caso singolo e concreto, e la coscienza di chi all’autorità canonica ha fatto appello: fra il giudice ecclesiastico e le parti in causa del processo canonico. 

A tale riguardo scrivevo nella Lettera Enciclica Dominum et vivificantem [LE 5192]: «La coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento umano». E nell’enciclica Veritatis splendor [LE 5521] ho aggiunto: «L’autorità della Chiesa, che si pronuncia sulle questioni morali, non intacca in nessun modo la libertà di coscienza dei cristiani.. . anche perché il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità ad essa estranee, bensì manifesta le verità che dovrebbe già possedere sviluppandole a partire dall’atto originario della fede. La Chiesa si pone solo e sempre al servizio della coscienza, aiutandola a non essere portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini, a non sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa». 

Un atto aberrante dalla norma o dalla legge oggettiva è, dunque, moralmente riprovevole e come tale deve essere considerato: se è vero che l’uomo deve agire in conformità con il giudizio della propria coscienza, è altrettanto vero che il giudizio della coscienza non può pretendere di stabilire la legge; può soltanto riconoscerla e farla propria. 

9. Pur nella distinzione tra la funzione magisteriale e quella giurisdizionale, è indubbio che nella società ecclesiale anche la potestà giudiziaria emana dalla più generale «potestas regiminis», «quae quidem ex divina instituzione est in Ecclesia», tripartita appunto «in legislativam, exsecutivam et iudicialem». Ove pertanto sorgano dubbi sulla conformità di un atto (per esempio, nel caso specifico di un matrimonio) con la norma oggettiva, e conseguentemente venga posta in questione la legittimità od anche la stessa validità di tale atto, il riferimento deve essere fatto al giudizio correttamente emanato dalla legittima autorità, e non invece ad un preteso giudizio privato, tanto meno ad un convincimento arbitrario del singolo. È principio, questo, tutelato anche formalmente dalla legge canonica, che stabilisce: «Quamvis prius matrimonium sit irritum aut solutum qualibet ex causa, non ideo licet aliud contrahere, antequam de prioris nullimte am solutione legitime et certo constiterit». 

Si situerebbe quindi fuori, ed anzi in posizione antitetica con l’autentico magistero ecclesiastico e con lo stesso ordinamento canonico - elemento unificante ed in qualche modo insostituibile per l’unità della Chiesa - chi pretendesse di infrangere le disposizioni legislative concernenti la dichiarazione di nullità di matrimonio. Tale principio vale per quanto riguarda non soltanto il diritto sostanziale, ma anche la legislazione di natura processuale. Di questo occorre tener conto nell’azione concreta, avendo cura di evitare risposte e soluzioni quasi «in foro interno» a situazioni forse difficili, ma che non possono essere affrontate e risolte se non nel rispetto delle vigenti norme canoniche. Di questo soprattutto devono tener conto quei Pastori che fossero eventualmente tentati di distanziarsi nella sostanza dalle procedure stabilite e confermate nel Codice [LE 5171]. A tutti deve essere ricordato il principio per cui, pur essendo concessa al Vescovo diocesano la facoltà di dispensare a determinate condizioni da leggi disciplinari, non gli è consentito però di dispensare «in legibus processualibus». 

Ecco i punti dottrinali che mi premeva oggi richiamare. Operando nell’ambito giuridico così delineato, i giudici dei Tribunali ecclesiastici, ed in primo luogo voi, Prelati Uditori di questo foro apostolico, non mancherete di recare grande vantaggio al Popolo di Dio. Vi esorto a cercare di svolgere sempre il vostro lavoro con quella adeguata conoscenza dell’uomo e con quell’atteggiamento di doveroso rispetto della sua dignita su cui vi ho oggi intrattenuto. 

Confidando nel vostro sincero sentimento di disponibilità alle indicazioni del Magistero e persuaso del grande senso di responsabilità col quale esercitare l’altissima funzione a voi affidata per il bene della società ecclesiale ed umana, vi porgo il mio augurio affettuoso e di cuore vi imparto l’Apostolica Benedizione.

 

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