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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PRESULI DELLE REGIONI «NORDESTE 1 E 4»
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DEL BRASILE
IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM»

Martedì, 5 settembre 1995

 

Cari Fratelli nell’Episcopato,

1. Ho atteso con viva speranza questo incontro con voi, Vescovi delle regioni Nord-Est 1 e 4, in occasione della vostra visita “ad Limina”, e ora vi saluto con le parole di San Paolo: “la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione della Spirito Santo siano con tutti voi” (2 Cor 13, 13)! Nel darvi il benvenuto, includo il clero, i religiosi, le religiose e i fedeli laici delle Province Ecclesiastiche di Fortaleza e di Teresina. Ringrazio di cuore il Cardinale Arcivescovo Aloísio Lorscheider per le delicate parole con cui, a vostro nome, ha delineato con competenza il quadro sereno e pieno di speranza della vita delle vostre Diocesi.

Il nostro incontro mostra la profonda comunione spirituale e visibile che esiste fra le vostre Chiese particolari e la Chiesa universale, una comunione che deriva dal fatto di essere stati “innestati” in Cristo (cf. Rm 11, 17 ss.). Dobbiamo rivolgerci costantemente a Colui che è il Sommo Pastore (cf. 1 Pt 5, 4), per prendere coscienza delle “imperscrutabili ricchezze” (Ef 3, 8) che ci ha donato per edificare la sua Sposa Immacolata (cf. Ap 19, 7). Egli si unisce a lei mediante un’alleanza incrollabile, la cura e la nutre (cf. Ef 5, 29) (cf. Costituzione dogmatica Lumen Gentium, 6). La nostra sicurezza e la nostra speranza risiedono in Lui e nel potere salvifico del suo Vangelo (cf. Rm 1, 16).

Dando seguito alle visite “ad Limina” dei vostri fratelli dell’Episcopato brasiliano, la vostra presenza qui ricorda vivamente non solo la vastità delle vostre Diocesi, ma anche le innumerevoli sfide insite nell’annuncio del Vangelo, che sono state evidenziate dalle “Direttive Generali dell’Azione Evangelizzatrice in Brasile” nella riunione di questo anno della vostra Conferenza Episcopale. Più specificatamente, negli incontri precedenti con i rappresentanti delle Province Ecclesiastiche di Paraná e di São Paulo, ho avuto occasione di riflettere su alcuni aspetti della loro sollecitudine pastorale per la Chiesa, e li ho incoraggiati a essere vigili sentinelle della verità, Pastori che proclamano la verità di Cristo e della Chiesa, promotori del rinnovamento spirituale necessario in tutti gli ambiti delle vostre Chiese particolari (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVIII/1 [1995] 338 ss.; Ivi, 557 ss.). Oggi il nostro pensiero si rivolge ad alcuni altri aspetti del vostro ministero.

2. “Perché tutti siano una sola cosa... perché siano come noi una cosa sola” (Gv 17, 21-22).

Con queste parole dell’Apostolo ed Evangelista Giovanni, desidero riunirmi con voi innanzitutto per accrescere la fede dei nostri fratelli delle comunità diocesane, di cui siete Pastori, affinché diventino sempre più reali le solenni parole: “come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21).

In diverse occasioni, la Provvidenza mi ha permesso di insistere su una conclusione fondamentale del Concilio Vaticano II, secondo la quale è decisione della Chiesa assumere il compito ecumenico a favore dell’unità dei cristiani e proporlo in modo convinto e vigoroso (cf. Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, 1). Esso è stato, di fatto, un segno indelebile del mio Pontificato che, come ricorderete, ho voluto rendere manifesto nel mio ultimo viaggio in Brasile (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV/2 [1991] 920 ss.).

Ho già avuto occasione di affermare, anche recentemente, che “non si tratta in questo contesto di modificare il deposito della fede, di cambiare il significato dei dogmi, di eliminare da essi delle parole essenziali, di adattare la verità ai gusti di un’epoca, di cancellare certi articoli del Credo con il falso pretesto che essi non sono più compresi oggi. L’unità voluta da Dio può realizzarsi soltanto nella comune adesione all’integrità del contenuto della fede rivelata” (Lettera enciclica Ut unum sint, 18). Nel rivolgermi ai rappresentanti del mondo della cultura a Salvador di Bahia, ho ricordato che: “l’inculturazione del Vangelo non (è) un adattamento più o meno opportuno ai valori della cultura contingente, ma un’autentica incarnazione in questa cultura per purificarla e redimerla” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV/2 [1991] 960).

Lo stesso vale nell’ambito ecumenico. In effetti nel campo dell’inculturazione come in quello dell’ecumenismo si osserva come, con una certa facilità, la ricerca della comprensione, dell’accoglienza o dell’apertura ad altri gruppi o confessioni religiose abbia portato a serie mutilazioni nella chiara espressione del mistero della fede cattolica e nella preghiera liturgica, o a concessioni indebite relative alle esigenze obiettive della morale cattolica. Ecumenismo non è irenismo (cf. Unitatis Redintegratio, 4,11). Non si tratta di ricercare l’unità a qualsiasi costo. Il dialogo ecumenico deve essere alimentato dalla preghiera, definita dal Concilio Vaticano II come l’anima di qualsiasi movimento ecumenico. Questo dialogo, che ha senso solo se è una ricerca sincera della verità, potrà chiederci di trascurare quegli elementi secondari che potrebbero costituire un ostacolo di ordine psicologico per i nostri fratelli di diversa denominazione religiosa. Non sarà comunque mai vero, autentico, se implicherà una pur minima mutilazione di una verità della fede, l’abbandono della legittima espressione della pietà tradizionale del popolo cristiano e l’indebolimento delle esigenze maturate in secoli di disciplina ecclesiastica, o delle venerabili tradizioni liturgiche dell’Oriente, della Chiesa di Roma e delle altre Chiese dell’Occidente. Del resto, “oggi sappiamo che l’unità può essere realizzata dall’amore di Dio solo se le Chiese lo vorranno insieme, nel pieno rispetto delle singole tradizioni e della necessaria autonomia” (Lettera apostolica Orientalem lumen, 20).

D’altro canto, per un esercizio fecondo di un autentico ecumenismo è necessaria una formazione ecumenica adeguata e strutture pastorali, come le commissioni ecumeniche, che collaborino alla promozione della piena unità. Il “Direttorio per l’Applicazione dei Principi e delle Norme sull’Ecumenismo”, pubblicato nel 1993, dà indicazioni precise applicabili alle diverse situazioni.

3. Nell’area latinoamericana, questa necessità di dialogo ecumenico è diventata urgente, in quanto ci si trova di fronte al grave problema delle sette che si stanno diffondendo a macchia d’olio, minacciando di far crollare la struttura di fede di tante nazioni.

Naturalmente, non mi riferisco in questo momento a quelle Chiese e comunità cristiane che possiedono una base obiettiva, sebbene imperfetta, di comunione con la Chiesa Cattolica; queste, come ha dichiarato il Concilio Vaticano II, possiedono “parecchi elementi di santificazione e di verità che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, 8). Tuttavia, proprio perché la ““fraternità universale” dei cristiani è diventata una ferma convinzione ecumenica” (Lettera enciclica Ut unum sint, 42), dobbiamo vivere, promuovere e confermare la nostra fede nella ricerca dell’unità di tutti i cristiani.

L’espansione delle sette certamente “costituisce una minaccia per la Chiesa cattolica e per tutte le comunità ecclesiali con le quali essa intrattiene un dialogo” (Lettera enciclica Redemptoris Missio, 50).

A ragione, l’Episcopato latinoamericano, riunito a Santo Domingo, ha presentato con toni vivaci la sfida pastorale rappresentata oggi dalle sette in tutta l’America Latina. Il Documento Finale ha descritto con chiarezza e precisione queste sette e movimenti, ha mostrato le loro caratteristiche e i loro modi di agire, ha chiarito gli interessi politici ed economici implicati nella loro espansione in tutto il Continente e ha indicato le sfide pastorali e le possibili vie per operare in questo campo (cf. Conclusioni della IV Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano, nn. 139-152).

Non è ora mia intenzione ripetere ciò che tutti conoscete bene. È infatti nota l’intenzione, a volte maligna, di queste sette di minare le basi della fede del popolo, in particolare per ciò che riguarda il culto del Mistero Eucaristico e della Santissima Vergine, la struttura gerarchica della Chiesa e il primato di Pietro, che perdura nell’azione pastorale universale del Vescovo di Roma, e le espressioni di pietà popolare. È chiaro anche che il successo della loro attività può essere spiegato con la carenza di cultura religiosa del popolo, dovuta, in buona parte, alla perdita del vissuto religioso, che coltivava nelle piccole città dell’interno dal popolo, ma che si è indebolito con la migrazione verso le periferie delle grandi città, in un processo quasi sempre doloroso di sradicamento culturale.

4. Non si tratta di un atteggiamento pessimista di fronte alla situazione dominante: la Chiesa cattolica, la Sposa Immacolata di Cristo, ha in sé la garanzia dell’eternità che lo stesso Signore le ha assicurato (cf. Mt 28, 19). Pur sapendo di possedere, per espressa volontà di Dio, la “pienezza dei mezzi di salvezza, ossia “tutti i mezzi della grazia, tuttavia i suoi membri non se ne servono per vivere con tutto il dovuto fervore” (Unitatis Redintegratio, 3-4). Sono certo che questa affermazione conciliare non sarà per voi un semplice eufemismo al momento di affrontare la realtà quotidiana del vostro popolo, tanto sensibile alla trascendenza e ai valori cristiani della pietà e della fraternità. Invece di guardare alla fredda statistica ottenuta dal movimento oscillante dei dati, molte volte contraddittori, circa il numero dei fedeli praticanti, dovremmo fare nostra la domanda posta nella Redazione Finale del Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985: “Di fronte alla proliferazione delle sette, non dovremmo forse domandarci se il senso del sacro sia stato sufficientemente manifestato?” (II, A. 1.).

Vi preoccupano, e a ragione, la carenza dottrinale e l’ignoranza religiosa che lasciano il vostro popolo alla mercè delle influenze perniciose di un ambiente dove regna il permissivismo morale, che lo rende estremamente vulnerabile alla seduzione esercitata dalle sette e dai nuovi gruppi religiosi, specialmente quando questi adottano norme esigenti di marcata rigidità disciplinare. Lo stesso clima di relativismo morale, che si sta diffondendo con grande facilità attraverso i mezzi di comunicazione sociale, espone “l’uomo contemporaneo alla minaccia di un’eclisse della coscienza” di gravi proporzioni (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 861), come dimostra il clima rarefatto che il divorzio, le unioni illecite e altre deformazioni creano nella vita familiare (cf. Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, n. 17). Per questo, insisto nuovamente sull’urgenza di “ricuperare e riproporre il vero volto della fede cristiana che non è semplicemente un insieme di proposizioni da cogliere e ratificare con la mente. È invece una conoscienza vissuta di Cristo, una memoria vivente dei suoi comandamenti, una verità da vivere” (Lettera enciclica Veritatis Splendor, 88). In questa opera a voi spetta un compito insostituibile: la grande responsabilità di essere “Maestri nella fede”. L’insegnamento e la stessa divulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica non intendono altro che conservare attentamente l’unità della fede e la fedeltà alla dottrina cattolica.

5. Alcune fasce sociali sono tuttavia più vulnerabili. Da un lato, esiste la tendenza a credere in soluzioni facili ai problemi esistenziali, come se bastasse un pensiero positivo per lenire i conflitti generati dal dolore e dalla morte, dimenticando che la sofferenza umana non può essere separata dal peccato originale e neppure dallo “sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella storia dell’uomo” (Salvifici Doloris, 15). Dall’altro, vi sono coloro che attendono una risposta immediata e semplice ai loro bisogni, inclusi quelli materiali. La ricerca della salvezza a qualsiasi costo, senza una garanzia della validità dei metodi, costituisce un incentivo ad aderire ad alcune denominazioni pseudo-religiose.

Preoccupa, in tal senso, il facile reclutamento di nuovi adepti, che sebbene siano sottomessi alla pressione psicologica di sostenere la propria setta con obblighi finanziari che vanno aldilà delle loro possibilità, li accettano passivamente pur di lenire i propri mali, ricevendo promesse assurde e temerarie, di guarigione o persino di salvezza, contrarie ai piani di Dio. Le sette causano seri danni religiosi ai loro seguaci. Non si tratta solamente dell’abbandono delle proprie credenze; passato l’entusiasmo dei rimedi fittizi, essi infatti non sempre ritornano alla fede e abbracciano l’indifferentismo. Inoltre, l’indifferentismo religioso genera l’incoerenza nei principi, al punto da far credere, falsamente, che sia possibile mantenere un nesso intimo e vivo con la Chiesa, con il suo ministero, con la sua vita e missione, conservando intatta la propria fede – includendo anche la pietà liturgica e sacramentale, il dogma e la morale cristiana – e aderire ad altri culti e denominazioni religiose. Si pretende dunque di ricevere i sacramenti anche se si partecipa o addirittura si contribuisce finanziariamente al sostentamento di “chiese”, culti o istituzioni filantropiche che predicano, ad esempio, la reincarnazione.

Da dove proviene, in ultima analisi, questa scissione interiore dell’uomo? Detto in altre parole, cosa manca all’evangelizzazione per assicurare la fedeltà del Popolo di Dio, il cammino della Patria definitiva?

6. Sono sicuro che concordate con me circa l’esistenza di alcune lacune nel processo evangelizzatore delle vostre Chiese, lacune del resto sottolineate quest’anno a Itaici dall’Episcopato brasiliano come un’urgenza, nel proporre di dare nuova vita alle diverse forme di celebrazione liturgica e di comunicazione della Parola, incentivando il mantenimento della qualità pastorale delle celebrazioni dei sacramenti (cf. Direttive generali, n. 257).

È proprio sulla scia di queste linee di azione che bisogna sottolineare, da un lato, la perdita della visibilità delle vostre comunità e dei vostri agenti, dall’altro, la presenza di difetti nel rapporto umano e nell’accoglienza delle persone; infine, come non notare una certa timidezza e inerzia nel processo di evangelizzazione del popolo?

In cosa potrebbe consistere la mancanza di visibilità delle vostre comunità e dei vostri ministri?

Tutti sappiamo che oggi viviamo in un mondo in cui è la comunicazione attraverso l’immagine è molto importante. I segni esterni della vita cristiana, soprattutto quelli più tradizionali, rappresentano, oggi come ieri, un grande appello per il vostro popolo, costituito da gente semplice la cui base culturale è stata profondamente segnata dalla fede cattolica in questi quattro secoli di evangelizzazione del Brasile.

In uno dei miei viaggi pastorali nella vostra terra – viaggio che mi fa ricordare l’amato popolo dello Stato di Piauí e del Ceará – mi sovvengo ancora che volli ringraziare l’Onnipotente per avere radicato così profondamente nel cuore del Popolo di Dio di questo Paese la croce, l’Eucaristia e l’“Aparecida” (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III/2 [1980] 208ss.).

Si capisce pertanto quanto piacciano al brasiliano i segni esteriori della fede. Egli vuole vedere le Chiese con le loro caratteristiche religiose, con le espressioni autentiche dell’arte sacra in grado di risvegliare la pietà e d’invitare alla preghiera, al raccoglimento e alla contemplazione del mistero di Dio. Egli vuole udire con gioia il suono delle campane delle vostre chiese che convocano la gente alle celebrazioni liturgiche o alle preghiere del mattino o del pomeriggio per lodare la Vergine Maria! Una campana che suona – tanti la fanno tacere! – giunge a molte orecchie come un segno di vitalità ecclesiale. Il brasiliano vuole sentire nelle musiche delle vostre chiese l’invito a lodare Dio, a rendere grazie e a pregare umilmente e con fiducia, e si sente scoraggiato quando questi canti racchiudono nel loro testo un messaggio politico o puramente terreno, e quando con la loro espressione musicale non rispecchiano la musica religiosa, rivelandosi chiaramente profani nel ritmo, nella linea melodica e negli strumenti musicali di accompagnamento. Il vostro popolo gioisce della bellezza e della dignità del culto religioso, senza pompa né ostentazione, di un culto degno e pietoso, che sia realmente unito all’azione liturgica, in sintonia con quanto detto dal Concilio Vaticano II, “sia esprimendo più dolcemente la preghiera e favorendo l’umanità, sia arricchendo di maggiore solennità i riti sacri” (Costituzione apostolica Sacrosanctum Concilium, 112).

Cercate di conferire un clima di pietà e di dignità alle celebrazioni liturgiche, rendendole gioiose nei momenti dovuti e sempre spiritualmente confortanti. Il ministero della Parola, che è intimamente legato alla Liturgia Eucaristica (cf. Costituzione apostolica Sacrosanctum Concilium, 56), contenga sempre, dall’inizio alla fine, un messaggio spirituale. È indubbio che vi sono tante persone che non possiedono quanto basta a placare la propria fame ma, generalmente, il popolo ha più fame di Dio che di pane materiale, poiché comprende che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4). Bisogna vedere la Chiesa come Chiesa, e non come semplice promotrice della riforma sociale. Questo è un dovere che proviene dalla fede e non da un’esigenza previa alla predicazione del Vangelo. In questo modo, e in nessun altro, si possono comprendere le seguenti parole del Concilio Vaticano II: “nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale” (Costituzione dogmatica Dei Verbum, 21).

Il vostro popolo, carissimi Fratelli nell’Episcopato, vuole vedere nei Padri degli autentici ministri di Dio, anche nel loro abito e nel loro modo esteriore di agire. Esso vuole vedere l’uomo di Dio nei ministri della sua Chiesa, come una presenza che deve ispirargli amore, rispetto e fiducia. Il popolo ne ha diritto e può esigerlo ai suoi Pastori. Ciò che gli uomini desiderano, ciò che essi sperano è che il sacerdote, con la sua testimonianza di vita e con la sua parola, parli loro di Dio. Il carattere conferito dal sacramento dell’Ordine, permette al sacerdote di agire “in nome e nella persona di Cristo Capo (Presbyterorum Ordinis, 2), partecipando dell’autorità con cui Cristo governa la sua Chiesa. D’altro canto, il ministro sacro è chiamato ad esercitare il “sacro potere dell’ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati” e in nome di Cristo svolgere “per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale” (Presbyterorum Ordinis, 3). Per questo, è opportuno che entrambe le note del sacerdozio ministeriale conservino il loro giusto valore, tenendo presente che “in una società secolarizzata e tendenzialmente materialista... è particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico” (Direttorio per il Ministero e la vita dei Presbiteri, n. 66).

7. Bisogna ora prendere in considerazione un altro aspetto di non minore importanza. Si tratta dei rapporti con le persone e dell’accoglienza in seno alle vostre comunità. La Chiesa è la casa del Padre. Il più grande vincolo di unione dei membri della Chiesa è l’amore, l’amore di Dio che si estende nell’amore per il prossimo. È stato proprio questo amore fraterno a conferire un’enorme capacità evangelizzatrice alle comunità primitive della Chiesa attraverso la loro testimonianza di vita in comune.

Ciò che vale per tutti i popoli, ha un’importanza fondamentale per il vostro popolo. Esso è prima di tutto cordiale. Nella sua carenza affettiva, ha bisogno di sentirsi amato e accolto. Il popolo è molto sensibile all’ambiente in cui vive e spera di trovarvi gioia, semplicità e calore umano. Il cattolico, a maggior ragione, di fronte al sorgere delle sette, deve assumere un atteggiamento caritatevole: “carità verso l’interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti” (Lettera enciclica Ut unum sint, 36). Non si tratta di ricorrere ad attacchi personali o di assumere posizioni contrarie allo spirito del Vangelo. Potrebbe servire da esperienza ciò che fu proposto come motto pastorale in una delle vostre Diocesi: “Accogliere per evangelizzare”. È importante prestare un’attenzione personale a quanti cercano la Chiesa, mantenersi disponibili, in segno di considerazione, di ascolto e di asilo ai bisognosi di sostegno spirituale. È indubbio che la vostra opera evangelizzatrice sperimenterebbe un grande incremento se nelle vostre comunità venisse promosso quello che opportunamente definite come “ministero dell’accoglienza” delle persone, facilitandola ed esigendo dai Padri e dai loro collaboratori un atteggiamento sereno e cordiale.

8. Infine, dove riscontriamo mancanza di ardore e di iniziativa nell’annuncio evangelico?

L’evangelizzazione a cui la Chiesa è chiamata in questo fine secolo deve essere, come ho tante volte ripetuto, nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione. Questo ardore, come dissi a Santo Domingo, “presuppone una solida fede, un’intensa carità pastorale e una grande fedeltà, che, sotto l’azione dello Spirito, generino una mistica, un incontenibile entusiasmo nel compito di annunciare il Vangelo. Nel linguaggio neotestamentario è la “parresìa” che infiamma il cuore dell’apostolo” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XV/2 [1992] 321).

Richiamano l’attenzione il proselitismo a ogni costo e l’entusiasmo degli operatori delle sette e di alcuni movimenti pseudo-spirituali. Non avete è forse diminuito l’impegno nella ricerca delle pecore che si sono allontanate? Al contrario di ciò che avviene nella parabola evangelica, non si è persa una sola pecora, ma un parte del gregge.

Per questo, nel XXV anniversario del Decreto Conciliare Ad Gentes, desidero sottolineare che: “l’annuncio ha la priorità permanente nella missione... nella realtà complessa della missione il primo annunzio ha un ruolo centrale insostituibile, perché introduce “nel mistero dell’amore di Dio, che chiama a stringere in Cristo una personale relazione con lui” ed apre la via alla conversione” (Lettera enciclica Redemptoris Missio, 44). Proprio perché “l’amore di Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14), la “missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi” (Redemptoris Missio, 11).

Tutto ciò mostra, carissimi Fratelli, che non basta chiamare, convocare e attendere che le persone vengano. Come dice un altro motto dell’azione pastorale di una delle vostre Diocesi, dovete essere “una Chiesa che va incontro al Popolo”! Dovete essere una Chiesa che cerca le persone, che le invita non solo mediante l’appello generale dei mezzi di comunicazione sociale ma anche con l’invito personale, di casa in casa, di strada in strada, in un lavoro permanente, rispettoso ma presente in tutti i luoghi e gli ambienti.

Per questo è importante poter contare sulla generosità dei fedeli laici. Mi riferisco, in particolare, a quanti cercano di vivere nel modo più intenso possibile la loro consacrazione battesimale, sia personalmente sia nelle tradizionali associazioni religiose o nei nuovi movimenti laici che, grazie all’azione dello Spirito Santo, stanno sorgendo nella Chiesa. Contate sul loro cammino spirituale e rispettatelo ma non cessate di invitarli a partecipare all’opera evangelizzatrice.

9. Il vostro compito è una sfida missionaria, quella di preparare la Chiesa del terzo millennio, riprendendo l’iniziativa della nuova evangelizzazione con sforzi ancora maggiori. Alla luce del comandamento dell’amore, venerati Fratelli nell’Episcopato, siate apostoli intrepidi della verità e costruttori di una comunità fraterna, rimanendo all’ascolto di Colui che vi ha consacrati (cf. Is 61, 1), per essere testimoni misericordiosi della benevolenza divina verso di voi.

Lo Spirito del Redentore, che vi ha guidato fino ad ora, non vi lascerà soli di fronte a queste sfide. La vostra visita “ad Limina” evidenzia positivamente la vostra unione con il Vescovo di Roma e la vostra appartenenza al Collegio Episcopale: che ciò vi sia da sostegno!

Vorrei chiedervi di trasmettere il mio affettuoso incoraggiamento a quanti sono al servizio del Vangelo nelle vostre Diocesi: ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai laici che si assumono responsabilità e svolgono molti compiti a beneficio delle comunità, così come a tutti i fedeli.

Affido alla Vergine Madre, Nossa Senhora Aparecida, i progetti, le speranze e le difficoltà dell’attuale momento della Nazione. In questa prospettiva, invoco la Benedizione del Signore su di voi, sui vostri sacerdoti, sui religiosi, sulle religiose e sui fedeli di questa Terra della Santa Croce che mi è particolarmente cara.

 

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