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PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 4 dicembre 1974

 

Il destino dell'uomo nella prospettiva cristiana

Noi siamo nel periodo liturgico che precede la celebrazione del Natale, cioè della venuta del Salvatore nel mondo, della Incarnazione del Verbo di Dio, di Colui che avrà nome Gesù il Cristo, il Messia; siamo nel periodo chiamato Avvento, che significa aspettativa, preparazione, desiderio, speranza dell’arrivo nel mondo, nel tessuto storico del Popolo eletto e nel disegno universale dell’umanità di Colui verso il quale, per secoli ed in mezzo alle più tormentate esperienze, si è tesa l’ansia della salvezza, la visione del Re vincitore, dell’instauratore della giustizia e della pace: «sarà un bambino, profetizza Isaia, sarà un figlio (della nostra stirpe); e il principato è stato posto sulle sue spalle, e sarà chiamato col nome di Ammirabile, di Consigliere, Dio, forte, padre del secolo venturo, principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine . . .» (Is. 9. 6-7).
Questa spiritualità, rivolta verso un avvenire nuovo, felice, indescrivibile, e verso un Personaggio straordinario, che riassume in sé la figura di Davide, il re ideale, e la trasfigura in una personalità trascendente, liberatrice, salvatrice, e misteriosa, percorre l’Antico Testamento, facendosi sempre più chiara e sempre più librata sulla infelice e deludente realtà storica della Nazione, da cui era coltivata, e la sorregge questa Nazione in una fiducia, che sembra sfidare gli avvenimenti più avversi: è la speranza messianica, la quale mantiene viva nel Popolo la memoria delle vicende secolari passate, gli impegni religiosi e morali ereditati dai Padri, fa della legge da loro ricevuta la norma testuale del proprio costume, e trae dalla fedeltà alla tradizione l’energia per vivificare la propria identità.

Così è stato aspettato Gesù. Conosciamo il Vangelo. Le promesse furono, nelle apparenze umane, deluse dalla figura e dalla missione che Gesù rivestì, sebbene anche questa kenosis, cioè questa umiltà del Signore fosse stata anch’essa documentata dalle celebri profezie del «Servo di Jahve» (Cfr. Is. 53), ma furono sorpassate nella realtà esistenziale di Cristo, vero Figlio di Dio e vero Figlio dell’uomo, che proprio in virtù di questa sua duplice natura, divina ed umana, viventi nell’unica Persona del Verbo, Figlio di Dio, consumò l’opera della redenzione, morendo e risuscitando per la nostra salvezza.
Ora questo Vangelo è tal cosa che dovrebbe alimentare in ciascuno di noi e in tutta la comunità universale della Chiesa una analoga spiritualità, quale ci è illustrata dall’antico Testamento, cioè la spiritualità della nostra convergenza in Gesù, nostro Signore, Salvatore, Redentore, nostro Maestro, Pastore ed Amico, nostro centro, nostro cardine dei destini umani, nostro Messia unico, necessario e sufficiente, nostro amore e nostra felicità. Per noi l’attesa ha solo valore pedagogico; è reminiscenza della secolare economia preparatoria alla venuta di Cristo. Ma Cristo è venuto. La realtà messianica per noi è compiuta.

Questa è la spiritualità del Natale, nella quale la storia, la teologia, il mistero dell’Incarnazione, il nostro destino umano e soprannaturale si fondono e diventano celebrazione, cioè liturgia, una liturgia che si alimenta di tutta la terra, di tutta la storia, e che s’innalza, con ampiezza cosmica, nei cieli, nella gloria divina.
Ed è tutto per sé, se non sentissimo l’obbligo di aggiungere due osservazioni. La prima è questa. Sì, Cristo è venuto; ma per una misteriosa e terribile sventura non tutti l’hanno conosciuto, non tutti lo hanno accolto: il prologo del Vangelo di San Giovanni lo dice drammaticamente: «. . . Egli era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene a questo mondo, . . . e il mondo non lo conobbe. Egli è venuto nella sua proprietà, ed i suoi non lo accolsero» (1, 9-11). È il quadro dell’umanità, quale noi, dopo venti secoli di cristianesimo, abbiamo davanti. Come mai? che cosa diremo? Non pretenderemo di sondare una realtà immersa in misteri che ci trascendono: il mistero del Bene e del Male. Ma possiamo ricordare che l’economia di Cristo, per la diffusione della sua luce, si dispiega in una subalterna, ma necessaria cooperazione umana: quella della evangelizzazione, quella della Chiesa apostolica e missionaria, che, se registra risultati incompleti, tanto più deve da tutti essere aiutata e integrata.
E possiamo concedere alle nostre curiosità storico-sociologiche di indagare se questo nostro mondo moderno, come quello indicato nella Bibbia, non riveli da sé, inconsciamente, sintomi d’un messianismo insoddisfatto e angosciosamente teso verso una insaziata speranza d’una venuta messianica.

Che cosa significa questa implacata inquietudine verso le mutazioni economico-politiche, verso il miraggio di sempre nuove rivoluzioni se non la disperata attesa d’un ordine superiore che l’uomo da sé non sa creare se non mortificando la libera espressione dell’uomo stesso? E che cosa significa questa nausea della prosperità, risultante dal progresso tecnico-scientifico e respinta dalle giovani generazioni, se non il bisogno d’un messianismo dello spirito e non della abbondanza materiale?
E la tendenza, quasi di moda, di esaltare il Povero come il tipo bisognoso d’una nuova giustizia, che lo sviluppo economico non sa di per sé generare, ma piuttosto trascurare ed offendere? quando viene il Vangelo dei Poveri? Eccetera. Un mito messianico sembra denunciare follemente, ma non senza segreta sapienza, un bisogno autentico, quello di Uno che dice con forza di verità: «Io verrò, e lo guarirò!» (Matth. 8, 7)
E la seconda osservazione è quest’altra. Cristo è venuto, sì; ma questa sua venuta, piena e felice sotto certi aspetti sostanziali, non è definitiva, non è l’ultima. Gesù verrà alla fine di questo mondo «a giudicare i vivi ed i morti». Un avvento escatologico, la «parusia», è ancora nelle attese del tempo e delle nostre anime. L’avvento che stiamo celebrando diventa, a sua volta, profetico e preparatorio.
A che cosa? al desiderio di Cristo, all’amore di Cristo, all’estimazione giusta e saggia di questa vita presente, che tanto vale quanto ci guida e ci prepara per quella eterna e futura.
Da ricordare sempre; con la nostra Apostolica Benedizione.

Corso di rinnovamento giudiziario alla Gregoriana

Una parola speciale meritano gli 80 partecipanti al quarto «Cursus renovationis canonicae pro Iudicibus aliisque Tribunalium administris», venuti a questa Udienza insieme col benemerito Decano e con gli Studenti della Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana, che organizza il Corso.
Avremmo voluto, diletti figli, ricevervi in una Udienza a parte, per intrattenerci a nostro agio con ciascuno di voi, che venite un po’ da tutti i continenti, e tra i quali sappiamo che vi sono anche due nostri Confratelli nell’Episcopato. Se ciò non ci è purtroppo possibile, vogliamo tuttavia che non vi manchi la nostra sia pur breve parola di particolare compiacenza e di incoraggiamento. Ci fa piacere vedervi in numero così cospicuo: segno che l’interesse per una formazione, continuamente aggiornata, sul diritto canonico non solo è vivo, ma aumenta continuamente.

Lode alle vostre diocesi di origine, che si preoccupano di avere nei quadri dei Tribunali ecclesiastici Giudici e Officiali particolarmente preparati. E lode a voi che vi date a questo severo tirocinio. Facciamo voti che ne sappiate ricavare tutto il miglior frutto.
La Chiesa, anche nell’esercizio del diritto che le compete in forza del suo divino mandato, si dimostra ed è madre: mediante esso segue l’ordinato svolgimento della vita dei suoi figli, si china su di essi per guidarli sulla via della salvezza, e assicurando i diritti di Dio non fa altro che tutelare e garantire quelli degli uomini, ad essa affidati. Sappiate vedere sempre, come in trasparenza, attraverso la complessità delle varie procedure, il mistero santificatore della Chiesa: e un soffio vivificatore, pastorale, apostolico renderà più lievi le vostre fatiche.
Noi vi seguiamo con la preghiera e con l’augurio, mentre a tutti impartiamo la nostra Benedizione.

Capitolari degli Oblati di Maria Immacolata

Chers Fils Oblats de Marie,
Nous sommes heureux de vous saluer ce matin à la fin de votre chapitre général. Votre nombreux Institut, depuis près d’un siècle et demi, représente pour l’Eglise une immense espérance: Nous pensons au zèle déployé par tant de vos frères, pour que le message évangélique atteigne vraiment les cœurs, que ce soit dans la réflexion approfondie des retraites et des «missions», ou dans l’approch de «ceux qui sont loin». Vous avez vraiment défriché de nouveau terrains d’évangélisation. Aujourd’hui, peut-être, le mode de votre insertion apostolique peut s’avérer plus difficile; et pourtant, de toute évidence, notre monde a plus que jamais besoin de prédicateurs, d’animateurs spirituels qualifiés, de missionnaires totalement disponibles.
Dans cet apostolat exigeant, le Christ ne saurait manquer de vous soutenir; pour cela, votre vie intérieure doit se faire encore plus profonde, votre fidélité religieuse plus vigoureuse, votre soutien fraternel plus fort, votre amour de l’Eglise plus confiant. Dès lors, avec le Révérend Père Fernand Jette, votre nouveau Supérieur général, comme avec votre fondateur, Monseigneur de Mazenod - qui, Nous l’espérons, sera bientôt honoré par toute l’Eglise - avancez sans crainte. Pour Nous, Nous vous assurons de notre confiance; et Nous vous encourageons, en vous bénissant de tout cœur.

“Christian Brothers”

We warmly welcome to the audience today a group of Christian Brothers who have come to Rome from many parts of the English-speaking world to find fresh inspiration for their apostolic work. Certainly the youth in the countries where you teach need the light of your spiritual guidance now more than ever. Do not be worried how you will carry out your task. The Divine Master has given you a simple formula: “It is enough for the disciple that he should grow to be like his teacher” (Matth. 10, 25). We pray that through your own imitation of Christ you may lead youth to God.

                    



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