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PIO XII

LETTERA ENCICLICA

FULGENS RADIATUR(1)

XIV CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN BENEDETTO

 

San Benedetto da Norcia fulgido risplende, come astro nelle tenebre della notte, gloria non solo d'Italia, ma anche di tutta la chiesa. Chi osserva la sua illustre vita e studia sui documenti della storia l'epoca tenebrosa in cui visse, sentirà senza dubbio la verità della divina parola con cui Cristo promise agli apostoli e alla società da lui fondata: «Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine dei secoli» (Mt 27, 20). Questa parola e questa promessa non perdono certamente la loro efficacia in nessuna epoca, ma riguardano il corso di tutti i secoli che sono guidati dalla divina Provvidenza. Anzi, quando più furiosamente i nemici si scagliano contro il nome cristiano, quando la fatidica navicella di Pietro è agitata da più violente burrasche, quando infine sembra che tutto vada in rovina e non brilli più alcuna speranza di soccorso umano, allora ecco comparire Cristo, garante, consolatore, apportatore di forza soprannaturale, il quale suscita perciò i suoi nuovi atleti a difendere il mondo cattolico, a reintegrarlo, a risvegliare in esso, con l'ispirazione e il soccorso della grazia divina, sviluppi sempre più vasti.

Nel numero di questi risplende di vivida luce il nostro santo «Benedetto e di grazia e di nome»,(2) il quale, per una speciale disposizione della divina Provvidenza, emerse dalle tenebre del secolo, quando le condizioni e il benessere non solo della chiesa, ma della stessa umana civiltà, correvano un grandissimo rischio. L'impero romano, che aveva toccato un vertice di altissima gloria e che con la sapiente moderazione ed equità del suo diritto si era così strettamente legati tanti popoli, razze e nazioni, «da potersi chiamare con maggiore verità un patronato sul mondo intero piuttosto che una sovranità»,(3) ormai, come tutte le cose di questa terra, era declinato al suo tramonto poiché, indebolito e guasto all'interno, infranto ai confini esterni dalle invasioni dei barbari che piombavano da settentrione, era stato schiacciato in occidente sotto la sua immane rovina. In una così fiera burrasca e in mezzo a disgrazie così gravi, donde rifulse all'umana società qualche speranza, donde le venne un aiuto e una difesa, con cui potesse salvare se stessa e qualche reliquia almeno della sua civiltà? Proprio dalla chiesa cattolica: poiché, mentre le imprese di questo mondo e tutte le istituzioni terrene, siccome sono solo sostenute dalla prudenza e dalla forza umana, l'una dopo l'altra col passare degli anni crescono, salgono al culmine della prosperità e poi per il loro stesso peso declinano, cadono e svaniscono; al contrario la società che il nostro divin Redentore ha stabilita ha il dono dal suo Fondatore di una vita soprannaturale e di una forza indefettibile col cui appoggio e nutrimento essa se ne esce vincitrice dagli assalti del tempo, degli eventi e degli uomini in modo tale, da potere far sorgere una età nuova e più felice dalle loro stesse perdite e rovine, da poter formare ed educare nella dottrina e nello spirito cristiano una nuova società di cittadini, di popoli e di nazioni.

Orbene Ci piace, venerabili fratelli, accennare brevemente e per sommi capi quale parte abbia avuta san Benedetto in questa restaurazione e rinnovazione della società, dato che quest'anno sembra ricorrere il XIV secolo da che egli tramutò questo terreno esilio nella patria celeste, dopo aver compiute innumerabili imprese alla gloria di Dio e per la salvezza degli uomini.


I. 
LA FIGURA STORICA DEL PATRIARCA

Benedetto «nato di nobile stirpe dalla provincia di Norcia»,(4) «fu ripieno nel suo spirito di tutte le virtù»,(5) e sostenne in modo straordinario il mondo cristiano con il suo coraggio, con la sua prudenza e sapienza; infatti, mentre il mondo era invecchiato nei vizi, mentre l'Italia e l'Europa sembravano divenute un miserevolissimo teatro di popoli guerreggianti, e perfino le istituzioni monastiche, macchiate della polvere di questo mondo; erano meno forti di quanto sarebbe stato necessario per resistere e respingere le allettative della corruzione, Benedetto dimostrò con la sua eccellente attività e santità la perenne giovinezza della chiesa, rinnovò la severità dei costumi con la sua dottrina e col suo esempio, e cinse di leggi più sicure e più sante il raccoglimento della vita religiosa. Ma non basta: egli infatti di per sé e con i suoi seguaci ridusse quelle barbare genti dai loro costumi feroci ad abitudini civili e cristiane e, piegandole alla virtù, al lavoro e alle tranquille occupazioni delle arti e delle scienze, li strinse con vincoli di fraterno amore e carità.

Sul fiore degli anni viene inviato a Roma per lo studio delle scienze;(6) ma si avvede con sommo dispiacere che ivi serpeggiano eresie ed errori di ogni genere che ingannano e guastano le menti di molti: vede i costumi privati e pubblici rovinare nel fango, vede moltissimi specialmente tra i giovani, tutti eleganti e agghindati, voltolarsi miseramente nel lezzo dei piaceri; sicché a ragione si poteva affermare della società romana: «Sta morendo e ride. E per questo in quasi tutte le parti del mondo le lacrime tengono dietro alle nostre risate».(7) Egli tuttavia, prevenuto dalla grazia di Dio, «non lasciò andare il suo cuore a nessun piacere... ma vedendo molti correre per la rovinosa via dei vizi, ritrasse indietro il suo piede, che già quasi aveva messo sulla soglia del mondo... Messi quindi da parte gli studi letterari, abbandonata la casa e i beni paterni, desiderando di piacere unicamente a Dio, cercò un genere santo di vita».(8)

Diede quindi con tutto lo slancio l'addio alle agiatezze della vita e non solo alle lusinghe di un mondo corrotto, ma anche all'attrattiva della fortuna e delle cariche onorifiche a cui poteva aspirare; e, abbandonata Roma, si ritirò in regioni boscose e solitarie, dove gli fosse possibile attendere alla contemplazione delle cose celesti.. Giunse pertanto a Subiaco, dove, chiudendosi in una piccola grotta, cominciò a menar una vita più celeste che umana.

Nascosto in Dio con Cristo (cf. Col 3, 3), si sforzò ivi per tre anni di raggiungere quella perfezione evangelica e santità, alla quale si sentiva chiamato da una quasi divina attrattiva. Fu sua regola costante fuggire tutte le cose terrene, tendere con slancio unicamente a quelle celesti; conversare giorno e notte con Dio e innalzare a lui preghiere ferventissime per la salvezza sua e dei suoi prossimi; contenere e regolare il suo corpo con volontarie asprezze; frenare e rintuzzare i movimenti disordinati dei sensi. Da questo genere di vita e di condotta, egli assaporava nel suo animo tale dolcezza da avere in somma nausea e quasi perfino dimenticare quelle delizie che negli anni passati aveva gustate dalle ricchezze e comodità terrene. E poiché un giorno il nemico del genere umano lo eccitava con violenti stimoli della passione, egli, di spirito nobile e risoluto, resistette con tutta l'energia della sua volontà; e, buttandosi in mezzo a rovi spinosi e a ortiche pungenti, calmò e spense con queste asprezze abbracciate spontaneamente il fuoco interiore e così, uscito vincitore di se stesso, venne quasi, in premio, confermato nella grazia divina. «Da quel tempo poi, come egli stesso soleva raccontare ai suoi discepoli, fu così domata in lui la tentazione impura, da non provare in sé più nulla di tali cose... Libero così dal male della tentazione, a buon diritto ormai divenne maestro di virtù».(9)

Il nostro santo adunque, nascosto nella grotta di Subiaco, durante questi anni di vita tranquilla e solitaria si andò santamente formando, fortificando e gettò quelle solide basi di cristiana perfezione, sulle quali avrebbe in seguito potuto innalzare una costruzione di straordinaria altezza. Come infatti ben sapete, venerabili fratelli, tutte le opere di intensa operosità e di santo apostolato riescono vane e infruttuose, se non provengono da un'anima arricchita di quelle doti cristiane, mediante le quali unicamente le umane intraprese possono, con l'aiuto della divina grazia, dirigersi per un retto sentiero alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime. Di questa verità Benedetto aveva una intima e profonda convinzione; perciò, prima di tentare l'attuazione e il compimento di quei disegni e propositi grandiosi a cui era chiamato dall'afflato dello Spirito Santo, si sforzò quanto più poteva, e impetrò da Dio con continue preghiere, di riprodurre in modo eccellente in sé quel tipo di santità, modellato sulla dottrina evangelica in tutta la sua integrità, che egli desiderava insegnare agli altri.

Siccome poi la fama della sua straordinaria santità si spargeva tutto intorno e di giorno in giorno andava sempre più crescendo, non solo i monaci che dimoravano nelle vicinanze manifestarono il desiderio di affidarsi alla sua direzione, ma anche una grande folla di cittadini cominciò ad accorrere a lui, desiderosa di udire la sua voce soave, di ammirare la sua eccezionale virtù e di vedere quei prodigi che egli per dono di Dio non di rado operava. Anzi quella luce splendente che s'irradiava dalla oscura grotta di Subiaco si diffuse così largamente che raggiunse perfino lontane regioni. Perciò «fin d'allora cominciarono ad accorrere a lui nobili e religiosi della città di Roma e a darglisi come figli da nutrire per Dio».(10)

Comprese allora quel santissimo uomo che era venuto il tempo fissato dalla divina Provvidenza per fondare una famiglia religiosa e condurla con ogni sforzo alla perfezione evangelica. Nei primi inizi la sua opera diede magnifiche speranze. Molti infatti «furono da lui in quel medesimo luogo radunati al servizio dell'onnipotente Dio...: così da potervi costruire con l'aiuto del sommo nostro Signore Gesù Cristo dodici monasteri, a ciascuno dei quali sotto determinati superiori assegnò dodici monaci tenendone con sé alcuni pochi che giudicò meglio venissero formati alla sua presenza».(11)

Tuttavia mentre, come dicevamo, l'iniziativa procedeva felicemente e già cominciava a produrre abbondanti frutti di salute e più ancora ne prometteva per l'avvenire, il nostro santo vide con immensa tristezza del suo cuore innalzarsi sulle messi che andavano crescendo una nera tempesta, eccitata dalla sinistra invidia e alimentata da brame di terrene ambizioni. Ma poiché Benedetto era guidato dalla prudenza non umana, bensì divina, affinché quell'odio che era sorto specialmente contro di lui non venisse a ricadere miseramente in danno dei suoi figli, «cedette all'invidia e pose ordine in tutti gli oratori da lui fondati, sostituendo i primi superiori e aggiungendo nuovi confratelli; poi, presi con sé pochi monaci, mutò la sede della sua abitazione».(12) Fidente in Dio e appoggiato al suo validissimo aiuto, si spostò verso il mezzogiorno, e si fissò nella località «che si chiama Cassino, posto sul fianco di alta montagna..., dove era stato un antichissimo tempio, nel quale da uno stolto popolo di contadini era venerato Apollo con i riti degli antichi pagani. Tutt'intorno erano cresciuti boschetti sacri al culto del demonio, nei quali, ancora ai tempi di Benedetto, folle d'insensati idolatri si affaticavano in sacrileghi sacrifici. Appena arrivatovi, il servo di Dio, spezzò l'idolo, rovesciò l'altare, incendiò i boschetti sacri e sullo stesso tempio di Apollo innalzò la cappella di san Martino e dove sorgeva l'ara del medesimo Apollo costruì l'oratorio di san Giovanni; infine con la continua predicazione conduceva alla vera fede le popolazioni che dimoravano attorno».(13)

Cassino, come tutti sanno, fu la principale sede del santo patriarca e la principale palestra delle sue virtù e santità. Dalla sommità di quel monte, mentre quasi tutt'intorno le tenebre dell'ignoranza e dei vizi si diffondevano nel tentativo di avvolgere e di rovinare ogni cosa, risplendette una luce nuova, la quale non solo alimentata dalla dottrina e civiltà degli antichi popoli, ma anche fomentata dalla dottrina cristiana, illuminò popoli e nazioni erranti fuori strada e li richiamò e guidò sulla via della verità e della rettitudine. A buon diritto si può dunque affermare che il sacro monastero ivi costruito divenne il rifugio e la difesa di tutte le più elette scienze e virtù, e in quei burrascosi secoli fu «quasi sostegno della chiesa e propugnacolo della fede».(14)

In questo luogo Benedetto portò il regolamento della vita monastica a quel grado di perfezione cui già da molto tempo egli aveva mirato con le preghiere, con la meditazione e con l'esercizio della virtù. Questo veramente sembra sia stato lo speciale e principale compito affidatogli dalla divina Provvidenza: non tanto, cioè, di portare in occidente dall'oriente le regole della vita monastica, quanto di adattarle e proporzionarle genialmente alle inclinazioni, alle necessità, alle condizioni delle popolazioni dell'Italia e di tutta l'Europa. Ecco quindi per mezzo suo alla serenità della dottrina ascetica, che tanto rifioriva nei cenobi dell'oriente, accoppiarsi una instancabile attività, con cui diventa possibile, «comunicare agli altri le cose contemplate»(15) e non solo produrre messi abbondanti di spighe da terreni incolti, ma anche maturare con apostolico sudore frutti spirituali. Le asprezze proprie della vita solitaria, non adatte per tutti, e per non pochi anche nocive, vengono addolcite e temperate dalla fraterna coabitazione della dimora benedettina, dove, alternando preghiera, lavoro, studi sacri e profani, la vita beatamente tranquilla non conosce ozio né pigrizia; dove il lavoro esterno, nonché stancare l'anima e la mente, dissiparla o assorbirla in cose vane, piuttosto la rasserena, la fortifica, la solleva al cielo. Non vi è imposto un eccessivo rigore nella disciplina, non l'asprezza delle penitenze ma prima di tutto l'amore di Dio e una carità fraterna e operosa verso tutti. «Egli mitigò la sua Regola in modo tale che i coraggiosi desideravano fare di più e i deboli non rifuggivano dalla sua severità... Si studiava piuttosto di guidare i suoi con l'amore, più che governarli col timore».(16) Avendo quindi un giorno osservato un monaco che, per togliersi la possibilità di peccare e di ritornare alla vita mondana, si era chiuso in una spelonca legandosi strettamente, lo rimproverò dolcemente con queste parole: «Se sei servo di Dio non ti trattenga una catena di ferro, ma la catena di Cristo».(17)

In questo modo, a quelle regole particolari della vita eremitica e a quelle speciali imposizioni, che prima per lo più non erano ben fissate e determinate, ma spesso dipendevano dal cenno dello stesso superiore del cenobio, successe la Regola monastica benedettina, celebre monumento di sapienza romana e cristiana, nella quale i diritti, i doveri e le occupazioni dei monaci sono temperati con benignità e carità evangelica, la quale fu ed è sempre così efficace per stimolare molti alla virtù e per farli crescere in santità. Nella Regola benedettina infatti una somma prudenza si unisce alla semplicità, l'umiltà cristiana si associa alla virtù piena di coraggio; la dolcezza mitiga la severità, un'equilibrata libertà nobilita la necessaria obbedienza. In essa la riprensione non manca di energia: la condiscendenza e la benignità è gradita per la sua soavità: i comandi conservano tutta la loro forza, ma l'obbedienza dà tranquillità al cuore, dà pace all'anima: il silenzio con la sua gravità è piacevole; ma la conversazione si orna di dolce finezza; infine viene esercitato il potere dell'autorità, ma la debolezza non è priva di aiuto.(18)

Non c'è quindi da meravigliarsi se tutte le migliori intelligenze oggi ricolmano di lodi quella «Regola monastica che san Benedetto scrisse, eminente per discrezione e chiarissima per espressione»:(19) e che Ci piace qui commemorare brevemente in questo scritto, mettendo nella loro luce i suoi tratti essenziali, fiduciosi che ciò riuscirà gradito e utile non solamente alla numerosa famiglia del santo patriarca, ma anche a tutto il clero e al popolo cristiano.

La comunità monastica è costituita e regolata in modo tale da rassomigliarsi a una famiglia cristiana, sulla quale l'abate, o cenobiarca; come padre di famiglia, governa e dalla cui paterna autorità tutti devono dipendere. «Abbiamo visto - così dice san Benedetto - che conviene per la conservazione della pace e della carità che il governo del monastero dipenda dalla volontà del suo abate».(20) Perciò a lui tutti e singoli per obbligo di coscienza devono religiosamente obbedire,(21) e riguardare e riverire nel medesimo la stessa divina autorità. Tuttavia colui che per incarico ricevuto prese a dirigere le anime dei monaci e a stimolarle verso la perfezione evangelica della vita, pensi e mediti con ogni diligenza che egli dovrà un giorno rendere conto delle medesime al Giudice supremo;(22) perciò in questo importantissimo obbligo si comporti in modo tale da meritarsi un giusto premio, «quando si farà la resa dei conti nel tremendo giudizio di Dio».(23) Inoltre tutte le volte che nel suo monastero dovranno decidersi affari di maggior importanza, raduni tutti i monaci e senta i loro pareri esposti liberamente e li prenda in serio esame prima di venire a quelle decisioni che sembreranno migliori.(24)

Ma fin dal principio sorse una grave difficoltà e una scabrosa questione, quando si trattò dell'accettazione o del rimando dei candidati alla vita monastica. Confluivano infatti, per essere accettati nelle sacre mura, cittadini di ogni stirpe, nazione e ordine sociale: romani e barbari, liberi e schiavi, vinti e vincitori, e non pochi della nobiltà patrizia e dell'infima plebe. Benedetto sciolse e decise la delicata questione con animo generoso e fraterna carità: «Sia lo schiavo sia il libero - diceva - siamo in Cristo una cosa sola e sotto il medesimo Signore esercitiamo un eguale servizio militare... Quindi sia eguale... per tutti la carità; un medesimo ordine esteriore secondo i meriti si dimostri verso tutti».(25) A coloro che hanno abbracciato il suo istituto, comanda che «tutti i beni siano in comune per tutti»,(26) non per forza o per una certa costrizione, ma con spontanea e generosa volontà. Tutti inoltre siano trattenuti nella stabilità della vita religiosa tra le mura del monastero, in modo tale però da dover non solamente attendere alla divina salmodia e allo studio,(27) ma anche alla coltivazione dei campi,(28) ai mestieri manuali(29) e infine ai sacri lavori dell'apostolato. Infatti «l'ozio è il nemico dell'anima; e perciò in tempi determinati i fratelli devono essere occupati in lavori manuali...».(30) Tuttavia questa sia la prima legge per tutti, a questo si deve tendere con ogni cura e diligenza, che cioè «nulla sia anteposto alla lode divina».(31) Benché infatti «noi sappiamo che Dio è presente in ogni luogo.... tuttavia dobbiamo soprattutto credere questa verità senza il minimo dubbio quando stiamo compiendo il nostro lavoro della lode divina... Riflettiamo quindi in qual modo convenga stare al cospetto della Divinità e degli angeli, e rimaniamo a salmodiare in modo tale che la nostra mente accompagni la nostra voce».(32)

In queste più importanti norme e sentenze, che Ci è parso bene in certo modo degustare dalla Regola benedettina, non solo Ci è dato di facilmente scorgere e apprezzare la prudenza della medesima regola monastica, la sua opportunità e quella mirabile corrispondenza e consonanza con la natura umana, ma anche la sua importanza e la sua somma elevatezza. Mentre in quel secolo barbaro e turbolento, la coltivazione dei campi, le arti meccaniche e nobili, gli studi delle scienze sacre e profane non godevano alcuna stima, ma erano da tutti deplorevolmente trascurati, nei monasteri benedettini andò crescendo una schiera quasi innumerevole di agricoltori, di artigiani e di uomini dotti che si sforzò secondo le sue possibilità non solo di conservare incolumi i prodotti della antica sapienza, ma richiamò anche alla pace, all'unione, a un'operosa attività popoli vecchi e giovani, spesso tra di sé belligeranti; e li ricondusse felicemente dalla barbarie, che stava rinascendo, dalle devastazioni e dalle rapine a costumi di umana e cristiana mitezza, alla tolleranza della fatica, alla luce della verità e al rinnovamento della civiltà tra le nazioni, civiltà ispirata alla sapienza e all'amore.

Ma ciò non è tutto: nell'Istituzione della vita benedettina è ordinato in primo luogo che ognuno, mentre con le mani o con la mente lavora, miri e tenda soprattutto a sollevarsi continuamente verso Cristo e ad infiammarsi del suo perfettissimo amore. Non possono infatti i beni di questo mondo, anche tutti insieme, saziare l'anima dell'uomo, che Dio ha creato per il suo conseguimento; ma essi hanno piuttosto dal loro Creatore la missione di muoverci e portarci, come gradini di una scala, al raggiungimento del medesimo Dio. Per questo è anzitutto indispensabile che «nulla venga preposto all'amore di Cristo»;(33) «che nulla si tenga più caro che Cristo»;(34) «che nulla assolutamente sia anteposto a Cristo, che ci conduce alla vita eterna».(35)

A questa ardente carità verso il divin Redentore deve rispondere l'amore verso i prossimi, che dobbiamo abbracciare tutti come fratelli e con ogni mezzo aiutare. Mentre gli odi e le rivalità sollevano e spingono gli uomini gli uni contro gli altri; mentre rapine, stragi, infinite disgrazie e miserie profluiscono da quel torbido sconvolgimento di popoli e di eventi, Benedetto raccomanda ai suoi seguaci queste santissime leggi: «Si dimostri ogni cura e sollecitudine specialmente nell'ospitalità dei poveri e dei pellegrini, perché in essi maggiormente Cristo viene accolto».(36) «Tutti gli ospiti che arrivano siano accolti come Cristo, poiché egli un giorno dirà: Sono stato ospite e mi avete ricevuto».(37) «Prima di tutto e sopra tutto si deve avere cura dei malati, affinché così si serva ad essi, come si servirebbe allo stesso Cristo, poiché egli ha detto: sono stato infermo e mi avete visitato».(38) Così animato e sospinto da questa ardentissima carità verso Dio e il prossimo, condusse a termine e perfezionò la sua impresa; e quando già, pieno di gioia e di meriti, pregustava le aure celesti dell'eterna felicità, «il sesto giorno... prima del suo transito, si fece aprire la tomba. E assalito tosto dalla febbre, cominciò ad essere consumato da una ardente fiamma; aggravandosi di giorno in giorno questo languore, al sesto giorno si fece portare dai suoi discepoli nella chiesa, dove provvedutosi per il suo supremo viaggio col ricevere il corpo e il sangue del Signore, e sostenendo le affrante membra sulle braccia dei suoi figli, alzate le mani verso il cielo, stette immobile e mormorando ancora voci di preghiera emise l'ultimo respiro».(39)

 

II.
BENEMERENZE DI S. BENEDETTO
E DEL SUO ORDINE
PER LA CHIESA E LA CIVILTÀ

Dopo che il santo patriarca con pio transito fu volato al cielo, l'ordine monastico che egli aveva fondato non solo non decadde né si sciolse, ma parve che, come era stato dal suo continuo esempio in ogni tempo nutrito, alimentato e formato, così anche ora fosse sorretto e fortificato dal suo celeste patrocinio, sì da prendere di anno in anno sempre maggiori sviluppi.

Tutti coloro che studiano e giudicano gli avvenimenti umani con retto giudizio e non guidati da preconcetti, ma sui documenti della storia., devono riconoscere quanto grande sia stata l'efficacia e la forza esercitata dall'ordine benedettino in quella antica età, quanti e quanto grandi benefici siano derivati ai secoli che seguirono. Infatti i monaci benedettini oltre ad essere stati, come dicemmo, quasi gli unici in quell'oscuro periodo di storia, nell'ignoranza estrema degli uomini e nella rovina generale della società, a custodire intatti i codici delle scienze e delle lettere, a trascriverli con ogni diligenza e a commentarli, essi furono ancora dei primi ad esercitare e con ogni mezzo promuovere le arti, le scienze e l'insegnamento. Come la chiesa cattolica specialmente nei primi tre secoli della sua vita fu mirabilmente rafforzata e accresciuta col sangue sacro dei suoi martiri, e come nella medesima e susseguente epoca l'integrità della sua divina dottrina fu conservata pura e intatta contro le lotte e le perfidie degli eretici per la strenua e sapiente opera dei santi padri, così si può sicuramente affermare che l'ordine benedettino e i suoi fiorentissimi monasteri furono suscitati dalla sapienza e ispirazione divina precisamente perché, al crollo dell'impero romano e alle invasioni generali di popoli feroci spinti da furore guerresco, la cristianità potesse non solo riparare le sue perdite, ma anche, con un'operosità continua e instancabile, ricondurre nuovi popoli, mansuefatti dalla verità e dalla carità dell'evangelo, alla concordia fraterna, ad un lavoro redditizio, in una parola, alla virtù, che è regolata dagli insegnamenti del nostro Redentore e alimentata dalla sua grazia. Come invero nei secoli passati le legioni romane marciavano per le vie consolari per assoggettare all'impero di Roma tutte le nazioni, così ora numerose schiere di monaci, le cui armi «non sono carnali, ma potenti in Dio solo» (2 Cor 10, 4), sono inviate dal sommo pontefice, affinché dilatino felicemente il pacifico regno di Gesù Cristo fino agli estremi confini della terra, non con la spada, non con la forza, non con le stragi, ma con la croce e con l'aratro, con la verità e con l'amore.

E dovunque ponevano il loro piede queste inermi schiere, formate di predicatori della dottrina cristiana, di artigiani, di agricoltori e di maestri di scienze umane e divine, ivi stesso le terre boscose e incolte erano solcate dall'aratro; sorgevano le sedi delle arti e delle scienze; gli abitanti dalla loro vita rozza e selvaggia erano educati alla convivenza e alla civiltà sociale, e si faceva brillare davanti a loro l'esempio della dottrina evangelica e la luce della virtù. Innumerevoli apostoli, accesi di soprannaturale carità, percorsero incognite e turbolente regioni d'Europa, le innaffiarono generosamente del loro sudore e del loro sangue, e ai popoli pacificati portarono la luce della cattolica verità e santità. Giustamente si può affermare che, per quanto Roma, adorna già di molte vittorie, avesse esteso la forza del suo dominio per terra e per mare, pure per mezzo di questi apostoli «fu meno quello che conquistò a Roma lo sforzo guerresco, di quello che le abbia assoggettato la pace cristiana».(40) Difatti non solo l'Inghilterra, la Francia, l'Olanda, la Frisia, la Danimarca, la Germania, la Scandinavia e l'Ungheria, ma anche non poche nazioni slaviche si vantano dell'apostolato di questi monaci e li annoverano tra le loro glorie e come gli illustri fondatori della loro civiltà. E dal loro ordine quanti vescovi sono usciti, i quali o ressero con sapiente governo diocesi già stabilite o non poche ne fondarono e fecondarono con le loro fatiche! Quanti maestri ed eccellenti dottori innalzarono famosissime cattedre di studi e di arti liberali, e non solo illuminarono le intelligenze di moltissimi, offuscate da errori, ma diedero ovunque forti impulsi alle scienze sacre e profane. Infine quanti santissimi uomini si segnalarono, i quali, aggregati alla famiglia, conquistarono con ogni sforzo la perfezione evangelica e con ogni industria propagarono il regno di Gesù Cristo, con l'esempio delle loro virtù, con la sacra predicazione e con mirabili prodigi che Dio concedeva loro di operare.

Molti di questi monaci, come ben sapete, venerabili fratelli, o furono insigniti della dignità episcopale o anche rifulsero della maestà del sommo pontificato. I nomi di questi apostoli, vescovi, santi, sommi pontefici sono scritti a caratteri d'oro negli annali della chiesa e sarebbe lungo qui ricordarli ad uno ad uno; del resto, risplendono di sì vivida luce e hanno sì grande importanza nella storia da essere con ogni facilità conosciuti da tutti.

 

III. 
INSEGNAMENTI DELLA «REGOLA BENEDETTINA»
AL MONDO CONTEMPORANEO

Stimiamo pertanto utili che questi pensieri, accennati appena alla sfuggita, siano durante queste commemorazioni secolari, meditati attentamente, e che tornino a brillare nella loro chiarissima luce davanti agli occhi del mondo, affinché tutti più facilmente imparino da essi non solo ad esaltare e lodare questi fasti gloriosi della chiesa, ma anche perché con volontà pronta e generosa si diano a seguire gli esempi e gli ammaestramenti di santità che da essi promanano.

Non solamente le antiche età ebbero opportunità di ricevere infiniti vantaggi da questo grande patriarca e dal suo ordine, ma anche il nostro tempo deve imparare da lui molte e importanti lezioni. E primi di tutti - del che tuttavia non abbiamo il minimo dubbio - imparino i membri della sua numerosissima famiglia a seguirne le orme con impegno ogni giorno più intenso e a mettere in pratica nella propria vita la sua dottrina e gli esempi in virtù e in santità. Così sicuramente avverrà che, non solo corrispondano con animo generoso e con fertile operosità a quella voce celeste che, guidati da suprema vocazione, hanno seguìto quando abbracciarono la vita monastica e non solo si assicurino la serena pace della loro coscienza e soprattutto la loro eterna salvezza, ma seguirà pure che potranno impiegare con frutto abbondante le loro fatiche per il vantaggio generale del popolo cristiano e per la propagazione della gloria divina.

Inoltre anche tutte le classi della società, se mireranno con sollecita e diligente attenzione alla vita di san Benedetto, ai suoi insegnamenti e ai suoi illustri esempi, si sentiranno certamente mosse dal suo spirito e dal suo impulso soavissimo e potentissimo; e riconosceranno facilmente che anche la nostra epoca, agitata e ansiosa per tante sì gravi rovine materiali e morali, per tanti pericoli e disastri, può da lui attendersi i necessari rimedi. Innanzi tutto, però, ricordino e considerino attentamente che le auguste basi della nostra religione e le norme di vita da essa dettate sono i più saldi e stabili fondamenti dell'umana società: se queste vengono sovvertite o indebolite, ne seguirà quasi necessariamente che tutto ciò che è ordine, pace, tranquillità di popoli e di nazioni vada gradatamente in rovina. Questa verità che la storia dell'ordine benedettino, come vedemmo, dimostra con tanta eloquenza, l'aveva compresa già nell'antichità pagana un sommo ingegno, quando preferiva questo giudizio: «Voi, pontefici ... con maggiore accortezza ... difendete la città con la religione, che non lo sia con le stesse mura».(41) E altrove il medesimo autore: «Tolta via (questa santità e religione), ne consegue disordine nella vita ed enorme confusione; e dubito fortemente che, dopo soppresso il rispetto verso gli dèi, non venga pure a scomparire la fedeltà e la convivenza dell'umana società e la più eccelsa di tutte le virtù, la giustizia».(42)

Quindi il primo e principale dovere sia questo: rispettare il sommo Dio; osservare in pubblico e in privato le sue sante leggi: se queste saranno calpestate, non vi sarà più nessun potere al mondo che possegga tali freni con cui sufficientemente trattenere e moderare, secondo il diritto, le travolgenti bramosie dei popoli. La religione infatti è l'unica che abbia in sé le basi sicure della rettitudine e dell'onestà.

Il nostro santo patriarca ci fornisce lezioni e stimoli anche in un'altra virtù di cui i nostri tempi sentono tanta necessità: che Dio, cioè, non solo deve essere onorato e adorato, ma anche con ardente carità amato come Padre. E poiché questa carità oggi si è miseramente intiepidita e illanguidita, ne consegue che moltissimi uomini cercano piuttosto i beni della terra che quelli del cielo; e questo con brama così violenta, che non di rado genera tumulti, semina rivalità e odi ferocissimi. Orbene, poiché Dio eterno è l'autore della nostra vita e da lui ci sono elargiti infiniti benefici, è stretto dovere per tutti l'amarlo con ardente carità e soprattutto dirigere e indirizzare a lui noi stessi e le nostre opere. Da questo divino amore deve nascere la fraterna carità verso i prossimi, i quali, di qualsiasi stirpe, nazione o classe siano, dobbiamo stimare tutti come fratelli in Gesù Cristo: cosicché di tutti i popoli e di tutte le classi della società si formi una sola famiglia cristiana, non divisa da un'esagerata ricerca della privata utilità, ma congiunta insieme amichevolmente dal vicendevole scambio di aiuti. Se questi insegnamenti, con i quali un tempo Benedetto illuminò, ristorò, rianimò e ridusse a migliori costumi la decadente e turbolenta società di quelle epoche, oggi pure fossero universalmente applicati e fiorissero, allora anche il nostro secolo potrebbe riparare le sue rovine materiali e morali, e portare le sue profonde piaghe a una pronta e perfetta guarigione.

Oltre a questo ancora, venerabili fratelli, il legislatore dell'ordine benedettino ci insegna una verità che oggi molto volentieri si proclama altamente, ma troppo spesso non si pratica rettamente, come sarebbe conveniente e doveroso: che cioè il lavoro umano non è qualche cosa di ignobile, di odioso e molesto, ma che deve essere amato, come cosa dignitosa e gradita. Infatti la vita di lavoro, vissuta sia nel coltivare i campi, sia negli impieghi delle officine, sia anche nelle occupazioni intellettuali, non avvilisce gli animi, ma li nobilita; non li rende schiavi, ma giustamente li rende padroni e plasmatori di quelle sostanze che ci circondano e che faticosamente si maneggiano. Gesù stesso nella sua gioventù, quando ancora stava nascosto tra le mura domestiche, non disdegnò di esercitare il mestiere di falegname nell'officina del suo padre putativo e volle col suo sudore divino consacrare il lavoro umano. Quindi non solo coloro che attendono agli studi delle lettere e delle scienze, ma anche coloro che stanno sudando nei mestieri manuali per potersi guadagnare il loro pane quotidiano, riflettano che esercitano una cosa nobilissima, con cui sono in grado di provvedere al benessere di tutta la società civile. Questo lavoro tuttavia lo esercitino, come ci insegna il santo patriarca Benedetto, con la mente e con il cuore elevati verso il cielo; lo compiano non per forza, ma per amore; e infine anche quando difendono i loro legittimi diritti, lo facciano con maniere giuste e pacifiche, non con l'invidia alla fortuna altrui, non in modo scomposto e turbolento. Ricordino quella divina sentenza: «Mangerai il pane nel sudore della tua fronte» (Gn 3, 19); questo comando dev'essere osservato da tutti gli uomini in spirito di obbedienza e di espiazione.

Ma soprattutto non si dimentichino di questo: che noi dobbiamo, con uno sforzo sempre più intenso, dalle cose terrene e caduche, siano esse elaborate o scoperte con l'acume dell'ingegno, siano esse plasmate con arte faticosa, sollevarci a quei beni celesti e immortali; conquistati i quali potremo allora solamente godere vera pace, sereno riposo ed eterna felicità.

 

IV.
LA RICOSTRUZIONE
DEL MONASTERO DI MONTECASSINO,
DOVEROSO TRIBUTO DI RICONOSCENZA

La guerra, quando nella recente conflagrazione raggiunse le spiagge della Campania e del Lazio, colpì in modo compassionevole, come ben sapete, venerabili fratelli, anche la sacra sommità del Monte Cassino; e per quanto Noi con ogni Nostro potere, pregando, esortando e supplicando, nulla avessimo tralasciato affinché non si arrecasse una così enorme ingiuria alla nostra santa religione, alle arti e alla stessa umana civiltà, pur tuttavia essa ha distrutto e annientato quella preclara sede di studi e di pietà che, quasi luce vincitrice delle tenebre, era emersa dalle onde dei secoli. Mentre città, borghi e villaggi tutt'intorno venivano ridotti a cumuli di rovine, parve che anche l'Archicenobio Cassinese, casa madre dell'ordine benedettino, volesse in certo modo partecipare al lutto dei suoi figli e condividerne le disgrazie. Di esso quasi null'altro rimane incolume se non il venerabile ipogeo, dove con ogni devozione sono conservati i resti mortali del santo patriarca.

Al presente, ove prima risplendevano artistici monumenti, vi sono mura pericolanti, macerie e rovine, che gli sterpi miseramente ricoprono e soltanto una piccola dimora per i monaci è stata recentemente costruita nelle vicinanze. Ma perché non sarà lecito sperare che, mentre si commemora il XIV centenario da che il nostro santo conquistò la felicità celeste, dopo aver cominciato e condotto a termine impresa così grandiosa, perché - diciamo - non possiamo sperare che con il concorso di tutti i buoni, e specialmente dei più facoltosi e più generosi, venga al più presto restituito al suo primitivo splendore questo antichissimo archicenobio? Un tale atto di generosità è certamente dovuto verso san Benedetto da parte del mondo civile, che deve attribuire in gran parte al santo e alla sua operosa famiglia, se oggi risplende tanta luce di dottrina e possiede antichi documenti letterari. Confidiamo perciò che l'esito risponda felicemente alla Nostra speranza e ai Nostri voti; e questa impresa sia non solamente un dovere di ricostruzione e di riparazione, ma un auspicio pure di tempi migliori nei quali lo spirito dell'ordine benedettino e i suoi quanto mai opportuni insegnamenti vengano di giorno in giorno sempre più a rifiorire.

Con questa soavissima speranza, ad ognuno di voi, venerabili fratelli, e al gregge alle cure di ciascuno affidato, come pure a tutt'intera la famiglia dei monaci che si gloria di questo grande legislatore, maestro e padre, con tutta l'effusione dell'animo impartiamo la benedizione apostolica, auspicio delle celesti grazie e testimonio della Nostra benevolenza.

Roma, presso la Basilica di San Pietro, il 21 marzo, nella festa di san Benedetto, anno 1947, IX del Nostro pontificato.

 

PIUS XII


(1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Fulgens radiatur decimoquarto exacto saeculo a pientissimo S. Benedicti obitu, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos, aliosque locorum Ordinarios pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 21 martii 1947: AAS 39(1947), pp.137-155.

I. L'incomparabile figura storica del patriarca: origine e primi orientamenti di s. Benedetto; a Subiaco; a Montecassino; preghiera e lavoro; vita di famiglia;

fratelli in Cristo; il monastero benedettino piccolo «regno di Dio»; il suo pio transito. - II. Eccelse benemerenze di s. Benedetto e del suo ordine per la chiesa e la civiltà. - III. Insegnamenti della «Regola benedettina» al mondo contemporaneo. IV. La ricostruzione del monastero di Montecassino doveroso e generale tributo di riconoscenza.

(2) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, Prol.: PL 66, 126.

(3) Cf. CIC., De Off., II, 8.

(4) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, Prol.: PL 66, 126. 

(5) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 8: PL 66, 150.

(6) Cf. S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, Prol.: PL 66, 126.

(7) SALVIANUS, De gub. mundi, VII, 1: PL 53, 130.

(8) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, Prol.: PL 66, 126.

(9) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 3: PL 66, 132.

(10) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II; 3: PL 66, 140. 

(11) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 3: PL 66, 140.

(12) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 8: PL 66, 148.

(13) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 8: PL 66, 152.

(14) PIUS X, Litt. apost. Archicoenobium Casinense, 10 febr. 1913: AAS 5(1913), p. 113.

(15) S. THOMAS, Summa theol., II-II, q. 188, a. 6.

(16) MABILLON, Annales Ord. S. Bened., Lucae 1739, t. I, p. 107.

(17) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., III, 16: PL 77, 261.

(18) Cf. BOSSUET, Panégirique de S. Benoît: Oeuvres compl., vol. XII, Paris 1863, p. 165.

(19) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 36: PL 66, 200. 

(20) Reg. S. Benedicti, c. 65.

(21) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 3. 

(22) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 2.

(23) Reg. S. Benedicti, c. 2.

(24) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 3. 

(25) Reg. S. Benedicti, c. 2.

(26) Reg. S. Benedicti, c. 33.

(27) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 48.

(28) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 48. 

(29) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 57. 

(30) Reg. S. Benedico, c. 48.

(31) Reg. S. Benedicti, c. 43.

(32) Reg. S. Benedico, c. 19. 

(33) Reg. S. Benedicti, c. 4. 

(34) Reg. S. Benedicti, c. 5.

(35) Reg. S. Benedicti, c. 72.

(36) Reg. S. Benedicti, c. 53. 

(37) Reg. S. Benedicti, c. 53. 

(38) Reg. S. Benedicti, c. 36.

(39) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 37: PL 67, 202.

(40) Cf. S. LEO M., Sermo I in natali Ap. Petri et Pauli: PL 54, 423.

(41) CIC., De nat. Deor., II, c. 40. 

(42) CIC., De nat. Deor., I, c. 2.

 



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