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VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY

(5-13 LUGLIO 2015)

INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SOCIETÀ CIVILE

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Stadio León Condou della scuola San José, Asunción (Paraguay)
Sabato, 11 luglio 2015

[Multimedia]


 

Buon pomeriggio!

Io ho scritto questo testo in base alle domande che mi sono arrivate e che non sono tutte quelle che avete fatto voi, e così quello che manca lo completerò mentre parlo. In modo che, per quanto possibile, riesca a dare il mio pensiero sulle vostre riflessioni.

Sono contento di trovarmi con voi, rappresentanti della società civile, per condividere i sogni e gli ideali di un futuro migliore, e i problemi. Ringrazio Mons. Adalberto Martínez Flores, Segretario della Conferenza Episcopale del Paraguay, per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutti. E ringrazio le sei persone che hanno parlato, presentando ciascuna un aspetto della vostra riflessione.

Vedervi tutti, ciascuno proveniente da un settore, da un'organizzazione di questa amata società paraguaiana, con le sue gioie, preoccupazioni, lotte e ricerche, mi porta a compiere un rendimento di grazie a Dio. Ossia, sembra che il Paraguay non sia morto, grazie a Dio. Perché un popolo che non mantiene vive le sue preoccupazioni, un popolo che vive nell'inerzia dell'accettazione passiva, è un popolo morto. Al contrario, vedo in voi la linfa di una vita che scorre e che vuole germinare. Questo sempre Dio lo benedice. Dio è sempre a favore di tutto ciò che aiuta a sollevare, a migliorare la vita dei suoi figli. Ci sono cose che vanno male, sì. Ci sono situazioni ingiuste, sì. Ma vedervi e sentirvi mi aiuta a rinnovare la speranza nel Signore, che continua ad agire in mezzo al suo popolo. Voi venite da diverse visioni, diverse situazioni e vari percorsi di ricerca, tutti insieme formate la cultura paraguaiana. Tutti siete necessari nella ricerca del bene comune. «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate» (Enc. Laudato si’, 158), vedervi qui è un dono. E' un dono perché nelle persone che hanno parlato ho visto la volontà per il bene della patria.

1. In riferimento alla prima domanda, mi è piaciuto sentire dalla bocca di un giovane la preoccupazione di far sì che la società sia un luogo di fraternità, di giustizia, di pace e dignità per tutti. La giovinezza è tempo di grandi ideali. A me viene spesso da dire che mi rattrista vedere un giovane pensionato. Quanto è importante che voi giovani – ed eccome se ci sono giovani qui in Paraguay! –che voi giovani comprendiate che la vera felicità passa attraverso la lotta per un Paese fraterno. Ed è bene che voi giovani notiate che la felicità e il piacere non sono sinonimi. Una cosa è la felicità e la gioia… e altra cosa è un piacere passeggero. La felicità costruisce, è solida, edifica. La felicità richiede impegno e dedizione. Voi siete molto preziosi per camminare nella vita come “anestetizzati”! Il Paraguay ha un'abbondante popolazione giovane ed è una grande ricchezza. Per questo motivo, penso che la prima cosa da fare è evitare che questa forza, questa luce che c'è nei vostri cuori si spenga, e contrastare la crescente mentalità che considera inutile e assurdo aspirare a cose che valgono la pena: “No… lascia perdere… su questo non c'è niente da fare…”. Invece, la mentalità che cerca di andare oltre è considerata come assurda. Giocarsela per qualcosa, giocarsela per qualcuno. Questa è la vocazione della gioventù! E non abbiate paura di dare tutto in campo. Giocate pulito, giocate mettendocela tutta. Non abbiate paura di dare il meglio di voi. Non cercate gli accordi previ per evitare la fatica, la lotta. Non corrompete l'arbitro!

Questo sì, questa lotta, non fatela da soli. Cercate di discutere, approfittate per ascoltare la vita, le storie, i racconti delle persone anziane e dei vostri nonni, perché lì c'è sapienza. Perdete molto tempo ad ascoltare tutte le cose buone che hanno da insegnarvi. Essi sono i custodi di quel patrimonio spirituale di fede e di valori che plasmano un popolo e rischiarano la strada. Trovate consolazione anche nella forza della preghiera, in Gesù. Nella sua presenza quotidiana e costante. Lui non delude. Gesù invita attraverso la memoria del vostro popolo, è il segreto perché il vostro cuore si mantenga sempre gioioso nella ricerca della fraternità, della giustizia, della pace e della dignità per tutti. Perché questo può essere un pericolo: “Sì, sì, io voglio fraternità, giustizia, pace, dignità…”, però può diventare un nominalismo. Semplici parole. No. La fraternità, la giustizia, la pace, la dignità o sono concrete o non servono. Sono di tutti i giorni. Si fanno tutti i giorni. Dunque, io chiedo a te, giovane: come questi ideali li costruisci giorno per giorno, nel concreto? Anche se sbagli, ti correggi e vai avanti; ma la concretezza. Vi confesso che a volte mi dà un po' fastidio, o per dirlo in termini non così fini, un po' il “cimurro”, ascoltare discorsi magniloquenti con tutte queste parole e quando uno conosce la persona che parla dice: Che bugiardo che sei! Per questo le parole da sole non servono. Se dici una parola, impegnati per quella parola! Lavoraci giorno per giorno, giorno per giorno. Sacrificati per quello. Impegnati!

Mi è piaciuta la poesia di Carlos Miguel Giménez, che Mons. Adalberto [Martínez Flores] ha citato. Penso che riassuma bene quello che volevo dirvi: «[Sogno] un paradiso senza guerra tra fratelli, ricco di uomini sani di anima e cuore... e un Dio che benedice la loro nuova ascensione». Sì, è un sogno. E ci sono due garanzie: che il sogno al risveglio sia realtà di tutti i giorni, e che Dio sia riconosciuto come la garanzia della nostra dignità come uomini. Sì, Dio è la garanzia della nostra dignità di uomini.

2. La seconda domanda si riferiva al dialogo come mezzo per costruire un progetto di nazione che includa tutti. Il dialogo non è facile. C'è anche il dialogo-teatro, cioè rappresentiamo il dialogo, giochiamo al dialogo, e poi parliamo tra noi due, e quello rimane cancellato. Il dialogo è a carte scoperte. Se tu nel dialogo non dici realmente ciò che senti, ciò che pensi, e non ti impegni ad ascoltare l'altro e a correggere quello che pensi tu e a confrontarti, il dialogo non serve, è una verniciatura. Certo, è vero, che il dialogo non è facile, bisogna superare molte difficoltà e, a volte, sembra che noi ci impuntiamo a rendere le cose ancora più difficili. Perché ci sia dialogo è necessaria una base fondamentale, un'identità. Certo. Per esempio, io penso al dialogo nostro, il dialogo interreligioso, dove parliamo tra rappresentanti di diverse religioni. Ci riuniamo, a volte, per parlare… con i punti di vista, ma ciascuno parla a partire dalla propria identità. “Io sono buddista, io sono evangelico, io sono ortodosso, io sono cattolico”. Ciascuno si esprime con la propria identità, non negozia la propria identità. Vale a dire, perché ci sia dialogo è necessaria questa base fondamentale. E qual è l'identità in un Paese? - qui stiamo parlando del dialogo sociale -: l'amore per la patria. Prima la patria, poi i miei affari! Prima la patria. Questa è l'identità. Dunque io, a partire da questa identità, mi metto a dialogare. Se mi metto a dialogare senza questa identità, il dialogo non serve. Inoltre, il dialogo presuppone, esige da noi la ricerca della cultura dell'incontro. Un incontro che sappia riconoscere che la diversità non solo è buona, è necessaria. L'uniformità ci annulla, ci rende automi, La ricchezza della vita sta nella diversità. Per cui il punto di partenza non può essere: “Mi metto a dialogare, però quello sbaglia”. No, no, non possiamo presupporre che l'altro sbaglia. Io vado con il mio e ascolterò che cosa dice l'altro, in che cosa mi arricchisce l'altro, in che cosa l'altro mi fa rendere conto che sto sbagliando, e che cosa posso dare io all'altro. E' un dare e ricevere, dare e ricevere, ma con il cuore aperto. Se c'è il presupposto che l'altro si sbaglia, è meglio andare a casa e non iniziare il dialogo. Non è così? Il dialogo è per il bene comune, e il bene comune si cerca a partire dalle nostre differenze, dando sempre la possibilità a nuove alternative. Vale a dire: cerca qualcosa di nuovo. Sempre, quando c'è vero dialogo, si finisce – permettetemi la parola, lo dico nobilmente – in un nuovo accordo, dove tutti ci siamo messi d'accordo su qualcosa. Ci sono differenze? Rimangono in disparte, di riserva. Ma su quel punto, o su quei punti su cui ci siamo messi d'accordo, ci impegniamo e li difendiamo. E' un passo avanti. Questa è la cultura dell'incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta”. Vediamo come prendo la mia. Non, no, non dialoghi, non perder tempo. Se vai con questa intenzione non perdere tempo. E' cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, pensare a una soluzione migliore per tutti. Molte volte questa cultura dell'incontro si vede coinvolta nel conflitto. Cioè… Abbiamo appena visto un bel balletto. Tutto era coordinato, con un'orchestra che era una vera sinfonia di accordi. Tutto era perfetto. Tutto andava bene. Ma nel dialogo non sempre è così, non tutto è un balletto perfetto o un'orchestra sintonizzata. Nel dialogo si dà il conflitto. è logico e prevedibile. Perché se io penso in un modo e tu in un altro, e ci confrontiamo, si viene a creare un conflitto. Non dobbiamo temerlo! Non dobbiamo ignorare il conflitto. Al contrario, siamo invitati ad accettare il conflitto. Se non accettiamo il conflitto – “No, mi viene il mal di testa! Che lui vada a casa con la sua idea, e io rimango con la mia” – non possiamo mai dialogare. Questo significa: «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 227). Ci mettiamo a dialogare, c'è un conflitto, lo accetto, lo risolvo ed è un anello di un nuovo processo. E' un principio che ci deve aiutare molto. «L'unità è superiore al conflitto» (ibid. 228). Il conflitto esiste. Bisogna accettarlo, bisogna cercare di risolverlo fin dove si può, ma con la prospettiva di raggiungere un'unità che non è uniformità, ma unità nella diversità. Un'unità che non rompe le differenze, ma che le vive in comunione attraverso la solidarietà e la comprensione. Cercando di capire le ragioni dell'altro, cercando di ascoltare la sua esperienza, i suoi desideri, possiamo vedere che in gran parte sono aspirazioni comuni. E questa è la base dell'incontro: siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre, di un Padre celeste, e ciascuno con la propria cultura, la propria lingua, le proprie tradizioni, ha molto da offrire alla comunità. Ora, sono disposto ad accettare questo? Se sono disposto ad accettarlo, e a dialogare così, allora mi siedo a dialogare; se non sono disposto, meglio non perdere tempo. Le autentiche culture non sono mai chiuse in sé stesse – muoiono, se si chiudono in sé stesse muoiono – ma sono chiamate ad incontrarsi con altre culture e creare nuove realtà. Quando studiamo la storia troviamo culture millenarie che adesso non ci sono più. Sono morte, per molte ragioni. Ma una di queste è l'essersi chiuse in sé stesse. Senza questo presupposto essenziale, senza questa base di fraternità sarà molto difficile giungere al dialogo. Se qualcuno considera che ci sono persone, culture, situazioni di seconda, terza o quarta categoria... qualcosa di sicuro andrà male, perché manca semplicemente il minimo, che è il riconoscimento della dignità dell'altro. Che non ci sono persone di prima, di seconda, di terza, di quarta categoria: sono allo stesso livello.

3. E questo mi dà lo spunto per rispondere all'inquietudine espressa nella terza domanda: accogliere il grido dei poveri per costruire una società più inclusiva. E' curioso: l'egoista si esclude. Noi vogliamo includere. Ricordate la parabola del figlio prodigo: quel figlio che domandò l'eredità al padre, si prese tutti i soldi, li sprecò nella bella vita, e alla fine di un lungo tempo in cui aveva perso tutto, poiché aveva mal di stomaco per la fame, si ricordò di suo padre. E suo padre lo aspettava. E' la figura di Dio, che ci aspetta sempre. E quando lo vede venire, lo abbraccia e fa festa. Invece, l'altro figlio, quello che era rimasto a casa, si arrabbia e si autoesclude: “Io con questa gente non mi metto, io mi sono comportato bene… Io ho una gran cultura, ho studiato nella tale università, appartengo a questa famiglia e a questa stirpe, e con questi non mi mischio…”. Non escludere nessuno, ma non autoescludersi, perché tutti abbiamo bisogno di tutti.

E un aspetto fondamentale per promuovere i poveri è anche nel modo in cui li vediamo. Non serve uno sguardo ideologico, che finisce per utilizzare i poveri al servizio di altri interessi politici o personali (cfr ibid., 199). Le ideologie finiscono male, non servono. Le ideologie hanno una relazione o incompleta o malata o cattiva con il popolo. Le ideologie non si fanno carico del popolo. Per questo, osservate nel secolo passato, che fine hanno fatto le ideologie? Sono diventate dittature, sempre. Pensano per il popolo, non lasciano pensare il popolo. O come diceva quell'acuto critico dell'ideologia, quando gli dissero: “Sì, però questa gente ha buona volontà e cerca di fare delle cose per il popolo…”. “Sì, sì, tutto per il popolo, ma niente con il popolo!”. Queste sono le ideologie.

Per ricercare effettivamente il bene dei poveri, la prima cosa è avere una vera preoccupazione per la loro persona, apprezzarli per la loro bontà. Ma un reale apprezzamento richiede di essere disposti a imparare dai poveri. I poveri hanno molto da insegnarci in umanità, in bontà, in sacrificio, in solidarietà. E noi cristiani abbiamo inoltre un motivo in più per amare e servire i poveri: perché in loro abbiamo il volto, vediamo il volto e la carne di Cristo, che si è fatto povero per arricchirci per mezzo della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9).

I poveri sono la carne di Cristo. A me piace chiedere a qualcuno, quando confesso le persone – adesso non ho molte opportunità di confessare come avevo nella diocesi precedente – ma mi piace domandare: “Lei aiuta la gente?! – “Sì, sì, faccio l'elemosina” – “Ah! E, mi dica, quando fa l'elemosina, Lei tocca la mano a chi fa l'elemosina, o getta la moneta e fa così?”. Sono modi di fare. “Quando Lei fa quell'elemosina, guarda negli occhi la persona o guarda da un'altra parte?”. Questo è disprezzare il povero. Sono i poveri. Pensiamoci bene. E' uno come me. Se sta passando un brutto momento per mille ragioni – economiche, politiche, sociali o personali –, io potrei essere al suo posto e potrei stare desiderando che qualcuno mi aiuti. E oltre a desiderare che qualcuno mi aiuti, se mi trovo in quel posto ho diritto ad essere rispettato. Rispettare il povero. Non usarlo come oggetto per lavare le nostre colpe. Imparare dai poveri, con quello che dicono, con le cose che hanno, con i valori che hanno. E noi cristiani abbiamo quel motivo: che sono la carne di Gesù.

Certamente, sono molto necessarie per un Paese la crescita economica e la creazione di ricchezza, e che questa arrivi a tutti i cittadini, senza che nessuno rimanga escluso. E questo è necessario. La creazione di questa ricchezza dev'essere sempre in funzione del bene comune, di tutti, e non di quello di pochi. E in questo bisogna essere molto chiari. «L'adorazione dell'antico vitello d'oro (cfr Es 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 55). Le persone la cui vocazione è di aiutare lo sviluppo economico hanno il compito di assicurare che questo abbia sempre un volto umano. Lo sviluppo economico deve avere un volto umano. No all'economia senza volto! Nelle loro mani c'è la possibilità di offrire un lavoro a molte persone e dare così speranza a tante famiglie. Portare il pane a casa, offrire ai figli un tetto, offrire salute e educazione, sono aspetti essenziali della dignità umana, e gli imprenditori, i politici, gli economisti, devono lasciarsi interpellare da essi. Vi chiedo di non cedere ad un modello economico idolatrico che abbia bisogno di sacrificare vite umane sull'altare del denaro e del profitto. Nell'economia, nell'azienda, nella politica, la prima cosa è sempre la persona, e l'ambiente in cui vive.

Giustamente il Paraguay è noto in tutto il mondo per essere stato la terra dove iniziarono le “Riduzioni”, una delle più interessanti esperienze di evangelizzazione e di organizzazione sociale della storia. In esse, il Vangelo era l'anima e la vita di comunità dove non c'era fame, non c'era disoccupazione, né analfabetismo né oppressione. Questa esperienza storica ci insegna che una società più umana è possibile anche oggi. Voi l'avete vissuta nelle vostre radici qui. E' possibile. Quando c'è amore per l'uomo, e volontà di servirlo, è possibile creare le condizioni affinché tutti abbiano accesso a beni necessari, senza che nessuno sia escluso. Cercare in ogni caso le soluzioni con il dialogo.

Sulla quarta domanda, ho risposto parlando dell'economia tutta in funzione della persona e non in funzione del denaro. La signora, l'imprenditrice, parlava della poca validità di certe strade. E ne menzionava una che io avevo menzionato nella Evangelii gaudium, che è il populismo irresponsabile, non è così? E sembra che non producano effetti… E ci sono tante teorie… Come fare? Credo che in ciò che dico sull'economia dal volto umano si possa trovare l'ispirazione per rispondere a questa domanda.

Sulla quinta domanda, credo che la risposta si trova intorno a ciò che ho detto quando ho parlato delle culture. Ossia, c'è una cultura dotta, che è una cultura ed è buona e va rispettata, certo. Oggi, ad esempio, in una parte del balletto è stata suonata una musica di una cultura dotta e buona. Ma c'è un'altra cultura, che il medesimo valore, che è la cultura dei popoli, dei popoli originari, delle diverse etnie. Una cultura che oserei chiamare – ma nel senso buono – una cultura popolare. I popoli hanno la loro cultura e fanno la loro cultura. E' importante questo lavoro per la cultura nel senso più ampio della parola. Non è cultura solamente aver studiato o poter godere di un concerto, o leggere un libro interessante, ma cultura è anche mille cose. Parlavate del tessuto di Ñandutí, per esempio: quello è cultura. Ed è cultura nata dal popolo. Per fare un esempio.

Ci sono due cose, prima di concludere, a cui vorrei fare riferimento. E in questo, poiché ci sono politici qui presenti, c'è anche il Presidente della Repubblica, lo dico fraternamente. Qualcuno mi ha detto: “Senta, il tale si trova sequestrato dall'esercito, faccia qualcosa!”. Io non dico se è vero o non è vero, se è giusto o non è giusto, ma uno dei metodi che avevano le dittature del secolo scorso, alle quali mi riferivo poco fa, era allontanare la gente, o con l'esilio o con la prigione, o, nel caso dei campi di sterminio, nazisti o stalinisti, la allontanavano con la morte… Affinché ci sia una vera cultura in un popolo, una cultura politica e del bene comune, ci vogliono con celerità giudizi chiari, giudizi limpidi. E non serve altro tipo di stratagemma. La giustizia limpida, chiara. Questo ci aiuterà tutti. Io non so se ciò qui esiste o meno, lo dico con tutto rispetto. Me lo hanno detto quando entravo, me lo hanno detto qui. E che chiedessi per non so chi… non ho sentito bene il nome.

E poi c'è un'altra cosa che pure per onestà voglio dire: un metodo che non dà libertà alle persone per assumere responsabilmente il loro compito di costruzione della società, ed è il ricatto. Il ricatto è sempre corruzione. “Se tu fai questo, ti facciamo questo, e così ti distruggiamo”. La corruzione è la tarma, è la cancrena di un popolo. Per esempio, nessun politico può svolgere il suo ruolo, il suo lavoro, se è ricattato da atteggiamenti di corruzione: “Dammi questo, dammi questo potere, dammi questo, se no ti faccio questo  e quello…”. Questo, che succede in tutti i popoli del mondo – perché questo succede – se un popolo vuole mantenere la propria dignità, deve eliminarlo. Sto parlando di un problema universale.

E concludo. Per me è una grande gioia vedere la quantità e la varietà delle associazioni che sono impegnate nella costruzione di un Paraguay sempre migliore e prospero, ma se non dialogate, non serve a nulla. Se praticate il ricatto, non serve a nulla. Questa moltitudine di gruppi e di persone sono come una sinfonia, ognuno con la sua peculiarità e la propria ricchezza, ma cercando l'armonia finale, l'armonia, e questo è ciò che conta. E non abbiate paura del conflitto, ma parlatene e cercate vie di soluzione.

Amate la vostra patria, i vostri concittadini, e soprattutto amate i più poveri. Così sarete davanti al mondo una testimonianza che un altro modello di sviluppo è possibile. Sono convinto, per la vostra storia, che avete la più grande forza che esiste: la vostra umanità, la vostra fede, il vostro amore. Questo carattere del popolo paraguaiano che lo distingue in modo così ricco tra le nazioni del mondo.

Chiedo alla Vergine di Caacupé, nostra Madre, che abbia cura di voi, vi protegga e vi sostenga nei vostri sforzi. Che Dio vi benedica e pregate per me. Grazie!

[Dopo il canto]

Un consiglio, come congedo, prima della benedizione: il peggio che può capitare ad ognuno di voi quando uscite da qui è pensare: “Che buono quello che ha detto il Papa a tizio, caio, a quell'altro…”. Se qualcuno di voi ritiene di pensare così – perché il pensiero viene spesso, anche a me a volte viene, ma bisogna scacciarlo -, dica: “Il Papa a chi ha detto questo?” “A me”. Ciascuno, chiunque sia: “A me”.

E vi invito a pregare il nostro Padre comune, tutti insieme, ciascuno nella propria lingua:

Padre nostro…



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