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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALL'APERTURA DEL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA

Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì, 16 giugno 2016

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Buona sera!

Le cinque navate piene. Bene! Si vede che c’è voglia di lavorare.

La letizia dell’amore: il cammino delle famiglie a Roma”: questo è il tema del vostro Convegno diocesano. Non inizierò parlando dell’Esortazione, dal momento che ne farete oggetto di esame in diversi gruppi di lavoro. Vorrei recuperare insieme a voi alcune idee/tensioni-chiave emerse durante il cammino sinodale, che ci possono aiutare a comprendere meglio lo spirito che si riflette nell’Esortazione. Un Documento che possa orientare le vostre riflessioni e i vostri dialoghi, e così «arrechi coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà» (AL, 4). E questa presentazione di alcune idee/tensioni-chiave, mi piacerebbe farla con tre immagini bibliche che ci permettano di prendere contatto con il passaggio dello Spirito nel discernimento dei Padri Sinodali. Tre immagini bibliche.

1. «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo» (Es 3,5). Questo fu l’invito di Dio a Mosè davanti al roveto ardente. Il terreno da attraversare, i temi da affrontare nel Sinodo, avevano bisogno di un determinato atteggiamento. Non si trattava di analizzare un argomento qualsiasi; non stavamo di fronte a una situazione qualsiasi. Avevamo davanti i volti concreti di tante famiglie. E ho saputo che, in alcuni gruppi di lavoro, durante il Sinodo, i Padri sinodali hanno condiviso la propria realtà familiare. Questo dare volto ai temi – per così dire – esigeva, ed esige, un clima di rispetto capace di aiutarci ad ascoltare quello che Dio ci sta dicendo all’interno delle nostre situazioni. Non un rispetto diplomatico o politicamente corretto, ma un rispetto carico di preoccupazioni e domande oneste che miravano alla cura delle vite che siamo chiamati a pascere. Come aiuta dare volto ai temi! E come aiuta accorgersi che dietro le carte c’è un volto, come aiuta! Ci libera dall’affrettarci per ottenere conclusioni ben formulate ma molte volte carenti di vita; ci libera dal parlare in astratto, per poterci avvicinare e impegnarci con persone concrete. Ci protegge dall’ideologizzare la fede mediante sistemi ben architettati ma che ignorano la grazia. Tante volte diventiamo pelagiani! E questo, si può fare soltanto in un clima di fede. È la fede che ci spinge a non stancarci di cercare la presenza di Dio nei cambiamenti della storia.

Ognuno di noi ha avuto un’esperienza di famiglia. In alcuni casi sgorga il rendimento di grazie con maggior facilità che in altri, ma tutti abbiamo vissuto questa esperienza. In quel contesto, Dio ci è venuto incontro. La sua Parola è venuta a noi non come una sequenza di tesi astratte, ma come una compagna di viaggio che ci ha sostenuto in mezzo al dolore, ci ha animato nella festa e ci ha sempre indicato la meta del cammino (AL, 22). Questo ci ricorda che le nostre famiglie, le famiglie nelle nostre parrocchie con i loro volti, le loro storie, con tutte le loro complicazioni non sono un problema, sono una opportunità che Dio ci mette davanti. Opportunità che ci sfida a suscitare una creatività missionaria capace di abbracciare tutte le situazioni concrete, nel nostro caso, delle famiglie romane. Non solo di quelle che vengono o si trovano nelle parrocchie – questo sarebbe facile, più o meno –, ma poter arrivare alle famiglie dei nostri quartieri, a quelli che non vengono. Questo incontro ci sfida a non dare niente e nessuno per perduto, ma a cercare, a rinnovare la speranza di sapere che Dio continua ad agire all’interno delle nostre famiglie. Ci sfida a non abbandonare nessuno perché non è all’altezza di quanto si chiede da lui. E questo ci impone di uscire dalle dichiarazioni di principio per addentrarci nel cuore palpitante dei quartieri romani e, come artigiani, metterci a plasmare in questa realtà il sogno di Dio, cosa che possono fare solo le persone di fede, quelle che non chiudono il passaggio all’azione dello Spirito, e che si sporcano le mani. Riflettere sulla vita delle nostre famiglie, così come sono e così come si trovano, ci chiede di toglierci le scarpe per scoprire la presenza di Dio. Questa è una prima immagine biblica. Andare: c’è Dio, lì. Dio che anima, Dio che vive, Dio che è crocifisso… ma è Dio.

2. Ora la seconda immagine biblica. Quella del fariseo, quando pregando diceva al Signore: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano» (Lc 18,11). Una delle tentazioni (cfr AL, 229) alla quale siamo continuamente esposti è avere una logica separatista. E’ interessante. Per difenderci, crediamo di guadagnare in identità e in sicurezza ogni volta che ci differenziamo o ci isoliamo dagli altri, specialmente da quelli che stanno vivendo in una situazione diversa. Ma l’identità non si fa nella separazione: l’identità si fa nell’appartenenza. La mia appartenenza al Signore: questo mi dà identità. Non staccarmi dagli altri perché non mi “contagino”.

Considero necessario fare un passo importante: non possiamo analizzare, riflettere e ancor meno pregare sulla realtà come se noi fossimo su sponde o sentieri diversi, come se fossimo fuori dalla storia. Tutti abbiamo bisogno di convertirci, tutti abbiamo bisogno di porci davanti al Signore e rinnovare ogni volta l’alleanza con Lui e dire insieme al pubblicano: Dio mio, abbi pietà di me che sono un peccatore! Con questo punto di partenza, rimaniamo inclusi nella stessa “parte” – non staccati, inclusi nella stessa parte – e ci poniamo davanti al Signore con un atteggiamento di umiltà e di ascolto.

Giustamente, guardare le nostre famiglie con la delicatezza con cui le guarda Dio ci aiuta a porre le nostre coscienze nella sua stessa direzione. L’accento posto sulla misericordia ci mette di fronte alla realtà in modo realistico, non però con un realismo qualsiasi, ma con il realismo di Dio. Le nostre analisi sono importanti, sono necessarie e ci aiuteranno ad avere un sano realismo. Ma nulla è paragonabile al realismo evangelico, che non si ferma alla descrizione delle situazioni, delle problematiche – meno ancora del peccato – ma che va sempre oltre e riesce a vedere dietro ogni volto, ogni storia, ogni situazione, un’opportunità, una possibilità. Il realismo evangelico si impegna con l’altro, con gli altri e non fa degli ideali e del “dover essere” un ostacolo per incontrarsi con gli altri nelle situazioni in cui si trovano. Non si tratta di non proporre l’ideale evangelico, no, non si tratta di questo. Al contrario, ci invita a viverlo all’interno della storia, con tutto ciò che comporta. E questo non significa non essere chiari nella dottrina, ma evitare di cadere in giudizi e atteggiamenti che non assumono la complessità della vita. Il realismo evangelico si sporca le mani perché sa che “grano e zizzania” crescono assieme, e il miglior grano – in questa vita – sarà sempre mescolato con un po’ di zizzania. «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione», li comprendo. «Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”». Una Chiesa capace di «assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti. Il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare (cfr Mt 7,1; Lc 6,37)» (AL, 308). E qui faccio una parentesi. Mi è venuta tra le mani – voi la conoscete sicuramente – l’immagine di quel capitello della Basilica di Santa Maria Maddalena a Vézelay, nel Sud della Francia, dove incomincia il Cammino di Santiago: da una parte c’è Giuda, impiccato, con la lingua di fuori, e dall’altra parte del capitello c’è Gesù Buon Pastore che lo porta sulle spalle, lo porta con sé. E’ un mistero, questo. Ma questi medievali, che insegnavano la catechesi con le figure, avevano capito il mistero di Giuda. E Don Primo Mazzolari ha un bel discorso, un Giovedì Santo, su questo, un bel discorso. E’ un prete non di questa diocesi, ma dell’Italia. Un prete dell’Italia che ha capito bene questa complessità della logica del Vangelo. E quello che si è sporcato di più le mani è Gesù. Gesù si è sporcato di più. Non era uno “pulito”, ma andava dalla gente, tra la gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere. Torniamo all’immagine biblica: “Ti ringrazio, Signore, perché sono dell’Azione Cattolica, o di questa associazione, o della Caritas, o di questo o di quello…, e non come questi che abitano nei quartieri e sono ladri e delinquenti e…”. Questo non aiuta la pastorale!

3. Terza immagine biblica: “Gli anziani faranno sogni profetici” (cfr Gl 3,1). Tale era una delle profezie di Gioele per il tempo dello Spirito. Gli anziani faranno sogni e i giovani avranno visioni. Con questa terza immagine vorrei sottolineare l’importanza che i Padri sinodali hanno dato al valore della testimonianza come luogo in cui si può trovare il sogno di Dio e la vita degli uomini. In questa profezia contempliamo una realtà inderogabile: nei sogni dei nostri anziani molte volte risiede la possibilità che i nostri giovani abbiano nuove visioni, abbiano nuovamente un futuro –penso ai giovani di Roma, delle periferie di Roma –, abbiano un domani, abbiano una speranza. Ma se il 40% dei giovani dai 25 anni in giù non ha lavoro, quale speranza possono avere? Qui a Roma. Come trovare la strada? Sono due realtà – gli anziani e i giovani – che vanno assieme e che hanno bisogno l’una dell’altra e sono collegate. È bello trovare sposi, coppie, che da anziani continuano a cercarsi, a guardarsi; continuano a volersi bene e a scegliersi. È tanto bello trovare “nonni” che mostrano nei loro volti raggrinziti dal tempo la gioia che nasce dall’aver fatto una scelta d’amore e per amore. A Santa Marta vengono tante coppie che fanno 50, 60 anni di matrimonio, e anche nelle udienze del mercoledì, e io sempre li abbraccio e li ringrazio della testimonianza, e chiedo: “Chi di voi ha avuto più pazienza?”. E sempre dicono: “Tutti e due!”. A volte, scherzando, uno dice: “Io!”, ma poi dice: “No, no, è uno scherzo”. E una volta c’è stata una risposta tanto bella, credo che tutti lo pensavano ma c’è stata una coppia sposata da 60 anni che è riuscita a esprimerla: “Ancora siamo innamorati!”. Che bello! I nonni che danno testimonianza. E io sempre dico: fatelo vedere ai giovani, che si stancano presto, che dopo due o tre anni dicono: “Torno da mamma”. I nonni!

Come società, abbiamo privato della loro voce i nostri anziani – questo è un peccato sociale attuale! –, li abbiamo privati del loro spazio; li abbiamo privati dell’opportunità di raccontarci la loro vita, le loro storie, le loro esperienze. Li abbiamo accantonati e così abbiamo perduto la ricchezza della loro saggezza. Scartandoli, scartiamo la possibilità di prendere contatto con il segreto che ha permesso loro di andare avanti. Ci siamo privati della testimonianza di coniugi che non solo hanno perseverato nel tempo, ma che conservano nel loro cuore la gratitudine per tutto ciò che hanno vissuto (cfr AL, 38).

Questa mancanza di modelli, di testimonianze, questa mancanza di nonni, di padri capaci di narrare sogni non permette alle giovani generazioni di “avere visioni”. E rimangono fermi. Non permette loro di fare progetti, dal momento che il futuro genera insicurezza, sfiducia, paura. Solo la testimonianza dei nostri genitori, vedere che è stato possibile lottare per qualcosa che valeva la pena, li aiuterà ad alzare lo sguardo. Come pretendiamo che i giovani vivano la sfida della famiglia, del matrimonio come un dono, se continuamente sentono dire da noi che è un peso? Se vogliamo “visioni”, lasciamo che i nostri nonni ci raccontino, che condividano i loro sogni, perché possiamo avere profezie del domani. E qui vorrei fermarmi un momento. Questa è l’ora di incoraggiare i nonni a sognare. Abbiamo bisogno dei sogni dei nonni, e di ascoltare questi sogni. La salvezza viene da qui. Non a caso quando Gesù bambino viene portato al Tempio è accolto da due “nonni”, che avevano raccontato i loro sogni: quell’anziano [Simeone] aveva “sognato”, lo Spirito gli aveva promesso che avrebbe visto il Signore. Questa è l’ora – e non è una metafora – questa è l’ora in cui i nonni devono sognare. Bisogna spingerli a sognare, a dirci qualcosa. Loro si sentono scartati, quando non disprezzati. A noi piace, nei programmi pastorali, dire: “Questa è l’ora del coraggio”, “questa è l’ora dei laici”, “questa è l’ora…”. Ma se io dovessi dire, questa è l’ora dei nonni! “Ma, Padre, lei va indietro, lei è preconciliare!”. E’ l’ora dei nonni: che i nonni sognino, e i giovani impareranno a profetizzare, e a realizzare con la loro forza, con la loro immaginazione, con il loro lavoro, i sogni dei nonni. Questa è l’ora dei nonni. E su questo mi piacerebbe tanto che voi vi soffermaste nelle vostre riflessioni, mi piacerebbe tanto.

Tre immagini, per leggere l’Amoris laetitia:

1. La vita di ogni persona, la vita di ogni famiglia dev’essere trattata con molto rispetto e molta cura. Specialmente quando riflettiamo su queste cose.

2. Guardiamoci dal mettere in campo una pastorale di ghetti e per dei ghetti.

3. Diamo spazio agli anziani perché tornino a sognare.

Tre immagini che ci ricordano come «la fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso» (AL, 181). Non come quei perfetti e immacolati che credono di sapere tutto, ma come persone che hanno conosciuto l’amore che Dio ha per noi (cfr 1 Gv 4,16). E in tale fiducia, con tale certezza, con molta umiltà e rispetto, vogliamo avvicinarci a tutti i nostri fratelli per vivere la gioia dell’amore nella famiglia. Con tale fiducia rinunciamo ai “recinti” «che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza» (AL, 308). Questo ci impone di sviluppare una pastorale familiare capace di accogliere, accompagnare, discernere e integrare. Una pastorale che permetta e renda possibile l’impalcatura adatta perché la vita a noi affidata trovi il sostegno di cui ha bisogno per svilupparsi secondo il sogno – permettetemi il riduzionismo – secondo il sogno del “più anziano”: secondo il sogno di Dio. Grazie.

DOMANDE E RISPOSTE

Cardinale Vallini:

Adesso il Santo Padre ascolterà tre domande emerse dal cammino preparatorio del nostro Convegno. Il primo è don Giampiero Palmieri, parroco di San Frumenzio.

Don Giampiero Palmieri:

Santità, buona sera. Nell’Esortazione Evangelii gaudium, Lei dice che il grande problema di oggi è l’ “individualismo comodo e avaro”; e in Amoris laetitia dice che bisogna creare reti di relazione tra le famiglie. Usa un’espressione che in italiano suona anche un po’ male: “la famiglia allargata”. Famiglia allargata, reti di relazioni tra famiglie, non solo nella Chiesa ma anche nella società, dove i più piccoli, i più poveri, le donne sole, gli anziani possano essere accolti. E' necessaria una rivoluzione della tenerezza, una fraternità mistica. Ecco, anche noi sentiamo il virus dell’individualismo nelle nostre comunità; siamo anche noi figli di questo tempo. Allora abbiamo bisogno di un aiuto per creare questa rete di relazione tra le famiglie, capace di rompere la chiusura e di ritrovarsi. Questo, forse, può significare cambiare tante cose nelle nostre parrocchie, tante cose che forse con il tempo si sono sedimentate: ostilità, divisioni, vecchi risentimenti. Questa è la domanda.

Papa Francesco:

E’ vero che l’individualismo è come l’asse di questa cultura. E questo individualismo ha tanti nomi, tanti nomi di radice egoistica: cercano sempre sé stessi, non guardano l’altro, non guardano le altre famiglie… Si arriva, a volte, a vere crudeltà pastorali. Per esempio, parlo di un’esperienza che ho conosciuto quando ero a Buenos Aires: in una diocesi vicina, alcuni parroci non volevano battezzare i bambini delle ragazze-madri. Ma guarda! Come fossero animali. E questo è individualismo. “No, noi siamo i perfetti, questa è la strada…”. E’ un individualismo che cerca anche il piacere, è edonista. Starei per dire una parola un po’ forte, ma la dico tra virgolette: quel “maledetto benessere” che ci ha fatto tanto male. Il benessere. Oggi l’Italia ha un calo delle nascite terribile: è, credo, sotto zero. Ma questo è incominciato con quella cultura del benessere, da alcuni decenni… Ho conosciuto tante famiglie che preferivano – ma per favore, non accusatemi, gli animalisti, perché non voglio offendere nessuno – preferivano avere due o tre gatti, un cane invece di un figlio. Perché fare un figlio non è facile, e poi, portarlo avanti… Ma quello che più diventa una sfida con un figlio è che tu fai una persona che diventerà libera. Il cane, il gatto, ti daranno un affetto, ma un affetto “programmato”, fino a un certo punto, non libero. Tu hai uno, due, tre, quattro figli, e saranno liberi, e dovranno andare nella vita con i rischi della vita. Questa è la sfida che fa paura: la libertà. E torniamo all’individualismo: io credo che noi abbiamo paura della libertà. Anche nella pastorale: “Ma, cosa si dirà se faccio questo?... E si può?...”. E ha paura. “Ma tu hai paura: rischia! Nel momento in cui sei lì, e devi decidere, rischia! Se sbagli, c’è il confessore, c’è il vescovo, ma rischia! E’ come quel fariseo: la pastorale delle mani pulite, tutto pulito, tutto a posto, tutto bello. Ma fuori da questo ambiente, quanta miseria, quanto dolore, quanta povertà, quanta mancanza di opportunità di sviluppo! E’ un individualismo edonista, è un individualismo che ha paura della libertà. E’ un individualismo – non so se la grammatica italiana lo permette – direi “ingabbiante”: ti ingabbia, non ti lascia volare libero.

E poi, sì, la famiglia allargata. E’ vero, è una parola che non sempre suona bene, ma secondo le culture; io l’Esortazione l’ho scritta in spagnolo… Ho conosciuto, per esempio, famiglie… Proprio l’altro giorno, una settimana fa o due, è venuto a presentare le credenziali l’ambasciatore di un Paese. C’era l’ambasciatore, la famiglia e la signora che faceva le pulizie nella loro casa da tanti anni: questa è una famiglia allargata. E questa donna era della famiglia: una donna sola, e non solo la pagavano bene, la pagavano in regola, ma quando sono dovuti andare dal Papa a dare le credenziali: “tu vieni con noi, perché tu sei della famiglia”. E’ un esempio. Questo è dare posto alla gente. E fra la gente semplice, con la semplicità del Vangelo, quella semplicità buona, ci sono esempi così, di allargare la famiglia…

E poi, l’altra parola-chiave che tu hai detto, oltre all’individualismo, alla paura della libertà e all’attaccamento al piacere, tu hai detto un’altra parola: la tenerezza. E’ la carezza di Dio, la tenerezza. Una volta, in un Sinodo, è uscito questo: “Dobbiamo fare la rivoluzione della tenerezza”. E alcuni Padri – anni fa – hanno detto: “Ma non si può dire questo, non suona bene”. Ma oggi lo possiamo dire: manca tenerezza, manca tenerezza. Accarezzare non solo i bambini, gli ammalati, accarezzare tutto, i peccatori… E ci sono esempi buoni, di tenerezza… La tenerezza è un linguaggio che vale per i più piccoli, per quelli che non hanno niente: un bambino conosce il papà e la mamma per le carezze, poi la voce, ma è sempre la tenerezza. E a me piace sentire quando il papà o la mamma parlano al bambino che incomincia a parlare, anche il papà e la mamma si fanno bambini [fa il verso], parlano così… Tutti lo abbiamo visto, è vero. Questa è la tenerezza. E’ abbassarmi al livello dell’altro. E’ la strada che ha fatto Gesù. Gesù non ha ritenuto un privilegio essere Dio: si è abbassato (cfr Fil 2,6-7). E ha parlato la nostra lingua, ha parlato con i nostri gesti. E la strada di Gesù è la strada della tenerezza. Ecco: l’edonismo, la paura della libertà, questo è proprio individualismo contemporaneo. Bisogna uscire attraverso la strada della tenerezza, dell’ascolto, dell’accompagnare, senza chiedere… Sì, con questo linguaggio, con questo atteggiamento le famiglie crescono: c’è la piccola famiglia, poi la grande famiglia degli amici o di quelli che vengono… Non so se ho risposto, ma mi sembra, mi è venuto così.

(Seconda domanda)

Santità buonasera, torno su un argomento che Lei ha già accennato. Noi sappiamo che come comunità cristiane non vogliamo rinunciare alle esigenze radicali del Vangelo della famiglia: il matrimonio come Sacramento, l’indissolubilità, la fedeltà del matrimonio; e, dall’altra parte, all’accoglienza piena di misericordia verso tutte le situazioni, anche quelle più difficili. Come evitare che nelle nostre comunità nasca una doppia morale, una esigente e una permissiva, una rigorista e una lassista?

Papa Francesco:

Entrambe non sono verità: né il rigorismo né il lassismo sono verità. Il Vangelo sceglie un’altra strada. Per questo, quelle quattro parole – accogliere, accompagnare, integrare, discernere – senza mettere il naso nella vita morale della gente. Per la vostra tranquillità, devo dirvi che tutto quello che è scritto nell’Esortazione – e riprendo le parole di un grande teologo che è stato segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Schönborn, che l’ha presentata – tutto è tomista, dall’inizio alla fine. E’ la dottrina sicura. Ma noi vogliamo, tante volte, che la dottrina sicura abbia quella sicurezza matematica che non esiste, né con il lassismo, di manica larga, né con la rigidità. Pensiamo a Gesù: la storia è la stessa, si ripete. Gesù, quando parlava alla gente, la gente diceva: “Costui parla non come i nostri dottori della legge, parla come uno che ha autorità” (cfr Mc 1,22). Quei dottori conoscevano la legge, e per ogni caso avevano una legge specifica, per arrivare alla fine a circa 600 precetti. Tutto regolato, tutto. E il Signore – l’ira di Dio io la vedo in quel capitolo 23 di Matteo, è terribile quel capitolo – soprattutto a me fa impressione quando parla del quarto comandamento e dice: “Voi, che invece di dare da mangiare ai vostri genitori anziani, dite loro: ‘No, ho fatto la promessa, è meglio l’altare che voi’, siete in contraddizione” (cfr Mc 7,10-13). Gesù era così, ed è stato condannato per odio, gli mettevano sempre dei trabocchetti davanti: “Si può far questo o non si può?”. Pensiamo alla scena dell’adultera (cfr Gv 8,1-11). Sta scritto: dev’essere lapidata. E’ la morale. E’ chiara. E non rigida, questa non è rigida, è una morale chiara. Dev’essere lapidata. Perché? Per la sacralità del matrimonio, la fedeltà. Gesù in questo è chiaro. La parola è adulterio. E’ chiaro. E Gesù si fa un po’ il finto tonto, lascia passare il tempo, scrive per terra… E poi dice: “Incominciate: il primo di voi che non abbia peccato, scagli la prima pietra”. Ha mancato verso la legge, Gesù, in quel caso. Se ne sono andati via, incominciando dai più vecchi. “Donna, nessuno ti ha condannato? Neppure io”. La morale qual è? Era di lapidarla. Ma Gesù manca, ha mancato verso la morale. Questo ci fa pensare che non si può parlare della “rigidità”, della “sicurezza”, di essere matematico nella morale, come la morale del Vangelo.

Poi, continuiamo con le donne: quando quella signora o signorina [la Samaritana, cfr Gv 4,1-27], non so cosa fosse, incominciò a fare un po’ la “catechista” e a dire: “Ma bisogna adorare Dio su questo monte o in quello?...”. Gesù le aveva detto: “E tuo marito?...” – “Non ne ho” – “Hai detto la verità”. E in effetti lei aveva tante medaglie di adulterio, tante “onorificenze”… Eppure è stata lei, prima di essere perdonata, è stata l’“apostolo” della Samaria. E allora come si deve fare? Andiamo al Vangelo, andiamo a Gesù! Questo non significa buttare l’acqua sporca con il bambino, no, no. Questo significa cercare la verità; e che la morale è un atto d’amore, sempre: amore a Dio, amore al prossimo. E’ anche un atto che lascia spazio alla conversione dell’altro, non condanna subito, lascia spazio.

Una volta – ci sono tanti preti, qui, ma scusatemi – il mio predecessore, no, l’altro, il Cardinale Aramburu, che è morto dopo il mio predecessore, quando io sono stato nominato arcivescovo mi ha dato un consiglio: “Quando tu vedi che un sacerdote vacilla un po’, scivola, tu chiamalo e digli: ‘Parliamo un po’, mi hanno detto che tu sei in questa situazione, quasi di doppia vita, non so…’; e tu vedrai che quel sacerdote incomincia a dire: ‘No, non è vero, no…’; tu interrompilo e digli: ‘Ascoltami: vai a casa, pensaci, e torna tra quindici giorni, e ne riparliamo’; e in quei quindici giorni quel sacerdote – così mi diceva lui – aveva il tempo di pensare, ripensare davanti a Gesù e tornare: ‘Sì, è vero. Aiutami!’”. Sempre ci vuole tempo. “Ma, Padre, quel prete ha vissuto, e ha celebrato la Messa, in peccato mortale in quei quindici giorni, così dice la morale, e Lei cosa dice?”. Cosa è meglio? Cosa è stato meglio? Che il vescovo abbia avuto quella generosità di dargli quindici giorni per ripensarci, con il rischio di celebrare la Messa in peccato mortale, è meglio questo o l’altro, la morale rigida? E a proposito della morale rigida, vi dirò un fatto a cui ho assistito io stesso. Quando noi eravamo in teologia, l’esame per ascoltare le Confessioni – “ad audiendas”, si chiamava – si faceva al terzo anno, ma noi, quelli del secondo, avevamo il permesso di andare ad assistere per prepararci; e una volta, a un nostro compagno, è stato proposto un caso, di una persona che va a confessarsi, ma un caso così intricato, riguardo al settimo comandamento, “de justitia et jure”; ma era proprio un caso talmente irreale...; e questo compagno, che era una persona normale, disse al professore: “Ma, padre, questo nella vita non si trova” – “Sì, ma c’è nei libri!”. Questo l’ho visto io.

(Terza domanda)

Santità, buonasera. Dovunque andiamo, oggi sentiamo parlare di crisi del matrimonio. E allora Le volevo domandare: su cosa possiamo puntare oggi per educare i giovani all’amore, in particolar modo al matrimonio sacramentale, superando le loro resistenze, lo scetticismo, le disillusioni, la paura del definitivo? Grazie.

Papa Francesco:

Ti prendo l’ultima parola: noi viviamo anche una cultura del provvisorio. Un vescovo, ho sentito dire, alcuni mesi fa, che gli si è presentato un ragazzo che aveva finito gli studi universitari, un bravo giovane, e gli ha detto: “Io voglio diventare sacerdote, ma per dieci anni”. E’ la cultura del provvisorio. E questo succede dappertutto, anche nella vita sacerdotale, nella vita religiosa. Il provvisorio. E per questo una parte dei nostri matrimoni sacramentali sono nulli, perché loro [gli sposi] dicono: “Sì, per tutta la vita”, ma non sanno quello che dicono, perché hanno un’altra cultura. Lo dicono, e hanno la buona volontà, ma non hanno la consapevolezza. Una signora, una volta, a Buenos Aires, mi ha rimproverato: “Voi preti siete furbi, perché per diventare preti studiate otto anni, e poi, se le cose non vanno e il prete trova una ragazza che gli piace… alla fine gli date il permesso di sposarsi e fare una famiglia. E a noi laici, che dobbiamo fare il sacramento per tutta la vita e indissolubile, ci fanno fare quattro conferenze, e questo per tutta la vita!”. Per me, uno dei problemi, è questo: la preparazione al matrimonio.

E poi la questione è molto legata al fatto sociale. Io ricordo, ho chiamato – qui in Italia, l’anno scorso – ho chiamato un ragazzo che avevo conosciuto tempo fa a Ciampino, e si sposava. L’ho chiamato e gli ho detto: “Mi ha detto tua mamma che ti sposerai il prossimo mese… Dove farai?…” – “Ma non sappiamo, perché stiamo cercando la chiesa che sia adatta al vestito della mia ragazza… E poi dobbiamo fare tante cose: le bomboniere, e poi cercare un ristorante che non sia lontano…”. Queste sono le preoccupazioni! Un fatto sociale. Come cambiare questo? Non so. Un fatto sociale a Buenos Aires: io ho proibito di fare matrimoni religiosi, a Buenos Aires, nei casi che noi chiamiamo “matrimonios de apuro”, matrimoni “di fretta” [riparatori], quando è in arrivo il bambino. Adesso stanno cambiando le cose, ma c’è questo: socialmente deve essere tutto in regola, arriva il bambino, facciamo il matrimonio. Io ho proibito di farlo, perché non sono liberi, non sono liberi! Forse si amano. E ho visto dei casi belli, in cui poi, dopo due-tre anni, si sono sposati, e li ho visti entrare in chiesa papà, mamma e bambino per mano. Ma sapevano bene quello che facevano. La crisi del matrimonio è perché non si sa cosa è il sacramento, la bellezza del sacramento: non si sa che è indissolubile, non si sa che è per tutta la vita. E’ difficile. Un’altra mia esperienza a Buenos Aires: i parroci, quando facevano i corsi di preparazione, c’erano sempre 12-13 coppie, non di più, non arrivare a 30 persone. La prima domanda che facevano: “Quanti di voi siete conviventi?”. La maggioranza alzava la mano. Preferiscono convivere, e questa è una sfida, chiede lavoro. Non dire subito: “Perché non ti sposi in chiesa?”. No. Accompagnarli: aspettare e far maturare. E fare maturare la fedeltà. Nella campagna argentina, nella zona del Nordest, c’è una superstizione: che i fidanzati hanno il figlio, convivono. In campagna succede questo. Poi, quando il figlio deve andare a scuola, fanno il matrimonio civile. E poi, da nonni, fanno il matrimonio religioso. E’ una superstizione, perché dicono che farlo subito religioso spaventa il marito! Dobbiamo lottare anche contro queste superstizioni. Eppure davvero dico che ho visto tanta fedeltà in queste convivenze, tanta fedeltà; e sono sicuro che questo è un matrimonio vero, hanno la grazia del matrimonio, proprio per la fedeltà che hanno. Ma ci sono superstizioni locali. E’ la pastorale più difficile, quella del matrimonio.

E poi, la pace nella famiglia. Non solo quando discutono tra loro, e il consiglio è sempre di non finire la giornata senza fare la pace, perché la guerra fredda del giorno dopo è peggio. E’ peggio, sì, è peggio. Ma quando si immischiano i parenti, i suoceri, perché non è facile diventare suocero o suocera! Non è facile. Ho sentito una cosa bella, che piacerà alle donne: quando una donna sente dall’ecografia che è incinta di un maschietto, da quel momento incomincia a studiare per diventare suocera!

Torno sul serio: la preparazione al matrimonio, la si deve fare con vicinanza, senza spaventarsi, lentamente. E’ un cammino di conversione, tante volte. Ci sono, ci sono ragazzi e ragazze che hanno una purezza, un amore grande e sanno quello che fanno. Ma sono pochi. La cultura di oggi ci presenta questi ragazzi, sono buoni, e dobbiamo accostarci e accompagnarli, accompagnarli, fino al momento della maturità. E lì, che facciano il sacramento, ma gioiosi, gioiosi! Ci vuole tanta pazienza, tanta pazienza. E’ la stessa pazienza che ci vuole per la pastorale delle vocazioni. Ascoltare le stesse cose, ascoltare: l’apostolato dell’orecchio, ascoltare, accompagnare… Non spaventarsi, per favore, non spaventarsi. Non so se ho risposto, ma ti parlo della mia esperienza, di quello che ho vissuto come parroco.

[Alla fine]

Grazie tante e pregate per me!

 



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